N.04
Luglio/Agosto 2003

Giovani tra vocazione e autorealizzazione

Le aurore vengono sempre pagate coi tramonti (K. Rahner). Ho scelto questa frase per introdurmi al tema che mi è stato affidato, nella consapevolezza che stiamo pagando il prezzo dell’aurora del terzo millennio, il prezzo di costruire un mondo diverso, più umano, più in pace. Un prezzo molto amaro, purtroppo! che ci vede tutti coinvolti in tante guerre che nessuno vorrebbe… Si è lavorato parecchio per distruggere le frontiere e nuove barriere materiali e psicologiche rinascono ogni giorno; eppure dobbiamo guardare avanti, fiduciosi che Dio scrive diritto su righe storte, fiduciosi che la dolce Provvidenza del padre si alza prima dell’aurora. Dobbiamo avere occhi di futuro per le nuove generazioni di oggi e di domani, per le “sentinelle del mattino”.

Una difficoltà che ho trovato nell’affrontare il tema è quella di sentirmi personalmente e totalmente coinvolta in questo nostro tempo, in questo “stare con amore dentro la storia”, e in tutti gli avvenimenti che la caratterizzano, da non riuscire forse a leggere con obiettività alcuni fenomeni, a partire da quello della globalizzazione. Ciò nonostante ho voluto cimentarmi e ora provo ad offrire alcune stimolazioni al riguardo, cercando di essere fedele al tema che sono stata invitata a trattare.

 

Premessa

Noi sociologi, in questi anni, abbiamo studiato il problema del “mondo in cambiamento”, ma dopo l’11 settembre abbiamo iniziato a studiare il “cambiamento del mondo”… L’11 settembre, a causa della globalizzazione, il mondo intero è stato messo nella condizione di vedere, di sentire, di indignarsi, di esprimere solidarietà in tempo reale. La globalizzazione, infatti, riesce a creare flussi di conoscenze, influenze, interrelazioni, comunicazioni, mai prima conosciuti. Dopo l’11 settembre qualcosa è capitato rispetto alla globalizzazione intesa come trionfo del welfare state. Si è capito che il mercato non può tutto.

Il mondo è cambiato dal punto di vista strutturale: cambia la geografia del pianeta dal punto di vista del potere, della ripartizione della ricchezza, della creazione di nuove sacche di povertà, della finanza, degli scambi virtuali (pensiamo agli interscambi via internet), dell’organizzazione interna agli Stati, della migrazione (immigrazione e emigrazione) dei popoli… Il mondo è cambiato dal punto di vista culturale: cambia la gerarchia dei valori; cambiano le opinioni, i comportamenti di vita, le Weltanschauung…

Questo premesso, dato il tema su cui sono stata invitata a riflettere, mi pare più importante mettere l’accento sui cambiamenti culturali, pur non ignorando che anche quelli sociali hanno il loro peso. Per entrare nel tema mi sembra importante fare alcune annotazioni preliminari.

 

Annotazioni sul concetto di cultura

Il concetto di cultura è controverso e discusso; la storia delle scienze umane ce ne consegna una pluralità di interpretazioni. Per questo, per non disperdermi, ho optato per un concetto “operativo” che fissi alcuni punti di riferimento collegati al tema della scelta e dell’impegno vocazionale.

“Nel suo significato più ampio, la cultura può oggi essere considerata come l’insieme dei tratti distintivi, spirituali e materiali, intellettivi e affettivi, che caratterizzano una società o un gruppo sociale. Essa comprende, oltre alle arti e alle lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali dell’essere umano, i sistemi di valori, le tradizioni, le credenze. La cultura dà all’uomo la capacità di riflessione su se stesso. Essa fa di noi degli esseri specificamente umani, razionali, critici ed eticamente impegnati. È mediante essa che discerniamo i valori ed effettuiamo le scelte. È per essa che l’uomo si esprime, prende coscienza di sé, si riconosce come progetto incompiuto, rimette in questione le proprie realizzazioni, ricerca instancabilmente nuovi significati e crea opere che lo trascendono”[1].Noi siamo contemporaneamente padri e figli della nostra cultura.

La cultura non è dunque “qualcosa fuori di noi”, ma piuttosto qualcosa al cui interno, sempre e necessariamente, ci muoviamo, cresciamo, ci costruiamo. Non è mai puramente un prodotto cosciente del singolo, ma neppure è un condizionamento insuperabile. Nel “maneggiarla” quotidianamente, la assumiamo e la trasformiamo, imprimendole così un carattere dinamico. Ed è proprio per questo, concretamente, che la cultura può essere evangelizzata[2].

Il tema della cultura non è periferico o congiunturale alla missione della Chiesa, perché essa esiste per evangelizzare ed è possibile evangelizzare solo quando il Vangelo penetra nel cuore delle culture. Un Vangelo che non si incultura – ha detto Giovanni Paolo II al Convegno della Chiesa italiana a Palermo – non è pienamente accolto né interamente pensato e vissuto e una cultura che non trae dalla fede aperture e correzioni inedite non è in grado di rispondere alle esigenze più profonde della persona[3].

Le implicanze pratiche del concetto di cultura riguardo al nostro tema sono evidenti. Innanzi tutto, al centro della cultura c’è la persona umana (la persona umana concreta) con la sua identità e la sua storia. Ogni persona è segnata dalla cultura attraverso la famiglia, la scuola, la parrocchia, i gruppi umani cui appartiene e con i quali entra in relazione, i percorsi educativi e lo stesso rapporto fondamentale che ha con l’ambiente concreto in cui vive. Ogni vocazione (la vita è vocazione) nasce e matura in un contesto culturale concreto, nasce e matura in una famiglia… Interroghiamoci: quanto la crisi della famiglia pesa sulla scelta vocazionale?

Pertanto, considerando sia una singola cultura, sia una situazione di multiculturalità (come quella che oggi stiamo vivendo), è importante riaffermare che la persona umana – sempre e comunque – è il valore supremo e che i diritti fondamentali basati su questo valore sono il solido fondamento per la pace interna ed esterna delle nazioni, per la democrazia, per lo sviluppo e la solidarietà internazionale, per l’evangelizzazione.

Purtroppo però, oggi, la persona rischia di non essere più metro di misura della dinamica culturale ed è sotto gli occhi di tutti il rischio che cresca la disumanizzazione e si aggravi sempre di più la crisi antropologica che è il nodo di tutte le crisi che caratterizzano il processo di globalizzazione, cioè quel processo complesso che crea il “villaggio globale” e coinvolge popoli, culture, sistemi economici e finanziari, rischiando di creare nuove colonizzazioni sociali e culturali. Non intendo entrare nei dettagli nel presentare la globalizzazione, preciso soltanto che la globalizzazione è una realtà di fatto, un processo di interscambio planetario che mette in relazione Paesi, economie, mercati, religioni, culture, valori. È un processo che potrebbe creare migliori possibilità di vita per tutti e genera invece difficoltà, povertà, conflitti.

 

Alcuni aspetti della globalizzazione

Gli effetti negativi del processo di globalizzazione, sotto il profilo culturale, sono, o potrebbero essere, molti. La globalizzazione stimola l’omologazione culturale (spegne le particolarità e penalizza la diversità; considera le diversità come minaccia e non come risorsa, fattore di crescita e di arricchimento… Vorrei porre l’accento sul mistero del diverso… Vi siete mai trovati in montagna, davanti a un prato coperto di fiori… Avete mai pensato alla bellezza di essere unici, non clonati…); genera il monopolio nei sistemi di comunicazione (il potere è sempre più in mano ai detentori delle comunicazioni); mette in crisi le identità culturali e personali (pensiamo alla crisi dell’autorità sia personale come istituzionale e alla crisi delle mediazioni… Pensiamo alla crisi del sacramento della riconciliazione…), crea complessi di superiorità o inferiorità tra culture; porta a forme radicali di individualismo e all’assolutizzazione dell’una o dell’altra identità culturale. Pensiamo all’influenza di tutto questo sulle nuove generazioni e sulla stessa vita del nostro Paese, sempre più multiculturale e sempre più coinvolto nella globalizzazione.

Nel mondo della globalizzazione si diffonde un’etica dell’accontentamento di sé senza altre preoccupazioni. Dilagano l’indifferenza per tutto e per tutti, l’incertezza e l’insicurezza di fronte alla complessità delle proposte e un soggettivismo, anche religioso, che coinvolge verità rivelate e comportamenti etici. Nella recente ricerca del CENSIS si afferma che i giovani ripropongono in maniera speculare le contraddizioni, le speranze, le angosce del mondo degli adulti, della nostra società (l’etica dell’accontentamento di sé, l’indifferenza, l’incertezza, l’insicurezza). A proposito della spiritualità, nella ricerca si registra che i giovani avvertono il bisogno di scavare nella dimensione della spiritualità (il 34 % di essi sente la necessità di riflettere sul tema della trascendenza). Ciò che colpisce, però, è la tendenza dei giovani a costruirsi “percorsi spirituali personalizzati”, spontanei, che vanno dalla preghiera alla meditazione. Colpisce, tra l’altro, l’orientamento dei giovani a rendere “l’amore per gli altri” uno strumento attraverso cui soddisfare il proprio bisogno di spiritualità.

Alcuni dati interessanti possono essere trovati nel quinto Rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia curato da G. BUZZI – A. CAVALLI – A. DE LILLO, Giovani del nuovo secolo (Bologna, Il Mulino 2002). Il capitolo VI pp. 367-383 è dedicato alla religiosità giovanile.

 

Alcuni aspetti positivi della globalizzazione culturale

Pur tenendo conto degli innumerevoli effetti negativi che la globalizzazione comporta, non possiamo e non dobbiamo demonizzarla poiché essa presenta anche aspetti positivi culturali: la diffusione delle conoscenze, l’accesso alle tecnologie avanzate, la facilitazione delle comunicazioni, la molteplicità delle proposte, la coscientizzazione delle situazioni di povertà e di sfruttamento, la creazione di reti tra culture e centri culturali, la coscienza di una solidarietà planetaria, ecc., non solo, ma comporta effetti positivi a livello personale. Essa chiama in causa innanzi tutto la persona umana, fa esplodere il suo bisogno di senso e di speranza (contro la disumanizzazione), il suo bisogno di libertà e dignità (contro l’egemonia dei diversi poteri), il suo bisogno di solidarietà e di etica pubblica (contro i vari individualismi e l’omologazione dilagante), il suo bisogno di relazioni interpersonali autentiche e di una comunicazione non manipolata (contro la solitudine e l’invasione massificante dei media).

Penso in questo momento alla solitudine del mondo giovanile… Questo grande e crescente problema… Permettetemi di citarvi una poesia che scrissi anni fa… “Piange / un gabbiano / l’immensa solitudine / del suo volo. / Non sa, / ma vola / dentro la culla grande / del tuo cielo. / Dio / d’infinita tenerezza…”. Noi dobbiamo essere gli intermediari che aiutano i giovani a sperimentare la tenerezza di Dio…

 

Il significato profondo della globalizzazione

La vera scommessa della globalizzazione, che ci coinvolge tutti, è la seguente: il suo significato profondo non è principalmente sociale o economico o politico, ma antropologico. A essere globale è innanzi tutto l’umanità con la sua sete di libertà e di dignità, la famiglia umana, la famiglia dei popoli. Il riferimento all’umanità, ovviamente, chiama in causa la formazione delle nuove generazioni (e quindi la proposta vocazionale). Non dobbiamo pertanto avere paura di prendere coscienza dei limiti e delle risorse della cultura globalizzata in cui siamo inculturati, dobbiamo anzi desiderare di conoscerla, ripensare a come far fronte alle difficoltà che essa comporta e valorizzarne le risorse.

Di qui l’esigenza di un “codice etico comune” per governare la globalizzazione, un codice etico a cui educare le nuove generazioni; un codice basato su due principi fondamentali: il valore inalienabile della persona umana, fonte di tutti i diritti, di ogni ordine sociale (l’essere umano deve essere sempre un fine, un soggetto, non un oggetto o una merce di scambio); il valore delle culture umane, che nessun potere esteriore ha il diritto di sminuire e tanto meno di distruggere, perché le culture sono la chiave per interpretare la vita. Pensiamo al grave problema dell’immigrazione e dell’emigrazione…

La globalizzazione chiama in causa anche ciascuno di noi, la nostra missione formativa: le giovani generazioni sono l’opportunità che ci è offerta per formare uomini e donne capaci di “umanizzare” i dinamismi della globalizzazione, uomini e donne capaci di scelta e di fedeltà alla propria vocazione – nella famiglia, nella Chiesa, nella società… –, che è chiamata innanzitutto ad essere uomini e donne senza aggettivi, come direbbe Mons. Tonino Bello.

 

Le condizioni per umanizzare la globalizzazione

Questo premesso cerchiamo di individuare alcune condizioni per umanizzare la globalizzazione. Considerando in particolare l’esigenza di formare per la vita e alla vita le nuove generazioni, domandiamoci: a quali condizioni possiamo umanizzare la globalizzazione, cioè il contesto in cui nascono e maturano le vocazioni?

– Cogliendo e valorizzando alcune risorse che lo caratterizzano: il bisogno di senso di fronte alla pluralità delle proposte offerte dal contesto globalizzato; l’esigenza di solidarietà di fronte a forme radicali di individualismo e di assolutizzazione di un’identità culturale; la ricerca di relazioni interpersonali sincere di fronte all’isolamento e alla chiusura di interessi individuali.

– Sollecitando l’evolversi verso una cultura della persona soggetto, uomo e donna, autocosciente e libera, ma anche aperta alla verità, agli altri, a Dio.

– Facendo tesoro della situazione multiculturale che caratterizza il nostro Paese, la Chiesa che è la nostra Diocesi. Permettetemi di aprire una parentesi al riguardo: vorrei porre l’accento sulla ricchezza che riceviamo proprio qui, a Roma, dalle altre culture. Innanzitutto pensiamo alla ricchezza che ci viene dalla presenza del nostro Vescovo. Coloro che provengono dall’America Latina ci fanno dono dell’impegno operativo per la giustizia e dell’opzione per i poveri, che nelle loro Chiese di provenienza sono diventati stile di vita semplice con un inserimento tra la gente e una spiritualità conseguenti; i fratelli e le sorelle dell’Asia ci fanno dono della dimensione contemplativa, che hanno particolarmente coltivato, dando grande spazio a molteplici forme di preghiera; quelli dell’Africa ci fanno riscoprire i legami di appartenenza solidale alla grande famiglia umana e il gusto della condivisione; quelli dell’Est Europeo, che hanno vissuto il martirio sotto il comunismo, ci stimolano a riscoprire ciò che è essenziale nella vita consacrata e a rifondarla sull’interiorità. È un interscambio di doni che ci rende più aperti e disponibili a capire la ricchezza e il peso della globalizzazione e a impegnarci nella ricerca continua dell’equilibrio tra senso dell’universalità (pensare globalmente) e senso della particolarità (agire localmente), tra identità culturale e identità personale.

– Riaffermando che dalla centralità di Cristo si può ricavare un orientamento globale per tutta l’antropologia, e in tal modo per una cultura ispirata e qualificata in senso cristiano. Ripartire da Cristo è la splendida indicazione che viene dalla Novo Millennio Ineunte e dal documento Ripartire da Cristo.

 

Alcune implicanze della globalizzazione in rapporto al mondo giovanile

Quello dei giovani è un mondo complesso e ambiguo. La stessa parola giovani dice realtà diverse: adolescenti, giovani adulti, giovani maschi e femmine, giovani della notte, giovani a rischio, ecc… Si parla oggi di una “generazione X”, di giovani “dall’identità debole” (in cui aumentano i fattori di vulnerabilità, di precarietà sociale, estranei al proprio contesto culturale, divisi dagli adulti…, manipolati dai media, indifferenti alla religione o seguaci delle sètte…) e nello stesso tempo di giovani dall’identità aperta e dinamica (che rivendicano il diritto alla differenza, all’autostima, alla responsabilità, che cercano un senso per la propria vita, che lottano per la pace…). Voglio leggervi la lettera di un giovane. L’ha inviata al Direttore della rivista “Dimensioni nuove”, una rivista dei salesiani, che forse conoscete.

“Non ce l’ho fatta e ho avuto bisogno di scrivervi. La mia generazione è nata nella violenza, nel mondo i bambini muoiono di fame e di sete, ovunque subiscono violenze di ogni genere. Mi sono ormai abituato a vedere tutto senza provare emozioni, a disinteressarmi di tutto e di tutti. Mi assumo in anticipo tutte le colpe del mio futuro, ma la generazione di mio padre si deve assumere le colpe di ciò che io penso e di ciò che io sono diventato. Noi giovani siamo una società a parte. Che a un bambino rubino le caramelle o che i figli uccidano i propri genitori, le emozioni per noi sono le stesse… Contro qualcuno ci dobbiamo sfogare: che sia il barbone, l’ubriaco, la prostituta, la persona anziana, non importa, l’importante è che sia più debole di noi e se non lo è ricorro alle armi. Perché siamo carichi della violenza che vediamo in TV e per la strada… Sono una bomba inesplosa, la mia generazione è un insieme di bombe inesplose, basta un click, e io come gli altri siamo disposti a uccidere per un nulla… La mia generazione non vuole le grandi guerre con i grandi eroi, ma vuole la guerra personale, dove chi vince, vince per se stesso e per nessun altro… Non chiedeteci perché ci droghiamo, perché ci ubriachiamo, perché siamo violenti, perché adoriamo satana o ci inventiamo i nostri linguaggi. Piuttosto chiedetevi dove voi grandi avete sbagliato. Se la vostra risposta è un insieme di scuse, oppure è un cercare di scaricarvi la responsabilità, allora voi siete i primi a dover maturare…”.

Penso che la lettera si commenti da sola. La lettera interpella in prima persona noi adulti, interpella la nostra capacità di essere educatori ed educatrici, formatori e formatrici… “I giovani europei – si legge nel Documento finale del Congresso sulle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa – vivono in […una] cultura pluralista e ambivalente, ‘politeista’ e neutra. Da un lato cercano appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza di orizzonti, dall’altro sono fondamentalmente soli, ‘feriti’ dal benessere, delusi dalle ideologie, confusi dal disorientamento etico”.

Ci sono giovani che non sperano più niente dalla vita, che hanno consumato la vita, gli affetti, gli studi, le relazioni, i sogni, e ci sono giovani che scelgono il volontariato, l’impegno missionario, il servizio ai poveri, l’associazionismo, la vita consacrata. Per quanto riguarda quest’ultima scelta, le statistiche rilevano che, anche se in numero ridotto rispetto al passato, fioriscono le vocazioni maschili e femminili sia nell’Europa dell’ovest come nell’Europa dell’est, sia donne come uomini.

Sempre per quanto riguarda la condizione giovanile, vorrei segnalare alcuni nodi che ostacolano la scelta e la proposta vocazionale – sia dei giovani come delle giovani – e con i quali dobbiamo fare i conti sviluppando proposte concrete e creative che vadano al “cuore dei problemi e delle risorse” della globalizzazione. Prima però vorrei indicare alcune conclusioni della ricerca commissionata al CENSIS dall’Osservatorio Europeo sui giovani. La ricerca pubblicata qualche mese fa è stata realizzata su un campione rappresentativo di italiani tra i 15 e i 30 anni (cfr. Ricerca CENSIS 2002, Giovani lasciati al presente, in “Docete” 53 [2002] n. 548, 24-28). È infatti in questo lungo intervallo di età che si consumano i riti, le fughe in avanti e le zone d’ombra che accompagnano la stagione dell’adolescenza lunga dei giovani italiani. Obiettivo dell’indagine era quello di capire i cambiamenti in atto nella cultura e nell’identità giovanile. Di questa indagine desidero considerare brevemente alcuni risultati che potrebbero interessare la riflessione sulle vocazioni.

L’indagine evidenzia che i giovani italiani non hanno una vocazione spiccata all’impegno pubblico, all’impegno nel sociale e nel politico e sono “appiattiti sul presente”. Per questo essi privilegiano, su tutti i piani, le relazioni corte e di chiara immediatezza. Vogliono “essere ora” e fanno fatica a scegliere e a progettare. 

Per quanto riguarda le relazioni affettive, l’amore rimane una dimensione “da sogno”: nessuno si nega un futuro in cui ci sia spazio per un innamoramento, ma al tempo stesso, senza una particolare voglia di investire su di esso. Sì all’amore, dunque, no ai legami più istituzionali che comportano investimenti di vita. I giovani temono l’impegno che gli investimenti interiori comportano, così come temono l’imprevisto (la solitudine, la morte, il dolore).

Riguardo alla spiritualità la ricerca annota che c’è la necessità di riflettere sul tema della trascendenza, ma anche che i giovani tendono a costruirsi “percorsi spirituali personalizzati”, “spontanei”. La famiglia resta un’agenzia importante di sicurizzazione, non tanto e non solo perché il 73,2% dei giovani vive ancora all’interno dei nuclei di origine, ma per il legame profondo che lega i giovani alle proprie radici. Le figure del padre e della madre offrono ancora modelli, almeno per alcuni aspetti, da seguire. I giovani aspirano ad una tipologia di famiglia generalmente molto tradizionale: uomini e donne possono occuparsi indifferentemente dell’organizzazione di casa e della partecipazione al bilancio familiare, ma delle attività domestiche debbono farsi carico soprattutto le donne.

Permettetemi una parentesi. Voglio farvi partecipi di una testimonianza che ho letto recentemente in un libro (La guerra di Fran) e che può dirci qualcosa di significativo sulla famiglia. L’ha scritto una giornalista che ha vissuto in prima persona la guerra in Bosnia… Per comunicare la sua esperienza l’ha trasformata in romanzo.

Fran è un’adolescente che sta vivendo la terribile guerra della Bosnia… Mentre enumera le sue sofferenze e quelle del suo popolo, parla anche dell’amicizia con un sacerdote cattolico (Patrick) e ricorda una storia che lui le ha raccontato.

Un soldato, dopo anni, era finalmente tornato dalla guerra del Vietnam e aveva chiamato i genitori dall’aeroporto di San Francisco, chiedendo se poteva portare a casa anche un suo amico. Gli dissero subito di sì, che sarebbero stati contenti di conoscerlo, ma quando egli aggiunse che l’amico era saltato su una mina e ci aveva rimesso un braccio e una gamba, e chiese di poterlo ospitare perché l’amico non aveva un posto dove andare, gli risposero che erano molto dispiaciuti, e che forse potevano trovargli un alloggio da qualche parte. No, replicò il soldato, voi non avete capito. Io voglio che venga a vivere da noi. Allora i suoi gli dissero che dispiaceva loro, ma non potevano prendersi sulle spalle un peso simile e che egli non si rendeva conto di che cosa volesse dire un disabile in casa… Facevano già fatica a tirare avanti per conto loro senza questo problema. Insomma, gli consigliarono di lasciar perdere l’amico, che avrebbe trovato modo di arrangiarsi, e lo invitarono a tornare a casa da solo. Il ragazzo riattaccò il telefono e i genitori non ne seppero più nulla.

Dopo diversi giorni ricevettero una telefonata dalla polizia… Li avvertiva che il figlio era morto suicida… Disperati volarono all’obitorio e vennero accompagnati per l’identificazione del corpo. Quando lo videro e lo riconobbero furono scioccati perché scoprirono quello che neppure lontanamente avevano sospettato, e cioè che era proprio lui, il loro figlio, il soldato senza un braccio e senza una gamba…

Un altro elemento che scopre la ricchezza di energie presenti fra i giovani è il loro rapporto con il lavoro. Quest’ultimo non è considerato una dimensione su cui investire tutto il tempo, ma deve corrispondere ai requisiti dell’autonomia e della crescita professionale. Non desidero andare oltre nel presentare la ricerca. Chi desidera più elementi può entrare nel sito del CENSIS (www.censis.it).

 

Passo ora ad enunciare alcuni nodi che, a mio avviso, ostacolano la scelta e la proposta vocazionale.

– Innanzitutto il nodo dell’“etica del fare da sé”, che è la brutta copia, o meglio, l’immagine deformata dell’autonomia, quell’autonomia che è necessaria al giovane per il distacco dalla famiglia, la maturazione vocazionale, l’assunzione delle responsabilità. È interessante notare che mentre i giovani stigmatizzano l’omologazione culturale e condannano senza mezzi termini l’uniformità, in nome dell’eccezionale, dell’inedito, di ciò che fa colpo, rischiano di cercare la sicurezza proprio nell’uniformità, nell’andare “dietro l’onda”, dietro le mode, inserendosi nel cammino lento e disordinato del gregge. Per questo, le vocazioni faticano a nascere e a maturare. Siamo sempre chiamati, in ogni stato di vita, a essere per gli altri, a essere noi stessi. La vocazione non è mai un fatto individualistico, privato.

– All’“etica del fare da sé” si aggiunge l’“ideologia del soggettivismo”. Si sentono molte volte sulle labbra dei giovani queste espressioni: la mia vita, le mie esperienze, la mia fede, i miei progetti (mi vengono in mente gli anni caldi del ’68, gli anni della mia formazione universitaria…). Nel mondo che disprezza la vita – pensiamo all’aborto, all’eutanasia, alla violenza e alle guerre, alla distruzione della natura – rischia di morire anche la vita come vocazione, perché ogni vita è vocazione. Scrive ancora il Documento a cui ho fatto riferimento: “Molti giovani non hanno neppure ‘la grammatica elementare’ dell’esistenza. Sono dei nomadi […]. Hanno paura del loro avvenire, hanno ansia davanti ad impegni definitivi…”[4].Vivono in una cultura della paura e del sospetto.

– Nella nostra società oggi si esaltano i singles, considerati uomini e donne moderni, capaci di sfuggire alla legge vincolante del matrimonio o della vita consacrata e di costruirsi un’identità autosufficiente… Nella cultura giovanile viene presentata come una questione di prestigio la capacità di restare soli, cioè indipendenti da tutto e da tutti, di sapersi lasciare quando un rapporto finisce, di saper fare a meno dell’altro, così che all’impegno della continuità e della fedeltà, al gusto del confronto con l’altro si sostituiscono le facili attrazioni e repulsioni.

– Un altro aspetto tipico della cultura omologante è quello di spingere i giovani a non porre domande, specificamente domande riguardanti la vita e il futuro (per questo dobbiamo essere “donne dal cuore interrogante”), e di creare piuttosto una cultura delle risposte – non tanto alle domande profonde, che non vengono poste o sono ignorate – quanto ai bisogni sovente indotti artificialmente, gratificati i quali, gli interrogativi più veri risultano ancora più difficili. Non è di troppo dire che la crisi vocazionale si radica nella povertà e nella debolezza delle domande giovanili. I problemi della nostra società sono prima problemi di domande e poi problemi di risposte… Di qui la scarsa significatività o il poco interesse che hanno per i giovani le proposte forti, impegnative.

– La centralità del presente si trasforma, da luogo della sicurezza adatto alla creazione del futuro, in luogo della perplessità; i giovani non sanno come saranno tra uno, due, cinque anni, e per questo fanno fatica a scegliere, soprattutto a scegliere in modo definitivo. Il pragmatismo rischia perciò di prendere il posto dell’idealismo e si abbandona la lotta per l’impossibile preferendo gestire il reale.

 

Annotazioni conclusive

Care sorelle e cari fratelli, ho messo il dito su molte piaghe, lo so, ma l’ho fatto perché credo che ognuno di noi voglia essere un balsamo per le tante ferite che percuotono il mondo giovanile. Come? Come possiamo aiutare noi stessi e i giovani a umanizzare la globalizzazione, a scegliere e realizzare la propria vocazione? Quali caratteristiche deve avere un educatore, un’educatrice, per preparare davvero i giovani alla vita?

Valgono, innanzitutto, a mio avviso, le indicazioni di Jacques Delors – i quattro pilastri dell’educazione – dentro cui collocare gli altri riferimenti formativi: imparare a conoscere, cioè acquisire gli strumenti della comprensione; imparare a fare, così da essere capaci di agire creativamente nel proprio ambiente; imparare a vivere insieme, in modo tale da partecipare e collaborare con gli altri in tutte le attività umane; imparare ad essere, cioè arrivare a maturare pienamente se stessi: spirito e corpo, intelligenza, sensibilità, senso estetico, responsabilità personale e valori spirituali[5].

Non tocca a me entrare nel discorso pastorale e specificamente religioso. Permettetemi però di offrirvi un’annotazione pastorale che mi sta molto a cuore, che ci riguarda come catechisti, educatori, formatori e formatrici, come pastori… Oggi si parla con insistenza di un’educazione “ecologica”, vale a dire di quella pulizia interiore che è la forza propulsiva capace di sconvolgere la logica perversa della globalizzazione. Si tratta di un’ecologia interiore che ci riguarda in prima persona come uomini e come donne. Dire “uomo” e “donna” senza aggettivi qualificativi è dire la nostra grandezza, esaltare la nostra nobiltà. Per questo ci sconvolgono tutte le azioni che attentano alla dignità della persona, di qualunque persona, insignita come noi della stessa “regale” dignità.

Ecologia della mente, innanzitutto, cioè onestà intellettuale per dare alle situazioni e alle cose il loro “giusto nome” (chiamare male il male e bene il bene, senza paure o compromessi), per denunciare senza paura le ingiustizie, la violazione dei diritti dei più deboli, non demonizzando o legalizzando tutto e tutti; ecologia del cuore per vincere la prostituzione del corpo e dello spirito, la prostituzione del corpo e quella dello spirito che genera manie di potere e di grandezza ad ogni livello e aumenta sempre più il numero dei “non aventi diritto”, degli esclusi; ecologia della vita per cercare il “solo necessario”, avere il coraggio di condividere i propri beni materiali e spirituali e lottare contro lo spreco delle cose, della natura, del linguaggio, del dolore, della gioia, dell’amore. I nostri voti sono una scelta ecologica fondamentale.

Ho iniziato questa conversazione citando una frase di Ranher, desidero concluderla citando il premio Nobel Gabriel García Marquez. Nel suo Testamento, che per alcuni è un falso, dà alcune indicazioni di cammino che mi sembrano imprescindibili per costruire un mondo di pace e di solidarietà a partire dai giovani.

“…Se Dio mi regalerà ancora un pezzo di vita probabilmente non direi tutto quello che penso, ma penserei tutto quello che dico.

Dormirei poco, sognerei di più. Mi sdraierei al sole lasciando scoperto non solo il mio corpo, ma anche la mia anima.

Scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei che si sciogliesse al sole. Dio mio, se avessi un pezzo di vita non lascerei passare un solo giorno senza dire alla gente che amo, che la amo.

A un bambino gli darei le ali, ma lascerei che imparasse a volare da solo.

Tante cose ho imparato da voi, uomini. Ho imparato che tutto il mondo ama vivere sulla cima della montagna, senza sapere che la vera felicità sta nel risalire la scarpata.

Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare un altro dall’alto in basso solamente quando deve aiutarlo ad alzarsi”.

 

Note

[1] La definizione operativa di cultura che ho scelto fa riferimento a quella adottata nella Conferenza Internazionale dell’UNESCO sul tema delle politiche culturali (1982) e accolta da 130 Governi (CARRIER HERVÉ, Dizionario della cultura, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 1987, 126).

[2] Cfr. LIBERTI VITTORIO, La vita consacrata nella dinamica della città oggi: ragioni di un impegno, in CISM-USMI, Chiamati per un cammino comune di riflessione, dialogo, condivisione, Roma [s.e.] 2001, 58.

[3GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’Assemblea del Convegno della Chiesa Italiana. 

[4] Ivi 16.

[5] DELORS JACQUES, I quattro pilastri dell’educazione, in “Docete” 53 (1998) 6, 271-280.