Aspetti teologici ed ecclesiologici della vocazione e delle vocazioni
Dalla vocazione di Gesù alle vocazioni dei credenti
Due prospettive inquadrano questa riflessione. La prima risponde ad un’esigenza interpretativa e sintetica dell’intenso lavoro di pastorale vocazionale, svolto negli ultimi decenni del secolo scorso. Una lettura che vorrebbe interpretare propriamente il fenomeno della cosiddetta crisi delle vocazioni nella Chiesa occidentale del dopo Concilio. La seconda invece intende avviare una rilettura soprattutto evangelica, più che specificamente teologica, della questione vocazionale, così come s’è venuta svolgendo a partire dal Vaticano II.
Il Vaticano II e la cura delle vocazioni
Un’attenzione specifica alla questione vocazionale comincia ad evidenziarsi nella Chiesa occidentale – e nella Chiesa italiana – prima che il Vaticano II avviasse le premesse per una vera e propria azione pastorale in ordine alla cura delle vocazioni. Del resto nella prima metà del secolo scorso, non s’era ancora presentata alla coscienza della Chiesa una vera e propria crisi vocazionale o di certe vocazioni così come invece si avrà modo di percepire nella seconda metà del ‘900. Piuttosto, a partire dalle indicazioni di alcuni significativi documenti pontifici, in molte diocesi italiane e in diversi istituti di vita religiosa maschile, si venivano a costruire o ad ampliare molti edifici per la formazione seminaristica[1]. Si viveva dunque in quegli anni una sorta di evidente abbondanza di vocazioni ecclesiastiche e religiose. Un dato che andrebbe comunque meglio compreso e studiato, non solo da un punto di vista sociologico, ma soprattutto storico-pastorale. L’esigenza primaria era infatti quella di reperire – ma si diceva anche reclutare – un numero (più che) sufficiente di vocazioni, in grado cioè di rispondere alle necessità spirituali e organizzative della Chiesa. Si comincia invece a parlare di pastorale vocazionale propriamente a partire dal Vaticano II, anche se questo Concilio nei suoi documenti non userà mai questa espressione, attenendosi piuttosto ad un’attenzione fondamentalmente clericale della questione vocazionale, almeno stando al linguaggio usato per descrivere questo dato problematico[2]. In questo senso, trattandosi del costituirsi ormai di una categoria pastorale che avrà un’ampia considerazione nei decenni successivi, sarà importante rifarsi ai grandi temi teologici e pastorali del Concilio nella sua complessità, se davvero si vuole comprendere in radice il senso profondo del definirsi e dello svilupparsi nella Chiesa di una pastorale vocazionale[3].
In questo senso il dato che con maggiore chiarezza si evidenzierà, a partire dalla sensibilità fortemente aperta e dialogante del Vaticano II, sarà una pastorale delle vocazioni – o vocazionale come poi si dirà – sempre più allargata. Nel senso che, ad esempio nella Chiesa italiana, si avvierà una cura non solo delle vocazioni indirizzate propriamente al sacerdozio ministeriale, ma anche di tutte le vocazioni rientranti nella categoria della cosiddetta speciale consacrazione. Intendendo poi per cura delle vocazioni l’ambito pastorale specificamente dedicato ad una più esplicita apertura delle comunità cristiane – diocesane e parrocchiali – nei confronti di tutte le espressioni della vita consacrata, comprese anche le vocazioni di consacrazione laicale, non solo quelle religiose.
Se dunque, nella luce di alcune grandi affermazioni del Vaticano II, la cura delle vocazioni si avvia ad una sorta di vera e propria declericalizzazione, tuttavia è importante constatare che il criterio che normalmente ha fatto scattare l’avvio e la costituzione a livello diocesano e di istituto (o di congregazione) di vita consacrata di una cura pastorale delle vocazioni, anche dopo il Vaticano II, rimane – e giustamente dovrà rimanere – il reperimento quantitativo di vocazioni in ordine a una o più categorie vocazionali. Confermando in questo modo che la carenza vocazionale – cioè il venir meno in senso quantitativo di certe specifiche vocazioni nelle diocesi e negli istituti di vita consacrata – è la molla che fa scattare e accompagna costantemente la cura pastorale delle vocazioni da parte della Chiesa e della Chiesa italiana[4]. Questo non sminuisce affatto il valore, il significato e lo scopo dell’azione propria di pastorale vocazionale. Piuttosto, l’accettazione pacifica di questo dato comporterebbe alcune importanti conseguenze di carattere pastorale.
La pastorale vocazionale nel dopo-Concilio
Non si tratta dunque di negare il valore di una pastorale vocazionale conciliare primariamente guidata da una preoccupazione di carattere quantitativo, ma di evidenziare con schiettezza un tratto – o forse meglio: il tratto – caratterizzante la preoccupazione o cura delle vocazioni. È a partire dunque dalla loro carenza numerico-quantitativa nei seminari e negli istituti di vita consacrata, che in primis i vescovi, cioè i pastori, ma anche in genere i superiori e le superiore degli Istituti di vita consacrata si sono mossi per attuare una pastorale vocazionale. Se è vero che con il Vaticano II alcune grandi affermazioni hanno davvero evocato nuovi scenari teologici e spirituali, anche in ordine alla cura delle vocazioni, tuttavia la questione numerica rimarrà costantemente il punto decisivo, se non addirittura il perno evidente e imprescindibile di una qualsiasi azione di pastorale vocazionale. Si tratterà di conseguenza di ricollocare anche il senso e il valore di certe preoccupazioni teologico-pastorali, quali ad esempio l’intensa attenzione formativa e di riforma stessa dei seminari e degli istituti di vita consacrata. Un tema che anche nella Chiesa italiana si avvierà in concomitanza e immediatamente dopo la chiusura del Vaticano II.
Sarebbe interessante in questo senso constatare l’effettiva tangenza tra l’intenso dinamismo formativo, cioè di riforma degli studi teologici e pedagogici propria dei seminari e degli istituti di vita consacrata, e l’azione specifica di pastorale vocazionale che di fatto questi stessi seminari e istituti venivano realizzando, a partire dagli anni ‘70 del secolo passato. Il fatto che facilmente, se non addirittura normalmente, proprio queste due dinamiche agissero autonomamente l’una dall’altra, significherebbe – ancora una volta – un’evidente divaricazione di questioni teologico-pastorali (la formazione vocazionale e il reperimento numerico di vocazioni) che per loro natura non sono solo concomitanti, ma per molti aspetti si identificano. Negli anni ‘70 e ‘80 ad esempio non era difficile percepire che l’aspetto teologico-formativo fosse retaggio di alcuni educatori, mentre quello – più pratico – della mancanza di vocazioni e del loro conseguente reperimento fosse semplicemente commissionabile a qualche operatore più o meno entusiasta (giovane… “per i giovani”) e volenteroso[5]. In questo senso ci si potrebbe domandare perché proprio la riconsiderazione critica dell’identità di molte figure vocazionali – a partire certo anche da alcune dinamiche socioculturali proprie di quegli anni, ma pure in forza di alcune decisive e importanti affermazioni Conciliari – coincidesse di fatto con l’avvio di un’effettiva flessione numerico-quantitativa delle vocazioni nei seminari diocesani e negli istituti di vita consacrata, sia maschili che femminili.
In che senso dunque nella Chiesa italiana, a partire dagli anni ‘70, diocesi e istituti di vita consacrata cominciano a parlare e a preoccuparsi seriamente dell’esigenza di una pastorale delle vocazioni o di pastorale vocazionale sempre più strutturata, costituendo, in modo diffuso e capillare, i cosiddetti Centri vocazionali?[6]. La domanda potrebbe essere anche più precisa e diritta: alla luce di quale criterio teologico-pastorale viene costituita e definita nella Chiesa italiana una pastorale vocazionale? È corretto cioè domandarsi se la questione vocazionale – propriamente di una pastorale vocazionale – nella Chiesa italiana è andata principalmente nella linea di una prassi di reperimento “allargato” delle vocazioni e di alcune vocazioni e/o anche nella prospettiva di una riflessione solida a riguardo della vocazione e delle vocazioni.
Se è vero che il rischio sotteso a domande troppo pulite è quello di una semplificazione del significato complesso di un lavoro pastorale decisivo e insostituibile per la Chiesa italiana, resta a questo punto decisivo però a partire dal dopo-Concilio cercare di capire e/o prendere atto per un verso della eccessiva distinzione – se non di un’esplicita e voluta distanza – tra una prassi delle vocazioni e un’eventuale formazione teologica al senso della vocazione e delle vocazioni e, per un altro, comprendere su quali basi sono stati poi avviati dei raccordi e delle necessarie coniugazioni o congiunzioni tra pastorale vocazionale e altri settori pastorali – quali ad esempio la stessa pastorale giovanile – a partire da una sorta di strategia unitaria della pastorale. Si tratterebbe cioè di comprendere il senso profondo di una pastorale vocazionale unitaria, teologicamente motivata[7]. Proprio tale distinzione o distanza tra prassi o ricerca quantitativa delle vocazioni e teologia della vocazione e delle vocazioni, non ha mai giovato ad una corretta cognizione e considerazione dell’azione propria della pastorale vocazionale nella Chiesa italiana. È in questo senso dunque che, prendendo atto del valore insostituibile di una pastorale vocazionale nella Chiesa e della Chiesa italiana, ci si può domandare anche quali potrebbero essere oggi alcune significative linee teologiche-guida in vista di un’azione pastorale a favore delle vocazioni e di quali vocazioni[8].
La questione vocazionale nella luce del vangelo
Il dato interessante dal quale si potrebbe partire è questo: riprendere alcune intuizioni di fondo che hanno caratterizzato il lavoro di pastorale vocazionale di questi anni, contestualizzandole propriamente in un orizzonte evangelico, se non propriamente di riflessione teologica vera e propria. Certo rimane ancora aperta la domanda circa una sintetica trattazione di una teologia della vocazione a partire dal Vaticano II[9]. Ma dunque perché non prendere le mosse, più che dalle grandi affermazioni dei documenti conciliari e degli interventi episcopali che ne sono seguiti, da una sorta di ricognizione delle concrete problematiche vocazionali, così come si sono venute evidenziando e strutturando di volta in volta nella specifica pastorale vocazionale proposta dalla Chiesa italiana nel dopo-Concilio?[10]. Per giungere così a chiedersi in modo disincantato: quali profonde attese evangeliche si nascondono dentro i dinamismi propri della pastorale vocazionale della Chiesa italiana degli ultimi trent’anni?
Si vorrebbe dunque rileggere e interpretate questa grande operazione pastorale postconciliare in una luce propriamente oggettiva, a partire cioè – e non è solo una pretesa – dallo sguardo stesso di Dio che a noi così si è rivelato in Gesù Cristo, cioè anche nelle attese e nelle domande che stanno nel cuore della Chiesa. E constatare la carenza di certe vocazioni rivela l’esistenza di una grande domanda. Ricondurre a Dio queste domande e queste esigenze significa pertanto entrare nel suo modo di vedere, nel suo modo di guardare e di leggere le cose. Questo diventa dunque un principio teologico fondamentale per la pastorale e la stessa vocazionale. Forse la domanda alla quale si vorrebbe rispondere in quest’ultima sezione, nella sua forma immediata, potrebbe sembrare sin troppo semplice. Ma proprio questo è di fatto la questione decisiva che sta al fondo di una rinnovata coscienza vocazionale della Chiesa odierna: cosa di fatto ha visto e cosa ancora vede il Signore Gesù a riguardo delle vocazioni, delle nostre questioni vocazionali?[11].
La vocazione di Gesù
Tesi: Nei momenti di crisi vocazionale (mancanza nella Chiesa di alcune specifiche vocazioni) o anche di in-comprensione vocazionale – istituzionale o personale – è determinante avere il coraggio di guardare anzitutto alla vocazione di Gesù, che ha sempre inteso fare della volontà del Padre suo il principio fondante la sua stessa vocazione.
Capire il dinamismo profondo di una qualsiasi vocazione – anche nelle vicende complesse e talvolta contorte della cultura contemporanea – significa, per un operatore di pastorale vocazionale e dunque per gli stessi pastori della Chiesa, sapersi riferire anzitutto all’unico e “grande pastore delle pecore, il nostro Signore Gesù” (Eb 13,20). E non basta certo stabilire un raccordo generico con il Signore Gesù, ma, in ordine all’oggetto proprio del settore pastorale all’interno del quale si sta cercando di operare, sarà decisivo cercare di cogliere i tratti fondamentali della stessa vocazione di Gesù. Anche Gesù infatti, per primo, ha avuto ed ha espresso una vocazione, cioè ha fatto della sua stessa esistenza una precisa risposta nei confronti di una chiamata da parte del Padre suo[12].
Non viene posta propriamente qui una questione formale, ma sostanziale e, in questo senso, propriamente spirituale. Una qualsiasi teologia della vocazione e delle vocazioni dovrà saper prendere infatti le mosse proprio da questo principio evangelico esistenziale. Facilmente nelle riflessioni teologiche del passato – con l’ausilio di una buona esegesi – si era cercato di dare particolare attenzione al principio innegabile, ma per sé già conseguente, di Gesù che chiama gli apostoli e i suoi discepoli, riferendosi ad esempio a Mc 3,13 e a Mc 6,7,[13] ma anche all’insieme di tutti quegli episodi evangelici nei quali Gesù chiama Zaccheo, il giovane ricco, la donna Samaritana ecc. Episodi evangelici, ma anche veterotestamentari, molto significativi, una volta riportati e seriamente adattati all’interno della pedagogia propria della pastorale vocazionale, mirata per sé ad una serie specifica di vocazioni ecclesiali, ma poi di fatto insufficienti, se non si tiene conto della profonda convinzione evangelica che ci porta a credere che non è anzitutto Gesù che chiama, ma è propriamente il Padre Suo che chiama Gesù stesso ad essere nel mondo e per il mondo. Si potrebbe anche dire che è l’incarnazione stessa il senso primo e ultimo della risposta che Gesù da alla sua singolare vocazione: “Allora ho detto: Ecco, vengo (nel rotolo del libro è scritto di me) per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7)[14].
Propriamente a questo livello è decisivo distinguere in senso qualificante la vocazione di Gesù dalle vocazioni che si ispirano a Gesù, cioè di coloro che seguono Gesù. In entrambi i casi vocazionali naturalmente non ci troviamo davanti ad una considerazione astratta delle condizione vocazionale. Gesù, e a partire da lui anche tutti i suoi discepoli, sono effettivamente chiamati ad esprimere una risposta precisa e chiara. Ma mentre Gesù è chiamato a risponde al Padre nello Spirito Santo, coloro che lo seguono, i suoi discepoli sono chiamati, stando dietro di Lui, a rispondere nel suo stesso Spirito. Cioè allo stesso modo, nel senso radicale che lo ha portato ad affermare che “chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,27). Addentrarsi naturalmente in questa prospettiva significa accedere anche ad una serie di indicazioni evangeliche molto significative per la pastorale vocazionale. Ad esempio al tema – molto moderno e sempre attuale – della coscienza di Gesù, che porterebbe anche a domande di questo genere: quale coscienza ha avuto Gesù della sua chiamata? Quali passaggi ha fatto e ha sperimentato Gesù in rapporto alla sua chiamata? In che senso – usando un linguaggio certamente nostro – è stato autenticamente libero nella sua risposta?[15]. In ultima analisi: addentrarsi in questa prospettiva propriamente cristologica in ordine al principio stesso di una pastorale vocazionale più evangelica, comporterà capire che il senso ultimo della vocazione di Gesù non conduce per sé umanamente ad un particolare successo e riconoscimento. È piuttosto la logica del fallimento umano – agli occhi del mondo, s’intende! – che interpreta l’esito esistenziale ultimo della risposta vocazionale di Gesù.
Ci si dovrebbe domandare a questo punto se l’espressione evangelica più tradizionalmente citata dalla pastorale delle vocazioni: “Pregate dunque il Padrone della messe perché mandi operai nella sua messe…” (Mt 9,38), non debba essere cristologicamente completata con un’altra affermazione di Gesù: “In verità, in verità vi dico: se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Non viene decretata in questo modo la fine della pastorale vocazionale e neppure si sta affermando che il senso ultimo di una vocazione nella Chiesa altro non è che la morte, ma semplicemente riaffermato il valore determinante e qualificante dell’esperienza vocazionale di Gesù all’interno di una qualsiasi prospettiva di pastorale delle vocazioni nella Chiesa di oggi e di sempre, rinvenendone la fecondità ecclesiale di sempre[16].
La mancanza di vocazioni come segno evangelico
Tesi: La mancanza di vocazioni, prima d’essere un dato così preoccupante da un punto di vista pastorale per la Chiesa d’occidente, è una questione squisitamente evangelica, che ha indotto anche Gesù a chiedere ai suoi discepoli di pregare “il Padrone della messe perché mandi operai nella sua messe”: (Mt 9,38). In che senso la carenza di certe vocazioni nella Chiesa oggi assume una significativa rilevanza teologica?
Si è già detto che la questione vocazionale, da un punto di vista propriamente pastorale, ha preso le mosse in genere dalla mancanza quantitativa di alcune specifiche vocazioni. In modo particolare, nella Chiesa occidentale di questi ultimi decenni è stato la drammatica diminuzione delle vocazioni al ministero ordinato la molla che ha fatto scattare l’esigenza di organizzare nelle diocesi e negli istituti di vita consacrata un’azione specifica a favore delle vocazioni, nei termini appunto di una pastorale vocazionale. Ma se non si ha il coraggio di contestualizzare evangelicamente il dato, la questione vocazionale non avrà soluzione obiettiva. Non è certo casuale in questo senso che proprio l’affermazione dell’importanza della preghiera per le vocazioni sia di fatto il punto di partenza dal quale poi scatta di fatto la stessa pastorale vocazionale. Un’intuizione che – partita propriamente dall’interno del Concilio Vaticano II per esplicito desiderio di Paolo VI – ha accompagnato l’azione pastorale in ordine alle vocazioni. Anzitutto attraverso l’istituzione della annuale Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, continuamente ribadita in tutti i principali documenti pastorali sul tema delle vocazioni[17].
Si tratta ancora una volta dunque di passare da un atteggiamento immediatamente operativo, dettato anzitutto dalla preoccupazione per la carenza di alcune vocazioni, ad un atteggiamento più contemplativo o propriamente di ascolto di quanto il Signore stesso intende continuare a dire evangelicamente alla Chiesa occidentale e alle sue Chiese particolari a riguardo della mancanza di certe vocazioni, non è affatto scontato. Non lo è per gli operatori nel settore della pastorale vocazionale e neppure per i pastori delle Chiese locali e i responsabili di molti istituti di vita consacrata, sempre più allarmati dalla carenza delle “loro” vocazioni. Ad un operatore pastorale nel settore delle vocazioni potrebbe richiedere di saper sostenere l’esperienza della stanchezza, della delusione e dell’insuccesso, anche dopo un’azione pastorale appassionata e volenterosa, sapendo guardare cristianamente alla stessa esperienza della croce. Alle Chiese particolari e alla Chiesa occidentale in genere l’evangelo della vocazione di Gesù potrebbe ancora chiedere il coraggio di sostenere tale carenza come un segno della fecondità del suo stesso Spirito[18]. Tutto questo è sostenibile però solo nel contesto di una preghiera continua e assidua. Intesa propriamente come capacità di leggere le questioni del mondo, e della Chiesa per il mondo, con gli occhi stessi di Dio. Sapendo cioè ripartire, anche davanti alla carenza di certe vocazioni, dal cuore stesso di Dio. Potrebbe essere utile ricordare a questo punto i criteri che accompagnano o dovrebbero accompagnare il tema evangelico della preghiera per le vocazioni in vista di una corretta pastorale vocazionale. La più recente tradizione della Chiesa si è riferita principalmente a Mt 9,35-38 (ma anche Lc 10,1-2), consapevole dell’esistenza di alcuni elementi imprescindibili nella sua continua esortazione a pregare per le vocazioni. Si cercherà dunque di evidenziarli al fine di descrivere l’intenzione evangelica a questo riguardo, cioè l’intenzione stessa di Gesù, la sua stessa consapevolezza nei confronti di questa preghiera[19].
Una prima convinzione è che la preghiera di domanda accompagna sempre Gesù nelle sue grandi scelte. Anch’egli non è sfuggito all’esigenza di pregare, sempre e comunque, prima di intraprendere scelte determinanti in ordine alla sua missione. Come è avvenuto appunto in occasione della scelta dei Dodici (Lc 6,12-15)[20]. Si tratta propriamente di una preghiera che permetteva a Gesù stesso di compiere un discernimento più chiaro e consapevole al fine di corrispondere davvero alla volontà del Padre suo.
Ma si potrebbe anche notare che la “mancanza di operai” è un presupposto imprescindibile della preghiera per le vocazioni. La constatazione di una situazione critica dal punto di vista vocazionale si pone dunque già a partire dalla stessa coscienza di Gesù che, ancor prima di esortare i suoi discepoli a pregare il Padrone della messe, è consapevole del fatto che se “la messe è molta” tuttavia “gli operai sono pochi!” (Mt 9,37). Da una parte è Gesù che nota che il lavoro richiesto è esteso perché “la messe è molta” e dall’altra tuttavia resta anche vero che il piccolo numero di “operai” di cui dispone Gesù per il suo Regno non permetterebbe di mettere a frutto ciò che proprio quell’abbondanza di messi richiederebbe. Anche se Gesù sembrerebbe reagire in questo senso a circostanze precise e determinate, tuttavia fa un’affermazione di portata più vasta, permettendoci di comprendere che anche nel futuro – come già nel suo presente – la messe del Padre, l’annuncio, sarà sempre abbondante, mentre gli operai disponibili saranno quantitativamente impari[21].
E c’è una terza indicazione: la preghiera evangelica per le vocazioni qualifica infatti in quanto tale gli operai “per la messe”. È importante notare in questo senso che la preoccupazione ultima di Gesù è quella della sua missione evangelica. In questo senso l’accento, e dunque l’oggetto proprio di questa esortazione alla preghiera da parte di Gesù, metterebbe anzitutto l’accento sulla necessità che gli operai siano adatti per tale compito. Non anzitutto adeguati numericamente, ma adeguati in rapporto alla qualità del compito loro affidato, per attuare una missione rilevante e impegnativa, capaci di collaborare all’opera evangelizzatrice di Gesù[22]. Del resto non si dimentichi che proprio questa esortazione di Gesù non è rivolta genericamente a tutti, ma propriamente ai suoi discepoli.
È possibile inoltre accennare ad un’altra indicazione: La preghiera per le vocazioni è evangelicamente definibile come la capacità di “stare” nello stesso Spirito col quale Gesù “sta” col Padre suo. Ci si potrebbe infatti chiedere: a cosa serve concretamente tale preghiera? Perché pregare quando si tratta di domandare al Padrone della messe che realizzi qualcosa che è già è oggetto di una sua primaria preoccupazione? Non si rischia in fondo di pregare Dio perché venga paradossalmente in aiuto di se stesso, per portare a compimento ciò che già il suo cuore intende fare? Per avviare una risposta a questi interrogativi è importante comprendere il tipo di preghiera che qui viene espressa. Una preghiera espressa in una situazione di bisogno. E, per l’evangelo di Gesù, avvertono questa cura della sua missione e del Regno solo e anzitutto coloro che hanno gli occhi aperti e il cuore dilatato e disponibile. Così grande che – come il cuore stesso di Gesù – si diventa poi capaci di percepire la realtà delle cose e degli uomini con gli occhi e il cuore stesso di Dio. In questo senso il discepolo di Cristo che così prega diventa lui stesso attore in questo sforzo di reperimento di operai per la vigna, giungendo a rendersi conto che anche lui in prima persona è chiamato a sostenere e ad esercitare la stessa compassione di Gesù[23].
Infine, prendendo atto che ci si trova davanti ad un vero e proprio comando da parte di Gesù più che ad una semplice esortazione, si può anche affermare che Gesù chiede e chiederà sempre ai suoi discepoli di pregare per le vocazioni[24]. Da un certo punto di vista questa potrebbe anche sembrare questione oziosa e troppo preoccupata di precisare qualcosa che di natura non può essere comunque comandato o essere ritenuto come obbligante la coscienza e la libertà dei credenti. La questione cui si vorrebbe alludere tuttavia è di carattere più constatativo ed ecclesiale: in che senso infatti la Chiesa lungo la sua storia ha inteso costantemente accogliere questa indicazione di Gesù? Cosa significa che la coscienza della Chiesa, davanti a questa esortazione a pregare in questo modo, intende davvero rispettato le attese di Gesù a riguardo della cosiddetta preghiera per le vocazioni? Per un verso dunque si tratterà di continuare a chiarire a quale livello si pone Gesù in rapporto all’esigenza di pregare, proprio mentre dice “pregate”, ma, conseguentemente, a quale livello di ricezione e di obbedienza deve collocarsi la Chiesa nei suoi confronti?
Abbiamo dunque una grande responsabilità nei confronti delle vocazioni. Se Gesù ci ha rivolto una tale esortazione è perché dobbiamo ammettere che la preghiera per le vocazioni è per sé – nel nome stesso di Gesù che ce l’ha chiesta – sempre efficace. Gesù infatti non avrebbe consigliato tale preghiera se la sua efficacia non fosse garantita.
Nuove prospettive vocazionali per la Chiesa
Tesi: Un’autentica pastorale vocazionale del presente e del prossimo futuro comporterà per la Chiesa intera l’esercizio a lasciarsi condurre dallo stesso Spirito di Gesù che, soffiando “dove vuole” (Gv 3,8) intende ancora guidare la sua Chiesa a saper guardare con maggiore attenzione ed accogliere con disponibilità grande tutte quelle vocazioni che continuamente egli suscita nella Chiesa per il mondo.
Si potrebbe anzitutto dire che propriamente dall’ascolto della vocazione di Gesù (Lectio divina) e dal fatto di saper entrare in comunione con la sua stessa passione per l’annuncio del vangelo (preghiera per le vocazioni) al credente deriva l’esigenza – tutta spirituale – di continuare ad assumere su di sé “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). In questo senso ci si trova propriamente al passaggio spirituale dalla vocazione di Gesù alle vocazioni nella Chiesa. Qui andrebbero anche propriamente rilevati e definiti i tratti fondamentali di una corretta antropologia della vocazione cristiana[25]. Va fatta però una precisazione. Non si tratta solo di rinvenire dei raccordi con alcune dinamiche e attenzioni antropologiche, moderne o postmoderne, in rapporto al concreto esprimersi della vocazione cristiana, ma di situare in termini propriamente ecclesiali la questione di una possibile antropologia vocazionale o esistenza del credente in stato di vocazione. Le vocazioni nella Chiesa infatti altro non sono che l’espressione concreta propria di alcuni aspetti della umanità di Gesù che, ad un tempo, è pastore, sacerdote e re, sempre guidato da una profonda compassione e di amore singolare per ogni uomo. In questo senso pertanto la storia della Chiesa è la testimonianza concreta di quanto i discepoli di Gesù hanno cercato con la loro libertà di recepire nella loro carne dell’esistenza concreta del loro Maestro. Non va disattesa in questo senso l’importanza di una seria ricognizione storica della vocazione e delle vocazioni lungo la storia della Chiesa, domandandosi anche perché e/o come alcune risposte vocazionali hanno avuto un singolare seguito rispetto ad altre[26].
I santi propriamente, lungo la storia della Chiesa, guardando intensamente alla sua umanità, hanno sempre evidenziato prospettive vocazionali singolari e di alto profilo. A partire dal “sì” di Maria. Espressione che tanta parte ha avuto – e ancora ha – nella esortazione e nelle indicazioni spirituali proprie della pastorale vocazionale. Del resto, così come la verginità di Maria deve essere ricompresa in una prospettiva cristologia, anche il tema della verginità cristiana andrebbe ricompreso più esplicitamente nella stessa prospettiva. È innegabile riconoscere in questo senso che l’insistenza della pastorale vocazionale – anche la più recente – ha fondamentalmente inteso gravitare attorno al tema della verginità, sia parlando delle vocazioni alla vita consacrata, religiose e laicali, come a quella celibataria del sacerdozio ministeriale. Senza indulgere a facili e semplificanti pressioni di carattere sociologico e culturale, perché dunque non cercare di chiarire e favorire, anche nel linguaggio pastorale più corrente, un uso corretto dei termini di castità e di verginità? Troppo spesso infatti i due termini si sovrappongono e vengono usati indistintamente. Perché non cominciare ad affermare che se la castità, che per sé attiene ad una questione antropologico-culturale non immediatamente solo cristiana, segue eventualmente l’importanza e il valore della verginità cristiana, proprio perché derivante dalla verginità stessa di Gesù? Potrebbe dunque essere compito di una pastorale vocazionale esplicitamente attenta e gravitante sul fronte della verginità cristiana, aiutare a fare maggiore chiarezza anche da questo punto di vista? La portata di tale discorso sul fronte anche del mondo giovanile odierno non sarebbe indifferente e sarebbe di grande aiuto nella presentazione della cosiddette forme vocazionali di speciale consacrazione.
Proprio questa domanda di rilettura cristiana della verginità a partire dall’umanità stessa di Gesù, cioè tutta rivolta al Padre suo, apre alla possibilità di valutare l’importanza e il valore della verginità in rapporto alle vocazioni al matrimonio cristiano. Si tratta per sé della vocazione cristiana quantitativamente più diffusa e più in difficoltà, anche in termini di carenza, nella Chiesa occidentale odierna. È stato detto che, mentre le vocazioni che gravitano storicamente sul fronte della verginità cristiana intendono fare riferimento al senso escatologico della risposta di Gesù al Padre, il matrimonio cristiano direbbe piuttosto l’intenzione creatrice primaria di Dio nei confronti dell’uomo e della donna (Gn 1,26-28). Ma la verginità cristiana, di Gesù, in che termini può e deve raggiungere l’esperienza coniugale cristiana? Non è infatti possibile escludere il rapporto coniugale – voluto da Dio creatore e suggellato sacramentalmente nella tradizione cristiana – da una considerazione propriamente vocazionale e/o di pastorale vocazionale. Un’apertura in questo senso non aprirebbe tanto al rischio di una generalizzazione della pastorale vocazionale, quanto all’opportunità di una più seria considerazione pastorale di una prospettiva vocazionale che versa ormai da troppo tempo in condizioni critiche, soprattutto nella Chiesa occidentale[27].
Da qualche anno giustamente si è parlato di una rinnovata cultura vocazionale, nel senso che si è voluto evidenziare un duplice versante: uno propriamente intraecclesiale, in ordine ad una più diffusa sensibilità nei confronti delle attenzioni proprie di una pastorale vocazionale, e un altro più rivolto a raccogliere le molte sollecitazioni che provengono da una cultura contemporanea ormai diventata postmoderna, ma non necessariamente negativa e in opposizione nei confronti della realtà ecclesiale e vocazionale in quanto tale. Decisivi in questo senso continueranno ad essere l’esercizio autorevole del discernimento ecclesiale delle molte prospettive di carattere vocazionale che continuamente si presentano alla coscienza della Chiesa odierna. Si pensi ad esempio al grande tema delle vocazioni carismatiche che scaturiscono dalla sensibilità spirituale propria dei movimenti e dei gruppi ecclesiali, generando poi al loro stesso interno un numero abbondante e significativo di vocazioni specifiche; oltre naturalmente alla formazione concreta dello stesso Spirito di Gesù nei singoli credenti attraverso la forma pratica e tradizionale della direzione spirituale.
È anche in questa prospettiva allargata dunque che una corretta pastorale vocazionale dovrà saper avanzare nel futuro delle Chiese dell’occidente. Aperta certo alle nuove istanze vocazionali che sorgono continuamente all’interno della Chiesa, ma pure sempre disponibile alle sollecitazione che un mondo in continua ricerca, comporta. Anche questo significa lasciare che lo Spirito di Gesù raggiunga ancora i confini del mondo (Gv 3,8), coadiuvato anche da una pastorale vocazionale che, avviata dallo Spirito aperto e attento del Vaticano II, vuole continuare a suscitare nella Chiesa tutte le vocazioni necessarie perché il suo Regno venga (Mt 6,10).
Note
[1] Andrebbero ricordati in modo particolare l’Ad cattolici sacerdotii di Pio XI (1935), oltre all’istituzione da parte di Pio XII della Pontificia Opera per le vocazioni sacerdotali (1941) e Menti nostrae, sempre di Pio XII (1950).
[2] Optatam Totius parla propriamente del “dovere di dare incremento (fovendarum vocationum officium) alle vocazioni sacerdotali (…). Tutti i sacerdoti dimostrino il loro zelo apostolico massimamente nel favorire le vocazioni (in fovendis vocationibus) (…). Questa fattiva partecipazione di tutto il popolo di Dio all’opera delle vocazioni (ad vocationes fovendas) corrisponde all’azione della provvidenza divina (…)”. In questo senso dunque il Concilio raccomandava “i mezzi tradizionali di questa comune cooperazione (…). Inoltre stabilisce che le Opere delle vocazioni (Opera vocationum), già erette o da erigersi nelle singole diocesi, regioni o nazioni, a norma delle direttive pontificie, debbano dirigere in maniera metodica e armonica tutta l’azione pastorale per favorire le vocazioni (universam fovendarum vocationum pastoralem actionem), senza trascurare nessun utile aiuto offerto dalla moderna psicologia e sociologia”. Si tratta certo di un testo importante, molto ricco e significativo in ordine al primo costituirsi di una vera e propria pastorale vocazionale. Cfr. En. Vat. 1, 773-777. Si tenga presente inoltre che la Commissione preparatoria conciliare aveva per sé elaborato uno schema a se stante a riguardo delle vocazioni dal titolo: De vocationibus ecclesiasticis fovendis. Poi di fatto la Commissione centrale decise di inserirne gli elementi più significativi di quello stesso documento al n. 2 della Optatam Totius. Cfr. Schema De Vocationibus ecclesiasticis fovendis, Typis Polyglottis Vaticanis, 1962.
[3] Cenni significativi circa una più precisa attenzione nei confronti delle vocazioni, primariamente – se non esclusivamente – sacerdotali, si ritrovano anche in Presbyterorum ordinis (En. Vat. 1, 1281), Perfectae charitatis (En. Vat. 1, 767-769), Christus Dominus (En. Vat. 1, 607) e Ad gentes divinitus (En. Vat. 1, 1153).
[4] Del resto questo è un dato psicologico-culturale abbastanza evidente: la carenza in quanto tale è normalmente la molla che fa scattare una determinata e specifica preoccupazione e azione conseguente.
[5] Proprio questa divaricazione tra la forte attenzione teologico-formativa e la ricerca, talvolta drammatica, di un numero sufficiente di vocazioni da parte della pastorale vocazionale, andrebbe meglio compresa a questo punto. Per un verso potrebbe forse tradire una sorta di schizofrenia tra la formazione teologica e l’azione pastorale diretta, ma dall’altra, anche una sorta di eccessiva autosufficienza da parte dei responsabili e degli educatori dei seminari e degli istituti di vita consacrata, rispetto ad una profonda e, direi, evangelica e teologica lettura della mancanza proprio di certe vocazioni.
[6] A partire da quegli anni si costituisce in senso propriamente istituzionale il Centro Nazionale Vocazioni, il Centro Regionale e il Centro Diocesano Vocazioni, fino a sostenere più avanti – in un contesto fortemente strutturato in senso parrocchiale – l’esigenza di una sorta di “Centro” parrocchiale per le vocazioni.
[7] L’espressione pastorale vocazionale unitaria va certamente collocata nel contesto dell’azione pastorale della Chiesa italiana degli anni ‘80 che molto ha insistito sul tema di Comunione e Comunità. In senso propriamente vocazionale si potrebbe parlare anzitutto di comunione tra i vari dinamismi vocazionali interessati alla cura delle vocazioni e ad una comunione all’interno della comunità cristiana tra i molti settori di impegno pastorale nelle Chiese particolari o locali.
[8] Insistere sulla necessità che la Chiesa italiana torni a formarsi più esplicitamente nella luce di alcuni convinzioni teologiche riguardanti la vocazione cristiana (di Gesù) e delle vocazioni cristiane, è anche frutto di una ricerca maturata propriamente dal lavoro intenso del Centro Nazionale Vocazioni della Chiesa italiana. In questo senso un’ampia ricognizione di carattere storico-pastorale a riguardo della pastorale vocazionale proposta nella Chiesa italiana dal Vaticano II all’inizio degli anni ‘90 è reperibile in W. MAGNI, Le diverse fasi della pastorale vocazionale della Chiesa italiana, con particolare riferimento agli ultimi quindici anni (1980-1995). In ‘Vocazioni’ (5) 1996, pp. 28-67.
[9] In questo senso rimane illuminante e sintetico il saggio di T. CITRINI, La teologia della vocazione a partire dal Vaticano II (Sommario – I. I passaggi più fecondi del magistero conciliare: la storia come condizione per comprendere il mistero della vocazione – Vocazione alla santità e vocazioni nella dottrina sul popolo di Dio; II. Sviluppi postconciliari e punti di forza oggi possibili: Una vocazione si descrive solo entro un cammino – La consistenza originale di ogni vocazione, nella comunione ecclesiale – La pastorale vocazionale “si identifica2 con la pastorale giovanile – Come si può dunque descrivere una vocazione? in ‘Vocazioni’ (5) 1996, pp. 6-76.
[10] Un avvio in questo senso era stata fatto alcuni anni fa. Cfr. W. MAGNI, La pastorale delle vocazioni nella diocesi di Milano (Sommario: Premesse – Linee di pastorale diocesana e attenzione vocazionale, 1) Il primato della Parola di Dio. – 2) Pregare per le vocazioni. – 3) Saper discernere il desiderio vocazionale. – Conclusioni). In “La Scuola Cattolica” 121 (1993) pp. 507-520.
[11] Si pensi al tema della preghiera per le vocazioni, quale presupposto di una qualsiasi azione vocazionale; ma anche alla valorizzazione all’interno della pastorale vocazionale dell’ascolto della Parola di Dio, nei termini specifici della lectio divina come ascolto della sua Parola e alla tematica decisiva del discernimento e della direzione o accompagnamento spirituale. Del resto proprio i tre temi della preghiera per le vocazioni, della lectio divina e della direzione spirituale hanno costantemente accompagnato, soprattutto negli ultimi vent’anni, l’azione di pastorale vocazionale condotta dal Centro Nazionale Vocazioni della Chiesa italiana.
[12] Non viene qui affrontata quella che può essere ritenuta immediatamente una sorta di confusione linguistica e che ha purtroppo cercato di identificare, a partire soprattutto dalla Modernità del secolo scorso, la “vocazione” (che propriamente è una “chiamata”) con la “risposta” (vocazionale), comunemente intesa invece, soprattutto oggi, come “attitudine” o “capacità” propria del soggetto. Col rischio conseguente dunque da parte del soggetto di identificare e di consumare in se stesso la “chiamata” e la “risposta”. In questo senso si rimanda a W. M AGNI, Fare pastorale vocazionale oggi (Sommario: Vocazione cristiana e cultura contemporanea; la radice moderna di una mutazione semantica; Un’indebita semplificazione della vocazione cristiana; La prospettiva del cristiano adulto e le conseguenze vocazionali; La plausibilità di una pastorale vocazionale oggi; Verso una pastorale vocazionale “qualificata”; Indicazioni conclusive). In “La rivista del Clero Italiano” 6 (1991), pp. 426-435.
[13] Si tratta di riferimenti innegabilmente vocazionali: “Poi Gesù salì sul monte e chiamò a sé quelli che egli volle, ed essi andarono da lui” (Mc 3,13, ma anche Lc 6,12-16 e Mt 10,1-15; At 1,13); “e poi chiamò a sé i dodici e cominciò a mandarli a due a due; e diede loro potere sugli spiriti immondi” (Mc 6,7). Si tenga conto del resto che anche figure emblematiche del Primo Testamento sono state spesso usate per educare al senso vocazionale all’interno degli itinerari di pastorale indirizzati in questo senso. Ma queste stesse figure profetiche, da Mosè a Giovanni Battista, trovano il loro senso vocazionale qualificante solo nella luce della vocazione di Colui che sta in principio, Gesù di Nazaret, Verbo di Dio (Gv 1,1).
[14] Ma anche Fl 2,6 s.
[15] E si potrebbe anche continuare: Ha voluto o ha dovuto morire in croce? E ci si potrebbe aprire a questioni più culturali e propriamente psicologiche: come è arrivato Gesù a rispondere proprio così al Padre suo? Che ruolo ha avuto Maria? Che spazio ha ricoperto la stessa spiritualità ebraica nella formazione vocazionale di Gesù?
[16] Naturalmente potrebbe essere interessante verificare come questa tematica è stata propriamente trattata di volta in volta nei documenti pastorali della Chiesa a riguardo delle vocazioni. L’impressione è che una teologia più esemplificativa e pedagogica abbia prevalso rispetto ad una vera e propria cristologia vocazionale. Anche se non mancano qua e là degli interessanti richiami che ancora attendono di diventare patrimonio del sentire comune del popolo di Dio. A partire dai pastori e dagli stessi operatori pastorali
[17] Una trattazione ampia e dettagliata del tema della preghiera per le vocazioni contenuta nei messaggio per la GMPV da Paolo VI al Giovanni Paolo II (1964-2000) è contenuto in un intervento non pubblicato su: La preghiera “associata” per le vocazioni nella coscienza e nella prassi della Chiesa, sez. II, “I messaggi teologici di Paolo VI e i messaggi pastorali di Giovanni Paolo II in occasione della GMPV a riguardo della preghiera per le vocazioni” (Convegno di studio “Unione di Preghiera per le Vocazioni” (8-10 dicembre 2000, Centro di Spiritualità Rogate – Morlupo, RM, 9 dicembre 2000).
[18] Risuona la verità profonda in questo senso di un passaggio di una lettera pastorale del Card. C.M. Martini in Ripartiamo da Dio del 1995-1996, nella quale esortando ad “affrontare la sfida della carenza di vocazioni” affermava: “occorre che ciascuno di noi apra il cuore nella fede per comprendere il Signore che educa il suo popolo e per partecipare ai sentimenti di Gesù di fronte alle folle ‘stanche e sfinite’. Mi sembra che la sofferenza del nostro tempo presente e della nostra Diocesi nel ripensare il modo con cui le nostre forze possono rispondere ai bisogni pastorali, sia la grande prova che attende la Chiesa occidentale nel nuovo millennio. Ad altri tipi di persecuzione per il vangelo che le generazioni cristiane hanno sperimentato si sostituisce per noi oggi questo dolore della penuria e della sproporzione delle forze, drammaticamente sperimentato da tutto un popolo cristiano”. In C.M. MARTINI, Ripartiamo da Dio, Lettera pastorale per l’anno 1995-1996, Centro Ambrosiano, n. 56.
[19] Una trattazione più ampia e dettagliata in questo senso è reperibile anche in W. MAGNI, Pregare per le vocazioni è vangelo, in “Rogate ergo”, n. 4, 2003.
[20] “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello…”. S. CIPRIANI, Il rogate nei suoi fondamenti biblici, in Rogate Dominum messis – Saggio sul Rogate, Rogate, Roma 1996, pp. 15-16.
[21] J. GALOT, Il problema delle vocazioni, in “La Civiltà Cattolica”, 3606 (21 ottobre 2000), p. 140.
[22] P. TREMOLADA, Rogate ergo Dominum messis, in ‘Vocazioni’, 6, 1992, pp. 11-17.
[23] Perché pregare in fondo significa sempre ‘entrare’ nel mondo di Dio, così come lo vede Dio, nella sua ottica, nella sua prospettiva, nella sua visuale. La questione quantitativa di carattere propriamente pastorale non viene certo annullata, ma interpretata e interpretabile nella luce del desiderio stesso di Dio, nella luce di quella che Gesù, quando prega e quando ci ha insegnato a pregare, chiama propriamente la volontà di Dio, del Padre, la sua volontà. Per questo ci impegna a dire a nostra volta: “sia fatta la tua volontà”.
[24] La stessa riflessione teologica è di questo avviso: “La preghiera per le vocazioni – come appare nel testo evangelico di Lc 10,2-3 e Mt 9,35-38 – è un comando, e non solo un’esortazione, di Cristo alla sua Chiesa. In una situazione di necessità ben precisa (la scarsezza di ‘operai della messe’), che fa emergere un bisogno di vitale importanza la salvezza di tutti verso i quali il Cristo mostra la ‘compassione’ del Padre, il Signore Gesù ordina la preghiera insistente affinché siano inviati altri operai”. P. SCABINI, Aspetti teologici del Rogate, in Rogate Dominum…, cit. pp. 127159.
[25] Per rimanere in tema si potrebbe anche dire che la vocazione di Gesù è stata ad un tempo la risposta al Padre suo che da sempre lo ha chiamato ad essere suo Figlio, ma di conseguenza anche un autentico servizio (o ministero) nei confronti di tutti gli uomini e, nella Chiesa, anche di tutti i credenti in lui, suoi discepoli. Se Gesù è l’uomo per eccellenza (“Ecce homo”) allora in Gesù ci è dato di scoprire anche il senso e il destino al quale ogni uomo che viene in questo mondo è chiamato ad esprimere come risposta.
[26] Non risulta infatti che una vera e propria storia in questo senso sia mai stata scritta. Resta vero che un’eventuale storia delle vocazioni nella Chiesa potrebbe essere illuminante nei confronti della stessa pastorale vocazionale moderna e post-Conciliare. Perché dunque non evidenziare il significato e il valore lungo la storia della Chiesa della vocazione monastica a partire dai primi secoli della Chiesa, della vocazione propriamente religiosa a partire dal periodo medievale sino all’esplosione propriamente moderna in questo senso; la forte sottolineatura del primato della vocazione al sacerdozio ministeriale a partire dal Concilio di Trento, per giungere infine alla vocazione alla vita consacrata, con la più recente insistenza, nell’ambito proprio della pastorale vocazionale del ‘900, della vocazione alla consacrazione laicale? In questo senso la storia avrebbe ancora molto da insegnare alla nostra più recente cura delle vocazioni. Qui inoltre meglio si collocherebbe anche la questione che ha portato a distinguere tra vocazioni atte all’essere costitutivo della Chiesa e altre più espressamente a servizio del suo benessere.
[27] In che senso dunque un uomo e una donna si sposano “nel Signore” (1Cr 11,11 e Col 3,8)? Non certo escludendo la prospettiva della verginità di Gesù, ma piuttosto ripresentandola nella storia in una modalità singolare e pienamente cristiana. Il matrimonio cristiano, come la verginità consacrata, sono una declinazione vocazionale possibile e singolare della stessa vocazione verginale di Gesù (Ef 5,22-33). Altra questione – complessa e affaticata anche da un punto di vista socio-culturale – sarà, all’interno della pastorale vocazionale, cercare di coniugare con la verginità cristiana, la vocazione al sacerdozio ministeriale che, propriamente nella tradizione della Chiesa latino-occidentale, comporta canonicamente il celibato.