Vocazione e vocazioni nei piani pastorali della CEI dell’ultimo ventennio. Aspetti antropologici e sociologici
La rivista ‘Vocazioni’ nei suoi vent’anni di pubblicazione ha camminato in sintonia con i progetti pastorali offerti dalla Conferenza Episcopale Italiana, dimostrandosi anche sismografo sensibile della mutazione del contesto socio-culturale all’interno del quale riproporre il vangelo della vocazione e la pastorale delle vocazioni specifiche. In questo contributo si riprendono i quattro progetti pastorali per la chiesa in Italia elaborati nei decenni successivi al concilio Vaticano II, rileggendo soprattutto lo sforzo presente in essi di delineare il volto dell’uomo contemporaneo e i tratti della società in rapida evoluzione. Si è anche cercato di raccordare le scarne linee di lettura della situazione, proposte nei vari piani pastorali, con alcuni significativi documenti di pastorale vocazionale predisposti dalla Chiesa italiana in cui è più limpida la coniugazione del quadro sociale ed antropologico con la tematica vocazionale. Lo scopo, pur limitato, è quello di contribuire ad una migliore intelligenza dei processi culturali all’interno dei quali si è prospettato il servizio del Centro Nazionale alla pastorale delle vocazioni[1].
Il piano pastorale degli anni ‘70 Evangelizzazione e sacramenti: il processo di secolarizzazione e la dimensione progettuale della vita
Il piano Evangelizzazione e sacramenti, consegnato alla Chiesa italiana il 12 luglio 1973, individuando come obiettivo dell’azione pastorale l’impegno a mostrare la profonda connessione tra l’annuncio della Parola e la sua iscrizione efficace nella vita di fede del credente attraverso dinamismo sacramentale, premette una sobria analisi della situazione socio-culturale centrata sul fenomeno della secolarizzazione e sulla deriva secolaristica della cultura, come chiave interpretativa della condizione antropologica[2]. Ampiamente debitore delle grandi indicazioni proposte nella costituzione Gaudium et spes del Vaticano II, il documento programmatico per gli anni ‘70, non manca di recensire, con una certa precisione, il fenomeno del secolarismo e di mostrarne le profonde implicazioni sulla vita degli uomini: “esaltando eccessivamente le realtà terrene, giunge ad affermare l’autonomia assoluta dei valori umani e a negare i valori della trascendenza in genere, e della rivelazione cristiana in particolare” (n. 4). L’appiattimento dell’uomo, centrato su di sé, alla dimensione orizzontale dell’esistenza, la difficoltà a ripensare la sua “differenza” rispetto alle altre realtà terrestri, la risoluzione della vita esclusivamente nella chiave dei progetti intra-storici, sono gli aspetti messi in evidenza dal testo, preoccupato anche di mostrare il risvolto problematico di tale prospettiva sulla fede cristiana. In particolare preziosa per il problema vocazionale è l’indicazione della difficoltà che l’uomo della città secolare avvertirebbe “a comprendere il disegno di Dio nella storia” (n. 5), anche in quella personale, e il senso di insignificanza che progressivamente verrebbe indotto per l’azione di Dio in lui espressa nella dinamica simbolica del sacramento. La decisione su di sé, circa il proprio futuro e il senso da imprimere alla propria storia personale, sotto la spinta della lettura secolaristica della vita, si riducono ad una costruzione puramente mondana. È evidente, comunque, che la chiave progettuale, lo sforzo di ridire l’esperienza umana in una prospettiva di unificazione progressiva alla luce della proposta divina assimilata attraverso un più vitale accostamento all’evangelo e ai sacramenti, resta ancora, nel contesto degli anni ‘70, una risorsa anche per la pastorale vocazionale. Su questa base è possibile sviluppare, leggendo in trasparenza le indicazioni del documento, una più specifica azione vocazionale centrata sulla chiave del progetto di vita da scoprire in sintonia con la comunicazione di Dio all’uomo.
L’altro elemento evidenziato dal testo, da riferire ad una più ampia dinamica socio-culturale, è la modalità di accostamento al messaggio evangelico. Il testo dei vescovi italiani rilegge a questo proposito una caratteristica emblematica della società del tempo, riconducile al trapasso dall’omogeneità sociale, caratterizzata da un certo fissismo nei valori, ad una società marcatamente dialettica, incline alla contestazione nei confronti degli stili di vita consolidati in vista del processo di cambiamento sorretto da differenti opzioni ideologiche. Indicatore di tale passaggio è l’approccio al vangelo, “letto da alcuni in termini di tutela e di garanzia di un ordine definitivamente costituito, sia religioso che sociale”, e dunque in una prospettiva fissista e conservatrice, “inteso invece da altri come un messaggio di semplice liberazione umana, soprattutto economica e politica” (n. 9) e dunque in una chiave di critica radicale ai valori dominanti[3]. Ricondotto a strumento per la conservazione sociale, o riletto in chiave di istanza liberatrice, l’approccio al vangelo risulta ugualmente sfocato e incapace di raggiungere in modo corretto l’uomo aprendolo ad una comprensione di sé che trascenda l’orizzonte della sua storia.
Pressoché contemporaneo a Evangelizzazione e sacramenti è il primo piano pastorale per le vocazioni in Italia elaborato dal Centro Nazionale Vocazioni ed approvato dalla Commissione episcopale CEI per l’educazione cattolica il 10 luglio 1973[4]. Non mancano significative convergenze nella lettura della situazione religiosa del paese e delle sue profonde mutazioni capaci di influire in senso problematico sulla pastorale vocazionale. I nuovi modelli sociali, introdotti dalla massiccia urbanizzazione e industrializzazione, la tendenza alla laicizzazione degli stili di esistenza, il ripiegamento sui valori dell’utile e dell’immediato, ma anche i fermenti di rinnovamento in vista di un cammino cristiano più autentico, di cui la popolazione giovanile è in quel tempo portatrice, sono evidenziati nel testo che, tuttavia, è debitore nella recensione dei fenomeni all’importante documento, emanato il 15 agosto 1972, impegnato a tracciare gli orientamenti e le norme su La preparazione al sacerdozio ministeriale[5]. Sono visibili anche in quest’ultimo testo normativo precisi sforzi di lettura della situazione contenuti nelle premesse (nn. 1-53). In particolare si tenta di abbozzare il tema della crisi antropologica, connessa all’impegno di trasmissione dei valori cristiani, e della conflittualità, che si estende in campo sociale e culturale per la quale: “il senso cristiano della vita è messo in discussione” (n. 6)[6].
Fedele specchio dell’Italia degli “anni della contestazione” e della messa in discussione dei valori consolidati, i documenti pastorali degli anni ‘70 ripercorrono temi e motivi della lettura sociale ed antropologica in cui, accanto a deboli segnali promettenti, comunque di difficile decifrazione in un contesto culturale in accelerato movimento sotto la spinta di fenomeni contestativi, un più ampio spazio è attribuito agli indicatori negativi, tendenzialmente riletti come conseguenze del processo di secolarizzazione. Dentro questo quadro emerge, in senso positivo, come chiave interpretativa l’antropologia della progettualità, centrata sulla riscoperta della vita come vocazione, in vista di un più profondo radicamento dell’esistenza personale nel disegno di Dio e non solo chiusa entro l’orizzonte mondano. La forte tensione progettuale che attraversa ampie fasce della cultura laica e cristiana dell’Italia del tempo, tende così ad essere interpretata, orientandola in senso cristiano, come modello per la crescita di fede e per la stessa proposta vocazionale.
Il piano pastorale degli anni ‘80 Comunione e comunità: l’emergenza del personale e comunitario
Gli anni ‘80 sono contrassegnati dalla stesura del nuovo progetto pastorale Comunione e comunità (1 ottobre 1981), dalla preparazione e dalla celebrazione del convegno della Chiesa italiana su La forza della riconciliazione (4 ottobre 1984) e, soprattutto in ambito vocazionale, dalla composizione del nuovo piano di pastorale Vocazioni nella Chiesa italiana del 26 maggio 1985[7]. Comunione e comunità, in continuità con il precedente piano, s’impegna ad approfondire il segno dell’unità ecclesiale, non solo alla luce di una teologia della comunione, ma anche in riferimento alla condizione antropologica e sociale del nostro Paese e a tale scopo svolge alcune considerazioni sulla situazione della Chiesa in Italia (cfr nn. 5-12). Di particolare interesse è il n. 11 del documento che cerca di fotografare la lacerazione del tessuto sociale e l’emergenza di situazioni di ostilità conclamata nei confronti dei quali i vescovi invitano a lavorare per la ricomposizione nel segno della comunione ecclesiale, e, in senso ministeriale, per l’unità della società civile[8]. Il testo restituisce in filigrana l’importante momento di transizione dalla conflittualità verso la complessità sociale, intesa come nuovo modello interpretativo di dinamiche spesso ambigue quali l’appartenenza debole e selettiva alle stesse istituzioni e l’emergere di spinte di tipo individualistico e corporativistico, connesse alla soggettivizzazione degli stili di vita e al pluralismo etico di fatto. Di tale risvolto antropologico e sociologico il documento programmatico non propone un’espressa analisi, anche se pare risultare con chiarezza sullo sfondo della convinta proposta della dimensione comunionale e comunitaria di vita. Una maggiore intelligenza della situazione viene, tuttavia, da un altro testo che integra la lettura propositiva di Comunione e comunità, dedicato a La Chiesa italiana e le prospettive del paese del 22 ottobre 1981. Elaborato dal Consiglio permanente della CEI si preoccupa di “capire il momento e affrontare il domani”, introducendo il punto di vista degli “ultimi” della società, per suggerire un vistoso cambiamento di vita prospettato con accenti critico-profetici al n. 6 che invita a demolire gli idoli del “denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle nostre possibilità” e suggerisce di ritrovare i valori propri del “bene comune”, “della tolleranza, della solidarietà, della giustizia sociale, della corresponsabilità”[9] .
Ideale proseguimento di tale coraggiosa e franca lettura della situazione è il sussidio in preparazione al secondo convegno ecclesiale, tenutosi a Loreto nel 1985: La forza della riconciliazione. Cercando di precisare le caratteristiche della complessità sociale e del suo risvolto antropologico, il testo mette in evidenza motivi radicali per valutare e ripensare la comprensione dell’uomo contemporaneo. L’avvicinamento dell’umanità, in seguito al progresso tecnologico e comunicativo, non ha saputo generare maggiore prossimità fra le persone, in vista della costruzione di solidi legami sociali, ma ha portato ad accentuare rapporti di tipo strumentale e funzionale che costituiscono “una minaccia per l’identità personale dei singoli: è infatti impossibile prendere coscienza della propria identità, e quindi praticamente viverla, in assenza di quei rapporti privilegiati e primari, gratuiti e fraterni che consentono di darle concreta rappresentazione”[10].
Le indicazioni emergenti da questa lucida analisi socio-antropologica sembrano convergere verso una visione personalistica dell’uomo che sappia congiungere intimamente la comprensione della propria individualità e l’apertura all’accoglienza dell’altro, in vista di un’adeguata costruzione di sé, ricercando un fecondo equilibrio tra dimensione individuale, prossimità interpersonale, comunione sociale. Alla luce di tale antropologia si raccomanda l’azione educatrice della comunità cristiana, riconoscendo in essa la radice anche di una promettente prospettiva vocazionale.
Tale lettura era già stata anticipata, all’interno dei documenti esplicitamente vocazionali, negli orientamenti e norme su La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana del 15 maggio 1980, composto otto anni dopo il documento ad experimentum, già segnalato, su La preparazione al sacerdozio ministeriale, dell’agosto 1972. A concentrare l’attenzione sull’antropologia è in particolare la premessa al documento normativo (nn. 1-5) in cui, accanto alla preoccupata osservazione circa la diffusione di progetti umani in contrasto radicale con la prospettiva cristiana, si registra la mutazione del clima culturale rispetto ai difficili anni ‘60-’70, rilevando nuove possibilità per l’annuncio vocazionale: “basti pensare – osserva il documento – alla fondamentale domanda di valori significativi, non più accompagnata dalle resistenze e precomprensioni derivanti dal fascino delle ideologie; al passaggio dalla prevalente attenzione al ‘politico’ a una riscoperta del ‘personale’” (n. 2)[11]. La cifra della riemersione del tema della soggettività e del problema connesso della costruzione dell’identità di sé rappresenta così uno degli elementi fondamentali per articolare una pastorale delle vocazioni attenta alla persona. Tuttavia occorre notare come, tra le righe, il documento non manchi di prestare attenzione ad uno spostamento significativo: non si tratta più di orientare una forte tensione costruttiva dall’adesione ai progetti delle ideologie a quello offerto dall’evangelo, come nel decennio precedente. Negli anni ‘80 si impone una più profonda incertezza sulla pensabilità di un’identità consolidata, giocata nel dono di sé, per far strada a dimensioni più narcisistiche e di composizione modesta e provvisoria dell’esistenza individuale, a fronte del fallimento delle ideologie forti di tipo “politico” degli anni ‘70. Da qui il suggerimento ad una corretta composizione della dimensione personale e comunitaria dell’esistenza. Il documento a questo proposito è consapevole di una possibile degenerazione ed enfatizzazione della logica del privato personale “nell’individualismo e nell’intimismo”. Si comprende anche l’esplicita attenzione riservata alla dinamica comunitaria dell’esistenza civile ed ecclesiale, che sembra anticipare i temi del progetto Comunione e comunità. Il riflesso sulla presentazione della vocazione e delle vocazioni di tale antropologia, frammentata nei processi del pensiero debole, è ugualmente espressa con una precisa sintesi: “Anche l’orientamento vocazionale può risentire di questo clima; e anziché indirizzarsi verso scelte, valori e atteggiamenti sempre più chiari, esso rischia di arenarsi in una continua e dispersiva formulazione e riformulazione delle ipotesi di vita, o almeno delle motivazioni che le sorreggono” (n. 2)[12]. Negoziazione continua degli stili di esistenza, ripiegamento intimistico e accentuazione della cura di sé appaiono i tratti più diffusi della condizione antropologica negli anni del cosiddetto “riflusso”, tanto da incidere sugli stessi candidati alle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata.
Il documento pastorale Vocazioni nella Chiesa italiana del 1985, più che una compiuta analisi antropologica, offre una sintesi di temi e motivi già sviluppati, pur registrando la complessità interpretativa del fenomeno[13]. In particolare sembra restituire la categoria sintetica dell’incertezza, registrando come la crisi del senso della vita non solo si ripercuote nell’uomo sulla percezione del presente e su una disposizione sintetica di sé, ma si estende sulla stessa comprensione del suo futuro il cui contorno appare così sfuggente da affidare la costruzione della propria identità alla logica dell’immediato: “i giovani proprio di fronte al progetto del loro futuro esprimono atteggiamenti ambivalenti che oscillano tra l’esigenza di autogratificazione e l’appello di autorealizzazione; […] tra l’assuefazione alla logica del provvisorio e l’intuizione del valore di scelte radicali” (n. 18)[14]. Colpisce una certa distanza critica nei confronti di modelli di esistenza centrati sull’autorealizzazione, fatalmente autocentrati e continuamente ridiscutibili. Tale osservazione sembra indurre a una certa cautela lo stesso linguaggio pastorale troppo disinvoltamente impegnato a presentare la tematica della realizzazione di sé come chiave per la considerazione vocazionale dell’esistenza, senza però sforzarsi di mostrare in modo corretto che l’originario del senso della vita appare all’uomo come radicalmente donato e dunque debba essere accolto e riconosciuto come tale[15]. Ugualmente significativa è la sfumatura circa l’intuizione del valore connesso a scelte radicali che introduce alla dimensione affascinante della vocazione cristiana, ma anche restituisce la difficoltà a reperire la forza necessaria per radicare nell’esistenza concreta, al di là di slanci idealistici, la costruzione progressiva della propria fisionomia cristiana.
Il progetto pastorale degli anni ‘90 Evangelizzazione e testimonianza della carità: il volto testimoniale della fede e l’imporsi della questione culturale
Compresso negli ultimi anni del decennio dalla preparazione al giubileo del 2000 il progetto Evangelizzazione e testimonianza della carità, presentato alla Chiesa italiana l’8 dicembre 1990, si propone come obiettivo pastorale di evidenziare “l’intimo nesso che unisce [la] verità cristiana e [la] sua realizzazione nella carità” (n. 10), avviando anche un tempo di ripensamento teologico circa la comprensione della peculiarità dell’amore cristiano in vista dell’evangelizzazione e della qualificazione del volto testimoniale della fede. Sullo sfondo si collocano alcune note di analisi sociale e antropologica, collocate nell’ampia Introduzione. Più attento ai segnali positivi circa la ricerca di rapporti di sincera fraternità, di reciprocità uomo-donna, di solidarietà sociale, di riferimenti morali pubblici e di un riemergente bisogno di religiosità, il volto dell’uomo alle soglie del trapasso di millennio sembra manifestamente quello di una persona in ricerca, ma anche attraversata da contraddizioni e ambivalenze circa il senso della vita. Va notato, tuttavia, che gli aspetti fatti emergere nel documento non sono particolarmente indicatori di cambiamenti in atto, quanto piuttosto del radicarsi di tendenze proprie dei decenni precedenti. Più significative sono le vie proposte nella parte finale del testo per l’annuncio e la testimonianza del vangelo della carità: l’educazione dei giovani, la cultura della solidarietà e la responsabilità politico-sociale dei cristiani. In particolare l’insistenza sulla dimensione educativa, superando un’azione di pastorale giovanile giocata quasi esclusivamente in chiave di socializzazione, fa riferimento ad un’operazione di profondità sulle persone nei confronti delle quali reintrodurre lo stesso vocabolario basilare della vita come dono, gratuità e vocazione, che risulta, non di rado, quasi come una parola straniera o perlomeno desueta alle giovani generazioni.
Si profila così l’intuizione dell’attenzione alla cultura, che verrà precisata come una delle opzioni decisive della pastorale ecclesiale al convegno di Palermo (1995) sul cui esito i vescovi offrono il 26 maggio 1996 la nota Con il dono della carità dentro la storia[16]. La ripresa del tema della dissociazione tra verità oggettiva e libertà soggettiva, sulla scorta delle importanti indicazioni di Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor, assume in questo documento un ruolo assiale per comprendere la condizione socio-culturale. Pur senza impegnarsi in una penetrante analisi, i vescovi si limitano a ricorrere a tale interpretazione per lanciare il “progetto culturale orientato in senso cristiano”, fondato sulla “verità ultima” verso cui si vuole guidare l’uomo contemporaneo che “si percepisce come soggetto autocosciente e libero; afferma giustamente la propria originalità e centralità nell’ambiente naturale e sociale. È tentato però di mettere da parte il rapporto vitale con la verità oggettiva, con gli altri e con Dio. A volte spinge la propria autonomia fino a considerarsi “sorgente dei valori” e a decidere “i criteri del bene e del male”. Allora “rimane prigioniero della propria libertà; decade a individuo chiuso in se stesso e solo” (n. 26)[17].
Con gli anni ‘90, così, si offre un decisivo passaggio alla questione culturale, ad un’attenta azione pastorale che sappia andare alle radici della condizione dell’uomo. La stessa pastorale delle vocazioni assume la sfida culturale, secondo le indicazioni del pontefice che aveva individuato già nel Messaggio per la XXX Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni del 1993 in questo tema un significativo salto di qualità, e quelle prospettate nell’importante documento finale del Congresso europeo del 1997 Nuove vocazioni per una nuova Europa[18]. Il volto di un uomo contemporaneo “senza vocazione” e “senza futuro”, si impone come il maggiore ostacolo ad un lavoro culturale per riportare al centro della prospettiva di vita l’apertura di sé al futuro e alla speranza, abbracciando l’orizzonte irripetibile della vocazione che Dio non cessa di tracciare per la persona[19]. Si tratta di una logica diffusa “che riduce il futuro alla scelta di una professione, alla sistemazione economica, o all’appagamento sentimentale-emotivo, entro orizzonti che di fatto riducono la voglia di libertà e le possibilità del soggetto a progetti limitati, con l’illusione di essere libero” (n. 11.c). L’impegno culturale richiesto, dentro la complessità della cultura pluralista, incapace di operare una rigorosa e costruttiva gerarchia dei valori e delle opzioni di vita, è quello di ritornare alla “grammatica elementare” dell’esistenza, della percezione fondamentale di cosa rappresenti una vita sensata e umanamente buona e bella. L’auspicio per una nuova cultura, che intercetta lo stesso progetto culturale della Chiesa italiana, in Nuove vocazioni si impone come scelta decisiva in vista dell’annuncio, del discernimento e dell’accompagnamento vocazionale: “la penuria delle vocazioni specifiche – le vocazioni al plurale – è soprattutto assenza di coscienza vocazionale della vita – la vocazionale al singolare –, ovvero assenza di cultura della vocazione” (n. 13.c)[20].
Lo sforzo di superare l’insidia mai sopita delle formule retoriche (anche la “cultura della vocazione” può correre questo rischio) richiede, tuttavia, un lavoro continuo di approfondimento del quale sono consapevoli gli stessi vescovi italiani che al tema dei giovani e delle vocazioni hanno dedicato l’assemblea generale del 1999. Uno dei frutti dei lavori della XLVI assise generale è la stesura degli orientamenti, resi pubblici il 27 dicembre 1999: Le vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata[21]. Ritorna l’attenzione al modo di concepire la vita pervasivamente offerto dalla cultura contemporanea e ritenuto influente sulla percezione della prospettiva di una chiamata divina: “l’interpretazione cristiana della vita, come risposta alla chiamata di Dio e incontro personale con lui, si trova esposta oggi a una cultura che enfatizza da una parte il peso dei condizionamenti ambientali e dall’altra il primato delle scelte soggettive, dei progetti individuali da perseguire con energia e tenacia. Si tratta, come si può ben capire, di due istanze tra loro antitetiche, ma che rubano ambedue spazio concreto all’iniziativa di Dio e al dialogo con lui”[22].
Con questi ultimi documenti la pastorale vocazionale viene spinta a ritornare con coraggio sulla comprensione del dato antropologico, per ripensare itinerari lunghi di ricostruzione dell’uomo, trovando nello stesso servizio all’ascolto e alla risposta circa le domande di un senso più radicale per cui spendere l’esistenza (alla base di ogni ulteriore tensione progettuale) lo spazio specifico per la formazione alla visione vocazionale della vita.
Comunicare il vangelo in un mondo che cambia: l’attenzione al cambiamento, alla dinamica comunicativa, alla dimensione estetica
I recenti orientamenti per questo primo decennio del 2000, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia (29 giugno 2001), seppure ispirati da una profonda visione di spiritualità cristiana e da una correlata attenzione a tracciare percorsi pastorali, non rinunciano ad offrire suggestive sottolineature antropologiche[23]. Non si tratta, comunque, di ribaltare ottiche di lettura abbastanza sedimentate, ma piuttosto di individuare significativi aspetti che possono essere ripresi anche in chiave vocazionale.
Un primo, a cui rinvia lo stesso titolo del documento, è l’attenzione ad una considerazione non unilaterale circa il cambiamento che caratterizza lo scenario italiano. L’invito a superare inutili lamentosità nel prendere atto della situazione, può corrispondere da una parte ad uno sforzo di lucidità nell’analisi e dall’altra a non flettere da una continua ricerca sugli indicatori antropologici e culturali, senza richiudersi in letture pre-costituite, spesso frutto di superficiali semplificazioni più che di un sincero confronto con la realtà (cfr. n. 34). Ugualmente preziosa è comunque l’indicazione al paragrafo 35 degli orientamenti pastorali in cui si ribadisce che “l’attenzione a ciò che emerge nella ricerca dell’uomo non significa rinuncia alla differenza cristiana, alla trascendenza del vangelo, per acquiescenza alle attese più immediate di un’epoca o di una cultura”. Tale espressione della differenza antropologica del cristianesimo, più che da pensare in termini di contrapposizione, domanda piuttosto uno scavo nella condizione dell’uomo per scoprire fecondi punti di contatto in vista di una comprensione cristiana dell’esistenza e per operare un ritorno su quelle esperienze vitali fondanti capaci di dischiudere al senso complessivo. In questo lavoro la pastorale della vocazione, per la sua peculiare sensibilità alle persone in ricerca, potrà offrire un apporto specifico e prezioso.
L’ulteriore elemento che merita attenta considerazione è la dinamica della comunicazione, che sorregge globalmente la proposta pastorale dei vescovi italiani. Tale dinamica inerisce profondamente l’essere dell’uomo, prima che le sue concrete azioni. L’uomo è parola, comunicazione, intersoggettività che accoglie e valorizza la parola dell’altro; è ricchezza che si vuole aprire al proprio interlocutore, ma anche indigenza e bisogno di definirsi grazie al confronto sincero con l’altro. La fondamentale prospettiva dialogica per comprendere l’esistenza rappresenta così l’altro dato antropologico imprescindibile per la futura pastorale vocazionale. Entrare adeguatamente in comunicazione con l’altro è molto di più che una cortesia nei suoi confronti, o un’operazione da sottoporre a criteri di correttezza. Proporsi comunicativamente all’esistenza altrui significa aiutare l’altro a definire un senso per la propria esistenza, raccogliere la preziosità della propria vita, aiutarlo a ricomprenderla come dono e possibilità. La parola e la comunicazione aprono dal luogo angusto della solitudine e dal ripiegamento su di sé, disponendo ad accogliere come donata, anche grazie alla relazione con l’altro, la propria vita. La parola altrui che appella è dunque parola vocazionale, capace di dare una traccia su cui sviluppare la propria originale ricerca, superando quello “smarrimento” di cui il documento parla come uno dei tratti dell’uomo contemporaneo (cfr. n. 41). Tale cifra dello smarrimento, particolarmente in riferimento al senso morale, è in grado di cogliere in modo più adeguato la condizione attuale. L’indifferenza e il relativismo morale, ugualmente evocati nel testo e corrispondenti a dinamiche ben documentate, sembrano rimandare alla condizione più profonda di nomadismo della coscienza contemporanea. Un lavoro di seria comunicazione e di incontro interpersonale, permetterà, così, di porre un punto di vista, un segnale preciso di interesse e di accoglienza per avviare una ricerca condivisa della verità. Il superamento dello smarrimento attraverso l’appello di altri che invita a uscire dal circolo autoreferenziale del sé, gelosamente difeso, ma non di rado percepito come una forma vuota, rappresenta una puntuale indicazione per chi vuole oggi impegnarsi nella pastorale delle vocazioni, particolarmente nei confronti delle nuove generazioni.
Un ultimo elemento è decisivo per cogliere l’antropologia soggiacente agli orientamenti CEI di questo primo decennio del XXI secolo: la sottolineatura di categorie estetiche per rileggere l’esperienza cristiana. Più volte si accenna nel testo che la vita di Gesù non è solamente buona, ma anche bella; che l’agire di Dio nella creazione e nella storia apre uno spazio di bellezza in cui l’uomo è chiamato a sentire il volto attraente dell’amore[24]. L’attenzione alla categoria del bello, con l’apertura alla vasta gamma dell’affettività e del sentire umano, costituisce un aspetto promettente e costruttivo per affrontare l’annuncio cristiano. Essere colpiti dalla bellezza significa per l’uomo lasciarsi condurre a quell’esperienza di passività e di sorpresa di fronte al fatto di esistere in grado di generare la passione per una ricerca continua, senza precludersi anche approdi impegnativi di tipo vocazionale. Indubbiamente ciò esige da parte dell’educatore la pazienza di sviluppare in chi viene educato percorsi e strumenti per rielaborare l’esperienza dell’emozione, del sentimento, della bellezza, per evitare che essa svapori in superficiali estetismi o in meccanismi di pura ricerca del benessere psico-fisico. Tale impegno di coniugare l’immediatezza della sensazione con la via lunga della ricerca del senso che si annuncia nell’emozione, meritevole di più sostanziosi approfondimenti, è una delle chiavi imprescindibili per l’odierno annuncio della vocazione cristiana e della ricchezza delle sue vocazioni.
Note
[1] La rivista ‘Vocazioni’ ha pubblicato nel corso degli anni significativi contributi di studio sulle grandi indicazioni pastorali della Chiesa italiana. Ad essi non si è fatto diretto riferimento nella composizione di questo articolo, anche se rappresentano momenti imprescindibili per l’approfondimento del tema qui solo abbozzato. In particolare meritano una ripresa i seguenti fascicoli della rivista: Vocazioni nella Chiesa italiana 1985-1995. Il piano pastorale per le vocazioni compagnia preziosa di un decennio, ‘Vocazioni’, 12 (1995), n. 5; La pastorale delle vocazioni tra prassi e teologia, ‘Vocazioni’, 13 (1996), n. 5; Nuove vocazioni per una nuova Europa, ‘Vocazioni’ 15 (1998), n. 3; Progetto culturale e vocazioni, ‘Vocazioni’, 16 (1999), n. 4; Nuove vocazioni per un nuovo millennio, ‘Vocazioni’, 17 (2000), n. 1; Comunicare il vangelo della vocazione in un mondo che cambia, ‘Vocazioni’, 19 (2002), nn. 2, 4, 5; “Favorire un maggiore coordinamento tra la pastorale giovanile, familiare e quella vocazionale…”. Come?, ‘Vocazioni’, 20 (2003), n. 2.
[2] Evangelizzazione e sacramenti. Documento pastorale dell’Episcopato italiano, 12 luglio 1973, in Enchiridion CEI, vol. 2, Bologna, EDB, 1985, nn. 385-506. Si utilizza d’ora in poi l’abbreviazione E/CEI, seguita dal numero del volume, tralasciando altri elementi bibliografici per non appesantire la trattazione, con cui si vuole indicare questa raccolta di documenti della Chiesa italiana. In nota vengono dati i riferimenti all’edizione E/CEI, mentre nel corso dell’articolo sono inseriti i numeri dei paragrafi propri di ciascun documento.
[3] E/CEI, 2, n. 395.
[4] Testo in E/CEI, 2, nn. 293-372.
[5] Testo in E/CEI, 1, nn. 4270-4749.
[6] E/CEI, 1, n. 4276.
[7] Comunione e comunità: introduzione al piano pastorale in E/CEI, 3, nn. 633-706; La forza della riconciliazione. Sussidio della Presidenza del Comitato nazionale preparatorio del 2° convegno ecclesiale in E/CEI, 3, nn. 2008-2126; Vocazioni nella Chiesa italiana. Piano pastorale della Commissione episcopale per l’educazione cattolica in E/CEI, 3, nn. 2435-2516.
[8] Cfr. E/CEI, 3, n. 643. Sulla situazione della famiglia i vescovi hanno dedicato opportune riflessioni nel documento, annesso al piano pastorale, Comunione e comunità nella Chiesa domestica (E/CEI, nn. 707-742, in part. 724-729).
[9] “Questa esigenza di cambiamento – conclude il documento – è ampiamente intuita tra la popolazione. Emerge soprattutto quando la gente vive i drammi che nascono dalla dissipazione di valori essenziali dell’esistenza umana, quali sono: il diritto a nascere e a vivere, la libertà, l’amore, la famiglia, il lavoro, il senso del dovere, del sacrificio, la tensione morale e religiosa. E rivela, comunque, che è ormai tempo di misurarsi non sul vuoto di tanti discorsi, ma su progetti concreti, che abbiano senso”. Cfr. E/CEI, 3, n. 759.
[10] E/CEI, 3, n. 2029. Tutto il testo è una preziosa rilettura della condizione antropologica e sociale alla luce della complessità sociale. A queste indicazioni è opportuno aggiungere ulteriori indicatori della complessità segnalati in altre parti di questo documento quali la crisi e il difetto di evidenze etiche comuni (cfr. E/CEI, 3, nn. 2058-2064 e 2087-2088) e il processo di soggettivizzazione della fede con la conseguente appartenenza parziale e selettiva alla vita comunitaria e, più ampiamente, all’istituzione ecclesiale (cfr. E/CEI, 3, nn. 2082-2053).
[11] Cfr. E/CEI, 3, n. 200.
[12] Cfr. E/CEI, 3, n. 201.
[13] È significativo che questa sezione del documento (nn.14-19: cfr. E/CEI, 3, nn. 2454-2460) sia in larga parte debitrice dei documenti programmatici pastorali della Chiesa italiana già segnalati.
[14] Cfr. E/CEI, 3, n. 2458.
[15] Su questo tema, con ulteriori indicazioni, cfr. P.D. GUENZI, “Tutto me stesso”: le riserve e le sfide dell’antropologia, ‘Vocazioni’, 16 (1999), n. 6, pp. 5-13.
[16] E/CEI, 6, nn. 115- 186. Sullo scollamento tra verità e libertà cfr. n. 124.
[17] E/CEI, 6, n. 158.
[18] Il testo integrale è in ‘Vocazioni’, 15 (1998), n. 3, pp. 55-96. Ad un primo studio della “cultura vocazionale”, la rivista ‘Vocazioni’ si è impegnata con il fascicolo n. 3 del 1993.
[19] Particolare attenzione è data alla ripresa della virtù della speranza accostata alla dinamica vocazionale. Per un approfondimento su questo tema cfr. P.D. GUENZI, Speranza umana e speranza escatologica. Appunti per un percorso di senso, “Rivista di Teologia morale”, 34 (2002), pp. 215230.
[20] Cfr. il testo in ‘Vocazioni’, 15 (1998), n. 3, p. 62. Per la definizione del quadro antropologico e sociale, meritano attenzione, anche per lo stile lessicale particolarmente incisivo, tutte le osservazioni offerte nella prima parte (La situazione vocazionale europea oggi) di Nuove vocazioni per una nuova Europa (nn. 10-13: cfr. ed. cit. pp. 57-63).
[21] E/CEI, 6, nn. 2468-2520.
[22] E/CEI, 6, n. 2474.
[23] Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, in “Il Regno. Documenti”, 46 (2001), pp. 441-456.
[24] Cfr. a questo proposito tutto il primo capitolo (nn. 10-31) di Comunicare il vangelo, in cui si rilegge in modo narrativo e con ripetuti accenni “estetici” il dato cristologico.