Quale pedagogia vocazionale nella comunità parrocchiale
L’APPORTO DELLA PV PER LA COMPRENSIONE DELLA CRISI E IL RINNOVAMENTO DELLA PARROCCHIA
Nel mondo che cambia anche la parrocchia (prc) è chiamata a cambiare, in vista di nuove esigenze e prospettive, d’un nuovo modo di pensarsi e di esercitare il proprio servizio. Cambiare nel senso d’un mutamento di prospettiva generale, dunque, che implica un lasciare qualcosa (di solito ben definito) per qualcos’altro (sovente non ben definito). Forse la pastorale vocazionale (PV) assume un altro atteggiamento, un atteggiamento più positivo e propositivo: offre più che chiedere, e offre all’istituzione-parrocchia qualcosa d’importante, le indica una possibilità, un’attenzione che potrebbe contribuire al suo rinnovamento e al recupero della sua identità. Le propone, in concreto, di accogliere in sé, nel proprio essere e agire, la dimensione vocazionale come elemento portante della propria idea di sé, la invita addirittura a divenire comunità vocazionale e a riconoscere in questa caratteristica un’opportunità di rinnovamento, o forse la strada dell’autentico rinnovamento, non semplicemente la risposta a un’emergenza legata alla sua stessa sopravvivenza. Poiché la prc o è vocazionale o non è.
In altre parole, la PV in questa stagione complessa di discernimenti faticosi potrebbe contribuire notevolmente al rinnovamento della prc. Di fatto nelle analisi fatte finora nella Chiesa italiana a vari livelli, non abbiamo avuto la sensazione d’un’attenzione in tal senso; non ci è sembrato, in altre parole, che nei vari progetti di rinnovamento della prc vi sia stata grande considerazione per la problematica vocazionale, tanto meno per una pedagogia in tal senso. Tutt’al più s’è intonata la solita lamentazione della contrazione numerica d’una particolare vocazione (quella dei preti, tanto per cambiare), per cercare di giustificare la crisi della prc e chiedere alla PV stessa di risolvere se possibile il problema. Di fatto tutti sanno che le stesse Unità Pastorali sono nate da questa crisi e sono concepite prevalentemente per cercare di contenere gli effetti negativi della diminuzione quantitativa del presbiteri, per …fare economia di forze attive.
In realtà, la moderna PV può anche contribuire a capire il motivo profondo, o almeno una delle cause che riteniamo più incidenti, della crisi della prc. La quale soffrirebbe, assieme alla Chiesa tutta, di tre grandi mali: di mal di comunicazione (che la rende impotente a trasmettere al mondo e in particolare al mondo giovanile il dono di cui è portatrice), di mal di comunione (al suo interno vi sono problemi di relazione e competenze, di condivisione di doni e carismi), e di mal d’identità (è indubitabile che la prc sia alla ricerca d’un suo volto nuovo)[1].
Non potrebbe esser questa crisi legata al fatto che, da un punto di vista vocazionale, c’è stato in pratica un investimento quasi totale (teologico-vocazionale, pastorale-pedagogico, sociologico-antropologico) solo su alcune figure vocazionali (prete-pastore e . .dintorni), che ora, nella fattispecie, si dimostrano incapaci di reggere da sole l’urto della modernità e del rinnovamento anche intra-ecclesiale? Cosicché, una volta entrate in crisi queste vocazioni (crisi numerica e poi non solo tale, ma anche d’identità, di significato, di relazione pastorale…), è fatalmente entrata in crisi anche la prc. Potremmo addirittura dire che all’origine della crisi della prc c’è o c’è anche un’idea di vocazione povera, ancora solo clericale (o di speciale consacrazione), con conseguente processo di rarefazione (ecclesiale) di altre vocazioni. Insomma è la vecchia immagine della Chiesa ancora clericale e maschilista, con i laici nella posizione di fruitori di servizi religiosi, col gigante laico ancora addormentato e col rischio che, se si sveglia di soprassalto, faccia disastri.
La prc, insomma, è in crisi perché ancora troppo concepita e costruita attorno alla figura del presbitero, vera pietra angolare dell’edificio-parrocchia, o perché è ancora la prc a imbuto o a clessidra, e tutto passa e deve passare attraverso il collo dell’imbuto che è il prete; perché per troppo tempo v’è stato un attaccamento alla prc come “sistema solare della cattolicità italiana dove il prete occupa il posto del sole”[2], e dove i laici “più che abitanti d’una casa che appartiene a tutti, sono inquilini d’una struttura saldamente in mano al clero”[3]. Con poco o quasi nullo spazio per le altre vocazioni. Da tempo la PV sta lamentando questa situazione. Che forse ha connotati tipicamente italiani, d’un’Italia che un tempo era popolo di santi, navigatori, poeti… parroci e parrocchiani. E ora un po’ meno…
Vediamo allora in questa riflessione di partire anzitutto da una certa idea di prc, quella che ci fa vedere il più armonicamente possibile la correlazione tra le dimensioni della crescita nella fede e l’opzione vocazionale, e dunque tra l’essere comunità di credenti e di chiamati al tempo stesso (o di chiamati che divengono chiamanti). Quindi vedremo le caratteristiche e implicanze pedagogiche di questo modo di concepire la prc: dal punto di vista dell’animatore vocazionale (dal prete al genitore), e dal punto di vista dei percorsi educativi comunitari.
L’IDEA-MADRE DELLA PEDAGOGIA VOCAZIONALE PARROCCHIALE
Ciascuna pedagogia, quale scienza ermeneutica, come ben sappiamo, è sempre ispirata a una scienza architettonica, come nel nostro caso la teologia. C’è dunque un’idea teologica forte all’origine della pedagogia vocazionale parrocchiale:
la parrocchia è l’intero popolo di Dio,
sgorgato dal costato del Crocifisso,
vivente in un territorio,
nell’abbondanza di carismi e ministeri
donati per l’edificazione comune
e l’annuncio del vangelo.
È solo da questa identità che può derivare una corretta idea di PV per il nostro tempo che cambia in una parrocchia che cambia con esso. Possiamo scandire le componenti di questa definizione descrittiva.
La parrocchia è l’intero popolo di Dio…
Non è dunque la Chiesa e il campanile, il parroco e il cappellano o curato o coadiutore, il prete e i fedeli, i credenti e i praticanti, i battezzati e i simpatizzanti, insomma “i nostri”… La prc abbraccia tutta una certa realtà umana; non fa differenze in un tempo in cui tutto, anche l’essere umano, è visto in funzione delle categorie di appartenenza, con singolare poi incapacità a convivere con le differenze, e tendenza a chiudersi nel proprio mondo (nella propria “parrocchia”, è significativo che il termine parrocchialismo stia a indicare una mentalità chiusa in se stessa, tipica di chi non sa guardare al di là del proprio naso e della propria cultura). La prc deve essere sempre più pensata per chi di sua iniziativa non ne usufruisce più o solo saltuariamente, ad es. per quell’80 o 85% che non viene più dopo la prima-ultima comunione, per quei giovani a cui sembra non abbiamo niente da dire, per quella gente infelice chiusa nei suoi drammi, senza luce né speranza, per quei cristiani “osservanti” che nella vita si comportano come se la loro fede non avesse alcuna incidenza pratica nelle scelte e nello stile di vita, per i lontani e quelli che non verrebbero mai se dipendesse da loro…
…sgorgato dal costato del Crocifisso
È l’idea della “grazia a caro prezzo” di Bonhoeffer[4]. È l’idea della fede non come eredità semplicemente da sfruttare, come deposito di verità da custodire, come tradizione da mantenere… Ma come dono che è costato la vita al Figlio e che è giunto a me grazie alla testimonianza anche sofferta di uomini e donne, dono che implica una scelta libera e responsabile, un coinvolgimento attivo e radicale, una decisione di compromettersi non solo ai fini della propria salvezza, ma anche di quella altrui, un’opzione lucida che va nel senso del dono di sé come programma di vita. La crisi parrocchiale è, in ultima analisi, crisi di soggettivismo, d’interpretazione banale della fede e priva d’ogni passione ed entusiasmo, di assenza di senso di responsabilità e altruismo, di tendenza a farsi fruitori della prc e dei suoi servizi, invece che chiamati e inviati per la salvezza di tutti. Il “consumatore” di salvezza diverrà ovviamente anche consumatore di prc, e finirà per non aver più niente da consumare.
…vivente in un territorio
Sappiamo che quella del territorio è una questione molto dibattuta; è proprio un’interpretazione rigida o un’identificazione della prc coi suoi confini alla radice ancora della crisi in cui la prc stessa si ritrova. La tendenza attuale è quella di un superamento d’una concezione rigidamente spaziale della prc. D’altro canto sappiamo che la territorialità diventa un valore (così è stato nella storia) quando sta a dire l’inserimento in una realtà locale, la capacità di calarsi dentro un contesto originale e singolare, di tradurre il dono della fede e della salvezza in termini adeguati, comprensibili e pertinenti al bisogno di verità e di redenzione d’una particolare realtà sociale ed esistenziale. È un equilibrio non sempre facile da raggiungere, ma nel quale consiste, credo, il segreto del rinnovamento della realtà parrocchiale.
Ma è un equilibrio …instabile, che chiede molta intelligenza pastorale e dinamismo operativo. “Quando ero giovane sacerdote – ha confidato Giovanni Paolo II – ho imparato che la parte migliore di una diocesi sono sempre i confini…”. Una prc deve mantenere vivo “il gusto dei confini”[5]: luogo ove si entra in rapporto con una realtà altra, ove la nostra identità è in qualche modo messa in discussione, contestata, oppure ove ci vengono chieste le ragioni della nostra speranza, luogo che si rischia di non frequentare mai, anche per questo, eppure realtà originale da cui potrebbe venir fuori una sintesi nuova, o realtà inedita che ti mette in contatto con qualcosa di nuovo e impensato, con la presenza misteriosa di quel Dio che …abita proprio i confini, le periferie, i luoghi malfamati e le aree extraurbane, e magari finisce per capovolgere il senso del rapporto: ove l’evangelizzatore diventa evangelizzato. Diciamo per concludere che “non è un territorio che appartiene alla parrocchia, ma, al contrario, è la parrocchia che è donata a un territorio di cui assume problemi e storia di ogni giorno”[6]. Ma sempre in una prospettiva aperta e dinamica. Come ben diceva Paul Claudel: “Sali sul campanile della tua parrocchia e da lì guarda il mondo”.
…nell’abbondanza di carismi e ministeri
Questa sottolineatura ha un’enorme importanza dal punto di vista della pedagogia vocazionale. Poiché sta a indicare la pluralità delle chiamate, anzi, l’universalità delle chiamate, poiché ogni vivente è chiamato, e il credente non ha capito nulla della fede se non la vive come appello costante cui dare risposta altrettanto costante. Sta pure a indicare, tale sottolineatura, che quando la vocazione è intesa correttamente come la chiamata di tutti, allora crisi vocazionale non vuoi più dire contrazione numerica degli aspiranti al sacerdozio, semmai vorrà significare la crisi di tutte le vocazioni; ma se in realtà comincia a diffondersi una “cultura della vocazione” intorno a noi, allora è da attendersi non più crisi vocazionale, ma “abbondanza di carismi e ministeri”, tutti legati a corrispondenti chiamate.
Sarebbe la fine del…monopolio della vocazione, monopolio clericale che, come abbiamo visto, è stato senz’altro parte delle cause che hanno determinato la crisi della prc (anche se tale espressione va colta senza esasperazioni polemiche e al di là delle intenzioni dei singoli, dei singoli preti-parroci, nella grande maggioranza dotati di enorme spirito di generosità e sacrificio). È certo, comunque, che “quando la Chiesa si clericalizza e quando il clero si professionalizza (=vive il suo ministero come un mestiere qualsiasi), va in ombra la Chiesa-mistero, segno della benevolenza di Dio nella vita di ogni uomo”[7].
Mentre, quando si entra nella logica, più biblica e teologica, del dono universale della vocazione, si scoprono i doni, e si scopre che ogni comunità parrocchiale ne possiede tantissimi, perché ogni credente ne riceve, e la prc diventa il luogo ove il dono personale, vocazionale, può esser anzitutto scoperto, lo spazio nel quale i doni si cercano, quasi evocandosi e chiamandosi l’un l’altro, e ove dunque è più possibile e del tutto naturale tirarli fuori, metterli in dialogo e in relazione complementare tra loro, altrimenti “vanno a male”, deperiscono come doni che vengono dall’alto per il bene di tutti (=carismi), come servizi da offrire alla comunità e in particolare a chi è nel bisogno (=ministeri). A vari livelli: materiale, psicologico, sociale, educativo, culturale, ricreativo-sportivo, naturalmente spirituale-religioso… C’è ancora chi pensa solamente, quando sente parlare di ministeri, al ministro straordinario dell’Eucaristia o al diacono, sempre, cioè, entro un ambito legato al clericale-rituale.
…donati per l’edificazione comune
Il primo sbocco dei doni è la prc stessa, l’ambito dei credenti, la cui fede chiede di esser condivisa, e può crescere solo grazie all’apporto di tutti, al contributo che ognuno da alla fede di tutti. La prc è come la comunità dei discepoli a Gerusalemme cui fanno ritorno in fretta i due di Emmaus, per raccontare quanto hanno sperimentato nell’incontro con Gesù lungo la via. Come dice il vangelo di Luca, Cleopa e socio trovano “riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone. Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come lo avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24,33-35). In altre parole, i due pellegrini trovano la comunità che sta proclamando la sua fede; a questa proclamazione fatta da tutti (quasi un Credo) essi aggiungono la loro esperienza soggettiva, che conferma quanto la comunità stava proclamando e ne è al tempo stesso confermata. In tale episodio ritroviamo, possiamo dire, come una legge di crescita della comunità, di quella comunità credente che è la prc, che cresce attorno a un nucleo oggettivo di verità da credere nella misura in cui ogni singolo da il suo contributo credente soggettivo. Non è vero che la fede livelli le intelligenze e inibisca la libertà della mente e del cuore.
Ovviamente carismi e ministeri dei singoli contribuiscono al bene della collettività anche in altri settori e rispondendo a varie necessità, ma la prima edificazione comune è senz’altro quella della fede. La parrocchia, più precisamente, è il luogo in cui è dato al credente di metter in atto le varie articolazioni della fede, come vedremo poi, dalla fede pregata alla fede celebrata, dalla fede studiata e compresa alla fede vissuta, dalla fede sofferta-provata alla fede condivisa e annunciata, giungendo alla saldatura tra fede e condizioni della vita civile quotidiana. È infatti proprio la quotidianità, la normalità, la ferialità, l’ordinarietà l’aspetto caratteristico e peculiare della prc.
…e l’annuncio del vangelo.
Questo è forse l’elemento maggiormente qualificante il cammino di rinnovamento della prc. “Occorre dare alle nostre parrocchie – nelle parole d’un vescovo particolarmente attento a questa realtà – il carattere di una stazione missionaria. È l’esatto contrario di una ‘stazione di servizio’, un supermarket per rifornimenti spirituali, un self-service dove ciascuno sceglie quanto gli aggrada, per soddisfare gli individuali bisogni religiosi. In realtà, se una parrocchia si riduce ad essere una semplice struttura di servizi religiosi vuoi dire che ha drammaticamente smarrito il senso della missionarietà. Ci si riduce, così, a privilegiare una ‘pastorale dell’ovile’ rispetto a una ‘pastorale dei pascoli’, ad essere più attenti alla gestione dell’esistente, che alle esigenze dell’evangelizzazione. Chi conosce, però, la storia della parrocchia, sa bene che essa è nata come postazione avanzata d’evangelizzazione dalla città episcopale verso la periferia, la campagna e i villaggi. Dare, perciò, più evidente connotazione missionaria alla parrocchia, vuoi dire restituirle identità, tornare alle origini, riprendere le motivazioni che hanno ispirato l’istituzione parrocchiale”[8].
Singolare l’immagine usata dal vescovo Tonino Bello per dire il nuovo Giubileo che dovremmo ora celebrare, varcando la porta che ci faccia uscire dal tempio per andare verso il territorio: “Io vescovo mi farò strada in mezzo alla gente che stipa la chiesa. Giungerò davanti alla porta sbarrata. Dall’interno batterò col martello tre volte. I battenti si schiuderanno. E voi, folla di credenti in Gesù, uscirete sulla piazza per un incontenibile bisogno di comunicare la lieta notizia all’uomo della strada”[9]. In tal senso è di fatto vera l’espressione di chi dice che la Chiesa cammina coi piedi dei parroci! Perché, come diceva Ugo di s. Caro, “gli evangelizzatori sono i piedi della Chiesa, poiché la sostengono e la fanno camminare”[10]. Il problema, oggi come sempre e più di sempre, è che non solo i parroci dovrebbero essere gli evangelizzatori!
In sintesi potremmo dire che la prc che vive secondo l’immagine vocazionale ora delineata è quella in cui
ognuno vive la propria vocazione,
secondo il suo carisma e ministero,
e si sente responsabile di quella degli altri,
come un chiamato che diventa chiamante.
PEDAGOGIA VOCAZIONALE NELLA PARROCCHIA
Siamo allora al punto centrale della nostra analisi: l’identificazione delle linee pedagogiche per un’animazione vocazionale all’interno della prc. Di questa pedagogia cerchiamo di definire in maniera essenziale protagonisti, ambito esistenziale, obiettivo e strategie.
– Protagonista (o protagonisti)
Protagonista o interprete principale di tale pedagogia è l’adulto nella fede, colui, cioè, che è passato dalla fase della ricezione del dono della fede a quella della offerta del dono stesso. L’animatore vocazionale è essenzialmente tale credente adulto, cresciuto nella maturità della fede, divenuto attivo e intraprendente, non il semplice “consumatore di sacramenti”.
– Ambito esistenziale
Luogo di questa pedagogia è la parrocchia, intesa come comunità cristiana normale, che fa crescere in modo normale vocazioni normali[11]. È un punto qualificante tutto il nostro discorso. Quell’insistenza sul “normale” sta a indicare la natura intrinsecamente vocazionale della prc, e la stretta interdipendenza tra cammino credente e proposta vocazionale. Si tratta, dunque, della prc come comunità cristiana normale, nel senso che la fede è la sua norma (è da essa “normata”) o nel senso che in essa sono presenti tutte le dimensioni o articolazioni della fede (dalla fede pregata-celebrata alla fede vissuta-personalizzata, dalla fede studiata-approfondita alla fede sofferta-provata…, come vedremo meglio più avanti). Dunque è comunità che fa crescere nell’adesione credente. Di conseguenza è anche comunità che fa crescere vocazioni in modo normale, ovvero a partire dalla fede, dalla coscienza del dono ricevuto che per natura sua tende a divenire bene donato. Vocazione, allora, non come fatto straordinario, ma come sbocco naturale d’un cammino di fede, vocazioni normali, sia perché la vocazione è componente normale della vita umana (lasciarsi chiamare è segno di maturità e libertà ulteriore), sia perché tali vocazioni sono l’espressione-traduzione della fede nei progetti di vita di ciascuno, secondo la particolare chiamata del singolo: alla vita matrimoniale, a una particolare professione, al sacerdozio, all’impegno da credente nella politica, alla consacrazione a Dio… Ancora una volta, niente di straordinario: è normale la prc che fa crescere vocazioni a 360 gradi; non è normale la prc sterile, ove la vocazione ce l’ha solo il parroco.
– Obiettivo
Punto d’arrivo di questa pedagogia vocazionale parrocchiale è la nascita e crescita del soggetto vocazionale, ovvero di credenti che vivano consapevolmente la loro personale chiamata e si sentano responsabili di quella altrui. L’obiettivo non è dunque solo che nasca qualche vocazione (al sacerdozio), ma che ogni credente divenga soggetto vocazionale, chiamato che diviene chiamante. Parafrasando il vangelo potremmo dire che molti sono i chiamati, ma pochi, pochissimi i chiamanti… Se invece nasce questa cultura vocazionale è probabile che aumentino anche le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata.
– Strategie
Sono due le strategie educative di questa pedagogia: l’articolazione integrale dei dinamismi dell’atto di fede (dal punto di vista del metodo) e la proposta sempre integrale di itinerari credenti, entro una serie ordinata di mediazioni (in relazione ai contenuti). Ne parleremo più avanti.
Più in concreto tale pedagogia ruota attorno a due elementi, dal punto di vista dell’offerta del servizio: il presbitero come responsabile ufficiale della prc e dunque anche come primo adulto nella fede ed educatore vocazionale assieme ad altri operatori pastorali ed educatori vocazionali (consacrati/e e laici), e la comunità parrocchiale in quanto luogo vocazionale: entrambi sono responsabili di tale ministero ecclesiale educativo. Vorremmo cercar di capire come questa relazione, tra questi due soggetti protagonisti, possa esser proficua e feconda generando il soggetto vocazionale, attraverso le strategie indicate. Perché proprio qui si gioca l’avvenire della prc, il suo cambiamento rigenerativo.
Se per brevità e semplicità espositiva faremo cenno esplicito soprattutto alla figura del prete, intendiamo in realtà riferirci a tutte le figure di credenti, dai consacrati/e ai genitori, che, sempre nel contesto parrocchiale, vivono con senso di responsabilità la loro vocazione a vantaggio di chi è ancora in ricerca. Al tempo stesso è giusto ricordare la responsabilità peculiare del prete in quanto tocca a lui soprattutto dare un certo respiro vocazionale alla prc, o diventare come un animatore di animatori vocazionali. In fondo il prete è un …animale da prc, e la prc è il terreno ideale per la sua crescita e maturazione. C’è un fondo di verità nelle battute scherzose che vedono come un matrimonio o un patto d’amore il rapporto tra presbitero e la sua prc, la sua “donna”.
L’educatore vocazionale nella parrocchia (non solo il prete)
Anzitutto è fondamentale la mediazione umana dell’educatore vocazionale (EV), a partire dall’idea, già sottolineata, che non solo il presbitero è chiamato a essere tale educatore, ma qualsiasi credente consapevole del dono della fede, che dunque è anche responsabile di tale dono, per come lo vive e lo testimonia, per come lascia che la sua persona divenga tramite e mediazione del Dio-che-chiama, per come vive la propria autenticità di credente in termini di proposta che provoca altri e offre aiuto. Vediamo quali caratteristiche diventano particolarmente importanti in questo servizio, caratteristiche che non sono nuove, ma che oggi vanno particolarmente sottolineate se vogliamo davvero rinnovare la prc, soprattutto perché rispondono a precise esigenze o a singolari “vuoti” nell’esistenza dei giovani d’oggi.
Chiariamo subito bene una cosa: non facciamoci illusioni che esistano metodologie infallibili e vincenti, la pedagogia è anzitutto la persona che la mette in pratica, il metodo è soprattutto la qualità della sua vita, e la pedagogia vocazionale è primariamente il livello della sua maturità vocazionale, o della sintesi personale esistenziale tra il chiamato e il chiamante. Ciò premesso diventa significativo anche il metodo pedagogico o la strategia educativa, che però diventa efficace solo quando è personalizzato.
Più educatore e formatore
Il chiamato divenuto adulto nella fede, tanto più il presbitero e il consacrato sono tutti e ognuno un naturale educatore. Forse potremmo dire che uno diviene adulto nella fede quando passa dalla fase e dall’atteggiamento del chiamato a quella del chiamante. Se no è ancora un bambino, anche se ha 45 anni e va alla messa ogni domenica (che ovviamente sarà “la messa del fanciullo” in una prc ancora bambina…).
Credo che non sia scontato e inutile dirlo, anzi; così come non è nient’affatto scontato dire che costui/costei sia un naturale educatore, in un clima socio-culturale quale quello attuale, caratterizzato dalla latitanza delle normali agenzie educative (dalla famiglia alla scuola, dalla vita associativa ai mass-media…). D’altronde in tempi di pensiero debole non è così strano questo fenomeno: se non c’è un pensiero logico a fornire una certa percezione della realtà, chi se la sente di dire una parola forte e chiara che abbia valore per tutti e per sempre? Avremo allora due possibili conseguenze: o la neutralità falsamente contrabbandata come libertà, nel grande pantheon mediatico della pseudocultura odierna, oppure la vera e propria diseducazione, se ciò che è proposto non rispetta la dignità e il mistero umani. Con la conseguenza tragica che molti dei nostri ragazzi in pratica non ricevono alcuna educazione o la ricevono distorta. C’è in giro uno spaventoso “orfanaggio educativo” oggi, che va ben oltre il fenomeno delle famiglie spezzate o dei genitori separati.
C’è chi dice che anche la Chiesa stia venendo meno al ministero educativo, o quanto meno non lo stia interpretando con la determinazione che ci vorrebbe e che è parte d’una tradizione ricchissima al riguardo. Se è vero è molto preoccupante. E forse riscontrabile in gradi diversi nei vari tipi di credenti, ma particolarmente preoccupante proprio in chi ha dedicato la sua vita a un’opera di testimonianza ministeriale della parola di verità, come il presbitero; vedi un certo modo di gestirsi il tempo, di darsi delle priorità nel fare le cose, nella gerarchia dei valori nella sua vita parrocchiale, in cui forse il ministero dell’educazione, a livello collettivo e a livello individuale (cioè direzione spirituale), non appare esattamente tra le cose più importanti tra quelle che la prc dovrebbe garantire, con tutto ciò che significa, come cultura ecclesiale e anche come propria coscienza vocazionale, come tempo ed energie dedicate, come disponibilità all’ascolto, come coraggio di prendersi la responsabilità dell’altro, accompagnando con comprensione e pure con il richiamo esigente, dunque anche, come cura della preparazione personale (iniziale e permanente), come attenzione alla singola persona e non solo al gruppo (dato che l’educazione è fondamentalmente individuale), come elaborazione d’una pedagogia corrispondente, come metodo normale (e obiettivo) educativo da offrire idealmente a tutti… La stessa crisi vocazionale non è alla radice crisi di educatori? Il Documento del Congresso Europeo vocazionale lo dice in termini molto inquietanti: “Quanti aborti vocazionali a causa di questo vuoto educativo”[12].
Se oggi la Chiesa deve recuperare questo altissimo ministero non potrebbe esser proprio l’ambito vocazionale il luogo ove la prc in particolare può efficacemente investire dal punto di vista educativo, se non vuole rischiare l’insignificanza? E non potrebbe e dovrebbe allora il presbitero, assieme a tutte le altre forze vive che vivono in prc, dare alla sua azione una più precisa e decisa caratterizzazione educativa, per sollecitarla negli altri credenti? Se vi sono più educatori-formatori vi saranno anche più vocazioni, poiché l’opzione vocazionale è conseguenza inevitabile dell’attenzione pedagogica al soggetto. Voi pensate: vi sono circa 25.000 parrocchie in Italia: un numero che consente una ramificazione e diffusione d’un messaggio e d’una provocazione che non ha eguali a livello istituzionale mondiale. Possiamo davvero dire che in ogni prc c’è anzitutto un presbitero educatore, un educatore vocazionale (perché un prete educatore è anche animatore vocazionale, non c’è distinzione tra le due realtà), in una prc dunque tutta vocazionale e ove tutti gli adulti nella fede sono educatori vocazionali, ovvero animata in tal senso da adulti nella fede?
In estrema sintesi e sempre seguendo tale documento diciamo che concretamente tale ministero implica due grandi atteggiamenti pedagogici (e abilità corrispondenti): l’arte di aiutare il giovane a tirar fuori la sua verità (e sarebbe l’educazione), cioè a conoscersi, a conoscer le sue paure e resistenze, fragilità e dipendenze; e poi l’arte ancora di proporre al giovane un ideale di vita, qualcosa o qualcuno che dia forma alla sua vita (=formazione), le dia consistenza, solidità, compimento al massimo grado delle sue risorse, la renda degna d’esser vissuta. Un autentico accompagnamento vocazionale comporta queste due fasi, in rigoroso ordine di successione: prima l’educazione, poi la formazione[13]. Poiché non ci può esser alcuna scoperta della propria vocazione se prima non si provvede a sgomberare il terreno da timori, preoccupazioni, distorsioni percettive, equivoci di fondo…, per accorgersi di quella voce che chiama (che chiama) e scoprire nella chiamata la fonte della propria dignità (se nessuno ti chiama, infatti, non conti niente per nessuno…).
È certo che tale pedagogia comporta per chiunque la eserciti una vera e propria ascesi. Ma se la crisi vocazionale ci facesse riscoprire e recuperare in concreto la centralità di tale ministero, benedetta crisi vocazionale!
Più propositivo e coraggioso
Altra caratteristica che dovrebbe esser oggetto di attenzione è la consapevolezza d’aver qualcosa di bello e importante da comunicare e condividere col giovane, da cui il coraggio di offrirlo concretamente ma senza imporlo, soprattutto senza ridurlo alla prospettiva unicamente morale (moralistica) o devozionale o psicologico-sentimentale o buonista-filantropica o funzionale all’istituzione. Ciò che è vero, bello e buono va testimoniato e “raccontato”, non solo rispettando, ma provocando la libertà di chi ascolta perché vi riconosca qualcosa che può render vera-bella-buona anche la sua vita. Il credente-educatore deve avere la ferma consapevolezza di possedere questo tesoro, qualcosa che può dare la felicità piena al giovane, qualcosa che non può non interessarlo profondamente e che risponde alle sue domande più profonde o inespresse, compresa quella circa il suo futuro.
Da questa certezza deriva la creatività, il coraggio di fare il primo passo, la capacità di cogliere il momento giusto per fare un certo intervento, una certa intraprendenza che è fondamentale per esser educatori, e che viene dalla certezza di poter contare su Qualcuno più forte di tutte le resistenze e paure umane e che ha a cuore il futuro e la felicità del giovane.
Da tale coraggio verrà pure la determinazione nel portare avanti progetti e strategie educative che sembrano non incontrare subito favori ed entusiasmi (ad es. l’educazione all’ascolto e alla lettura della Parola, la catechesi per giovani e per adulti, la stessa proposta di direzione spirituale… ), dunque la costanza a seguire una certa strada anche quando non sembra dare risultati immediati.
Oppure sarà segno di coraggio educativo vocazionale l’affrontare con intelligenza ambienti inediti e insoliti, o persone che vivono ai confini della prc, ai margini delle normali frequentazioni parrocchiali. In tal caso il coraggio viene dalla certezza che ogni persona non solo è interessata al proprio futuro, ma ha su di sé un progetto che viene da Dio, che vai la pena scoprire, e che Dio stesso aiuterà a scoprire, credo. Ed è anche coraggio tipico dell’educatore vocazionale il non mollare la presa dopo un iniziale rifiuto, ma aver la costanza di seguire anche chi sembra aver già scelto un’altra strada, o chi è …meno interessante e sembra meno “intelligente” (dal nostro punto di vista).
Per questo tale ministero esige il coraggio di fare scelte precise rispetto alle variegate e a volte più gratificanti possibilità offerte dall’ambiente parrocchiale. Chi lavora nell’educazione e prende sul serio tale vocazione, sa di portare avanti un lavoro molto umile, del quale si vedranno i frutti solo più avanti, magari raccolti da altri, lavoro non poche volte seguito da cocenti delusioni, lavoro che chiede sacrificio e dono disinteressato di sé. Eppure sappiamo anche che un presbitero che prende così a cuore la formazione delle singole persone, trasforma perciò stesso la prc, la rende adulta.
Ma c’è ancora in giro, al contrario, un certo tipo di credente, magari anche di prete e consacrato/a, quasi timoroso, non perché è timido, ma perché non ci crede abbastanza nel tesoro che possiede, o non lo sente sufficientemente come tale per se stesso e dunque è anche incerto, gira sempre attorno alle stesse persone, ai suoi, ripete sempre le stesse cose, senza fantasia e intraprendenza, a volte è anche imbranato, non piglia mai l’iniziativa perché dice che deve rispettare la libertà dell’altro, e riesce a dire qualcosa solo quando svolge ufficialmente il suo ruolo quasi nascondendosi-difendendosi dietro esso (nell’omelia, nei sacramenti, nel rito, nella catechesi…). In effetti tali tipi compensano la loro scarsa passione interiore enfatizzando spesso la dimensione prettamente celebrativa, liturgica, rituale del loro ministero, a volte con atteggiamenti artificiosi e caricaturali, o con quel fare serioso e solenne che li rende anche singolarmente buffi e poco credibili. Oppure, estremo opposto, fan di tutto per apparire moderni e disinibiti, con pose fuori ordinanza e manie giovanilistiche che li rendono patetici e insignificanti. Verrebbe da dire a costoro: “Prete, per favore credi in te stesso!”.
Più coerente ed essenziale
Altra modalità di stile dell’adulto nella fede educatore è la sintesi tra coerenza ed essenzialità. La coerenza è qualità anzitutto interna, significa fedeltà a se stessi e alla propria vocazione, alle proprie convinzioni e valori, agli obiettivi che ci si è posti e al metodo che s’intende seguire; insomma, coerenza a ciò che è al centro della vita, che è considerato essenziale per la propria identità e felicità, alla persona del Cristo morto e risorto, al mistero della sua Pasqua come svelamento del senso della propria storia.
Ciò che è essenziale per un credente è esser segno di questa salvezza, aiutando altri ad accogliere il progetto di Dio su di loro, per lasciarsi salvare ed essere a loro volta segni di salvezza. Oggi il giovane vive immerso nella confusione più disorientante e a contatto dell’incoerenza più dissonante e dirompente, a vari livelli e in tantissime persone. Ha dunque un bisogno estremo di coerenza e di esempi di coerenza, che lascino trapelare l’essenziale della vita, e ciò che è essenziale per la sua vita e la sua felicità. Nulla come la coerenza aiuta a capire un certo messaggio. Come, al contrario, messaggi “educativi” incoerenti o tra loro contrastanti hanno lo stesso effetto dell’assenza di educazione. L’educazione è un fatto di coerenza generale. Ciò vuoi dire, dal punto di vista dell’operatore pastorale, la necessità della sua personale formazione permanente: non c’è animazione vocazionale senza formazione permanente dell’animatore: in questo legame è nascosto anche il segreto della coerenza.
Al riguardo c’è una bella espressione del card. Martini, come una raccomandazione rivolta ai suoi preti (ma la potremmo estendere a tutti i credenti impegnati), oberati di lavoro (come tutti i preti veri): “Lavorate meglio, lavorate meno, lavorate più uniti, pregate di più”. Lavorate meglio: con maggiore linearità e coerenza ulteriori, motivati sempre dalla stessa passione, testimoniandola ovunque e comunque, lavorando come innamorati, non come facchini; “meglio” vuoi dire anche con più efficacia e fantasia, con maggior serenità e gusto e fantasia, poiché nulla come la coerenza da distensione autentica alla persona e rende distensivo anche il lavoro più pesante, mentre anche la più piccola e magari segreta incoerenza (condita magari col piccante della trasgressione, per quanto leggera), in realtà non da distensione, ma crea contrasto interno, schizofrenia lacerante, piacere immediato seguito da retrogusto doloroso.
Lavorate meno: con minor dispersione d’energie, magari dietro operazioni pur benemerite (ricreative, culturali, ecc.), ma che non dicono sufficientemente la cosa più importante della vita e del ministero del prete oggi[14], senza la diabolica pretesa di dover fare tutto, d’arrivare dappertutto, di raggiungere tutti, di fare tutto in modo perfetto, d’esser migliore di tutti, stravolgendo gli orari, non rispettando l’esigenza naturale di riposo, e diventando alla fine nervosi e intrattabili, con lo sguardo incapace di guardare in alto e contar le stelle![15].
Lavorate più uniti: l’unione fa emergere quell’elemento che fa da denominatore comune, da collante, che è più forte delle differenze, ovvero l’essenziale. Per un collaboratore parrocchiale significa lavorare unito agli altri, dentro il contesto della prc, con tutti gli altri collaboratori, anzi, suscitando altri apporti e avvalendosi di altre preziose competenze (che nel linguaggio credente si chiamano meglio ministeri), senza rendersi indispensabili o insostituibili, con la coscienza (grata) di raccogliere il frutto del lavoro degli altri e di poter consegnare (gratuitamente) il proprio lavoro ad altri perché lo continuino, senza personalismi e protagonismi. La valenza educativo-vocazionale di questo modo di agire è senza calcolo.
Pregate di più: la preghiera fa entrare in scena l’essenziale, e lo mette al centro della vita, lo “intronizza”. Per questo l’orazione è strettamente legata al lavoro, gli da un orientamento, un’anima, e forse aiuta il giovane prete come ogni credente a lavorare con profitto e distensione, evitando il rischio dell’infarto o dell’esaurimento nervoso, o del lavorare a vuoto o per se stessi (che è la stessa cosa).
Più contento e credibile
Non si tratta di fare del moralismo o pie esortazioni, il punto di vista che stiamo privilegiando è quello educativo, ed è esattamente sotto questo profilo che l’autenticità del credente, chiamato che diventa chiamante, si pone come condizione assolutamente imprescindibile da cui deriva come conseguenza naturale una certa serenità e gioia ulteriore che rende credibili sia colui che chiama che la chiamata. Nulla di banalmente e magari forzatamente giulivo; si tratta, al contrario, d’esser autentici. Autenticità come coerenza, abbiamo già detto, ed essenzialità; autenticità come freschezza di motivazioni, come gusto di riscoprire ogni giorno motivi e sapori nuovi del proprio ministero: il prete, in particolare, è come il pesce, o è fresco, o comincia a puzzare con le conseguenze che sappiamo (fino a esser buttato via).
Ma autenticità, vorrei in particolare sottolineare riferendomi a chi ha fatto una scelta celibataria, come capacità di relazione, come maturità relazionale. Con quel che tale maturità suppone e significa, ovvero libertà affettiva, scelta serena e convinta dell’opzione celibataria, capacità di stare in piedi sulle proprie gambe e di apprezzare l’amicizia, di affrontare la solitudine propria e riempire quella altrui, di lasciarsi benvolere e donarsi in modo gratuito. E soprattutto come capacità di stare in mezzo alla gente, di voler bene a tutti, di vivere relazioni sane, libere e liberanti, con quello stile tipico del vergine, che non cerca se stesso, che non adotta modi di fare e voler bene tipici di altri stati vocazionali.
Come può un presbitero essere educatore ed educatore vocazionale nel momento in cui lui per primo da un messaggio distorto della sua identità vocazionale, adottando praticamente e sottilmente modalità comportamentali, nella relazione, che sono caratteristiche di altri stati di vita e altre scelte vocazionali?[16] hi tal caso fa un pessimo servizio, e invece di testimoniare una presunta libertà affettiva e disinvoltura nei rapporti, non fa che ostentare la grande confusione che ha dentro di sé, con nefasta ricaduta nel giovane ovviamente. Invece di mostrare, come s’illude, d’esser moderno e disinibito, dimostra solo d’esser ancora bambino e condizionato dal bisogno infantile d’esser amato e al centro dell’attenzione. Finendo per togliere ogni credibilità al suo essere educatore.
C’è in particolare una condizione a parer mio infallibile che rende credibile il presbitero educatore: il suo esser contento della sua scelta e in modo speciale del suo essere celibe. Non basta più oggi esser convinti, occorre esser contenti; oppure diciamo che il modo migliore di mostrare le proprie convinzioni è far vedere la propria contentezza. Se non siamo contenti, siamo i più miserabili tra i viventi, e a nulla varranno il cambiamento tecnico-organizzativo della prc e nemmeno la nostra eventuale competenza pedagogica; lo sheòl non ha mai attirato nessuno! Ma se siamo contenti allora la nostra verginità diventa feconda, madre di molti figli, come quella di cui parla il salmo.
Si racconta che all’inizio del Novecento, il Cardinale di Parigi, al momento di ordinare in Cattedrale i suoi nuovi preti, conoscendoli uno ad uno, fosse solito cambiare la domanda iniziale fatta al rettore del seminario (che di solito fa tremare vene e polsi del povero rettore): “Sei certo che ne siano degni?”, con un’altra: “Pensi che vivranno felici nel loro ministero?” (che forse fa tremare ancora di più). Voi capite che dentro la risposta a questa domanda sta buona parte della pedagogia vocazionale e della sua strategia se vuoi esser vincente!
Concludendo questo paragrafo potremmo dire che quando il credente o l’operatore pastorale, laico o presbitero o consacrato/a, vive con questa coerenza di fondo la propria vocazione, diviene di fatto pro-vocante, chiama altri, spinge a scegliere e a vivere la fede come scelta, come continua scelta. A essere e vivere in un certo modo e secondo certi valori, a credere nella Pasqua del Signore facendone il criterio del proprio amare e servire gli altri, a decidere d’usare il proprio tempo non solo per sé, ma soprattutto per gli altri, a cercare la propria identità, il proprio volto, nel servizio al bisognoso (o nei suoi piedi, come Gesù nel noto quadro di S. Koder)…
Una parrocchia vocazionale (di chiamati che diventano chiamanti)
L’azione del singolo o di alcuni gruppi non è sufficiente per cambiare la prc e renderla ambiente vocazionale, terreno fecondo di vocazioni, luogo in cui la crescita nella fede s’identifica con la scelta matura della propria vocazione. È un dato, credo, abbastanza evidente oggi.
Abbiamo detto all’inizio che la PV non chiede né pretende chissà cosa alla e dalla prc, ma le offre o le indica una strada per rinnovarsi e cambiare in un mondo che cambia, la strada della fede intesa come ricerca continua del piano di Dio su di sé, la strada della vocazione o della PV, in concreto, dato che, come ci ricorda il Documento del Congresso Europeo, la PV è la vocazione della pastorale oggi[17]; pastorale di tutte le vocazioni, indistintamente; in ogni fase e stagione della vita, senza distinzioni; pastorale portata avanti da tutti i credenti, senza eccezioni e deleghe, poiché, abbiamo ancora ricordato, un credente diventa adulto nella fede solo quando da chiamato diventa chiamante. Allora anche la prc cambia, diventa adulta nella fede, diventa un giardino con una ricchissima varietà di piante, fiori, frutti, colori, odori…
Per questo giuoco di squadra è necessario, allora, un preciso supporto dell’ambiente nel testimoniare una fede che sia legata alla vita, alla storia d’ogni giorno, alle attese e pretese, dubbi e interrogativi dell’esistenza umana, alla ferialità normale… E proprio qui la prc ritrova tutta la sua peculiarità e diviene ambiente ideale per questo tipo di testimonianza, perché, come già è stato menzionato, “la parrocchia è il luogo per sciogliere la tensione tra culto e vita. Essa può e deve operare la saldatura tra fede cristiana e condizioni della vita civile quotidiana, ma non si deve pensare alla vita come qualcosa in cui il culto non c’entra, per poi cercare una impossibile saldatura tra celebrazione cultuale e vita. Così verrebbe separato ciò che è originariamente unito”[18]. La prc è il luogo ove la straordinarietà del dono ricevuto diventa vita ordinaria.
La prc, dunque, da questo punto di vista, sembra possedere le caratteristiche giuste per incarnare e proporre una fede radicata nell’esistente, una fede dalla quale, di conseguenza, può nascere la vocazione e la capacità di ascoltare la chiamata che viene dall’alto e di rispondervi. Purché, in concreto, adotti due particolari e convergenti strategie pedagogiche nell’annuncio della fede, la strategia dell’articolazione integrale dei dinamismi della fede, dal punto di vista delle modalità o del metodo, e la strategia degli itinerari di fede quali mediazioni dell’atto credente, sul piano dei contenuti. Entrambe queste strategie conducono a quella particolare maturazione dell’atto credente che sfocia in una decisione vocazionale. Ed entrambe, ribadiamo, possono essere messe in atto pienamente e raccordate armonicamente solo in un contesto esistenziale quale quello parrocchiale. Non sono novità assolute nelle nostre riflessioni sulla PV, ma è importante ribadirle qui nel contesto dell’analisi sulla prc come luogo vocazionale.
Articolazione dei dinamismi della fede[19]
La fede, che è l’obiettivo del cammino pastorale della comunità parrocchiale, è un fatto essenzialmente dinamico, come passione che investe con la sua energia ogni azione e da sostanza al vivere umano, ma che soprattutto rende possibile la scelta vocazionale. Solo una fede forte (dinamica, appunto) fa crescere nella disponibilità vocazionale, così come ne è rinforzata. Dire che la fede è dinamica significa anche dire che essa è connessa a tutte quelle operazioni (dinamismi) che esprimono l’atto credente e ne dicono la natura complessa e variegata, anzi, tali dinamismi rappresentano in realtà le dimensioni proprie dell’atto del credere, distinte tra loro e pure strettamente collegate. Tali articolazioni sono:
– fede come dono ricevuto e che suscita gratitudine,
– fede come preghiera personale e celebrazione comunitaria,
– fede vissuta-personalizzata e tradotta in scelte di vita,
– fede amata come fonte di beatitudine,
– fede provata e sofferta,
– fede studiata e compresa,
– fede condivisa coi fratelli credenti,
– fede annunciata a tutti e testimoniata.
In altre parole: fede ricevuta – fede pregata – fede personalizzata – fede amata – fede combattuta – fede studiata – fede condivisa – fede annunciata. Credere vuoi dire metter in atto tutte queste operazioni: l’ima è legata all’altra in un rapporto di reciprocità complementare. Tutte assieme non solo irrobustiscono l’atto di fede ma confluiscono naturalmente nella scelta vocazionale come opzione fondamentale di vita e d’identità, come appropriazione definitiva della fede, come espressione del proprio personalissimo modo di credere. Anzi, potremmo dire che tale opzione rappresenta il punto massimo, più alto e del tutto coerente dei dinamismi della fede, i quali non sarebbero autentici e credibili se non determinassero nel singolo una scelta esistenziale stabile corrispondente. Ma la cosa per noi interessante è osservare che questi dinamismi appartengono alla vita di tutti i giorni, esprimono il cammino più o meno faticoso di tutti, e al tempo stesso rimandano a operazioni (la preghiera liturgica, la celebrazione comunitaria sacramentale, la catechesi per ogni fase di vita, l’ascolto e lo studio della Parola, la condivisione…) che sono parte dell’identità d’una prc, tipiche del suo essere e del suo agire, che ne dicono la fisionomia.
La vita d’una comunità parrocchiale, infatti, normalmente è fatta di tutto ciò; potremmo dire che c’è autentica prc, o vita parrocchiale solo laddove queste espressioni credenti sono attive e continuamente attivate. Ecco allora il principio: una prc in cui questi dinamismi sono di fatto operativi, o una prc che offre e assieme attiva nei credenti questo tipo di operazioni, senza escluderne o sottovalutarne alcuno, è una prc vocazionale, che pone le basi o le premesse anche della scelta e delle scelte vocazionali nei singoli e in ogni fase della vita. Ovvero, mentre sollecita l’atto credente come scelta di vita e che si riverbera in vari atteggiamenti esistenziali, così provoca (o pro-voca) la scelta vocazionale come espressione più alta e matura della stessa adesione credente[20].
È come se tale scelta, e la vocazione in ultima analisi, fosse il cuore segreto di tutte queste operazioni, il loro nesso coesivo, e alla fine il punto d’arrivo e assieme anche di partenza, ciò che da un colore e calore particolare a ognuno di questi dinamismi e ciò, al tempo stesso, che ne è rinforzato continuamente e reso sempre più efficace e convincente a livello di testimonianza del credente. In tal senso la scelta vocazionale è la casa costruita sulla roccia, o è la conseguenza della vitalità dei dinamismi della fede, e dunque anche della vitalità d’una prc!
Se invece manca qualcuna di queste componenti, o queste sono debolmente presenti e poco connesse tra loro, o qualcuna è particolarmente accentuata a danno di qualche altra, allora è come se la prc venisse meno alla sua funzione di luogo di nascita e maturazione dell’atto di fede e di raccordo dei suoi dinamismi. E laddove lo stesso atto di fede s’indebolisce, lì l’organismo collettivo credente diviene monco, dunque incapace di provocare la scelta vocazionale nei singoli, come sabbia che rende debole e instabile quant’è costruito su di essa. E una prc che non genera vocazioni è prc che sta morendo o è già morta. Tutto questo ci lascia intravedere la struttura architettonica di fondo della prc, come comunità di credenti che obbedisce alla regola della fede e ai suoi dinamismi, appunto. Una prc ha senso in quanto riesce a esprimere tutti questi dinamismi, perché il suo obiettivo è la crescita della e nella fede. Di qui alcune conseguenze teorico-pratiche.
La fede come coraggio di scegliere
La prima: il dinamismo forse più rilevante ai fini d’una concezione vocazionale della prc è probabilmente il 3° degli 8 da noi indicati, quello, cioè, che sottolinea l’importanza che la fede sia tradotta quotidianamente in scelte di vita. È un punto, questo, debolissimo dell’attuale impianto parrocchiale, ma anche dal punto di vista psicologico-esistenziale dei nostri giovani, che vivono oggi nella cultura dell’indecisione, e si vede. Basti pensare alla crisi della scelta matrimoniale, una crisi, forse, addirittura più grave della crisi vocazionale sacerdotale-religiosa.
In tal senso quanto potrebbe essere importante un’educazione alla fede che prenda maggiormente sul serio la capacità decisionale, o che tenda a sviluppare nel giovane credente, proprio in quanto tale, il coraggio di fare scelte precise, o il coraggio che l’opzione credente divenga generatrice di altre opzioni di vita, a cominciare da quelle più importanti. Come mai ormai tanti di quei giovani che hanno frequentato le nostre parrocchie, che hanno fatto catechesi e sono stati membri dei gruppi giovanili, poi hanno paura di scegliere, di scegliere per sempre, addirittura di amare per sempre legandosi per la vita (“nella buona e nella cattiva sorte”) a un altro, prendendo un impegno definitivo di fronte alla comunità?… Non possiamo prendercela con la cultura e gli esempi balordi, qui c’è qualcosa che non funziona proprio sul piano pedagogico dell’educazione alla fede, la quale non solo consiste in una scelta precisa, quella credente, ma determina per natura sua il coraggio di fare scelte, di superare le incertezze, di andare oltre questa benedetta cultura dell’indecisione, di fare scelte non più condizionate-frenate-inibite dalla paura del domani, dal timore di non farcela, dal dubbio sulle proprie capacità, dalla diffidenza verso l’altro, dallo scetticismo addirittura circa i propri sentimenti… è drammatico tutto questo, che porta un giovane a privarsi d’una delle cose più belle della vita, formarsi una famiglia, vivere l’amore come libertà di dire a un’altra persona: “Tu non morrai”, perché questo vuoi dire coraggio di fare una scelta per sempre, ed è un coraggio che è generato dalla fede, sostanziato di fede, che profuma di fede.
Credo allora, in concreto, che occorrerebbe scandire maggiormente la vita dell’adolescente e del giovane, in particolare, con momenti in cui prendere delle decisioni, come tappe d’un itinerario che porta progressivamente alla fede e che ha pure una certa dimensione pubblica (com’è nella natura della fede che non è solo scelta privata); insomma, non bastano le scadenze sacramentali per segnare questo percorso, soprattutto se queste non sono intese come punti d’arrivo e di partenza, o come i crocevia fondamentali che segnalano una logica di vita e tracciano in continuazione un itinerario da percorrere. Insomma, il credente, e in particolare il giovane, va in qualche modo sollecitato a “dire” la sua fede e a prender posizione nei suoi confronti, anche attraverso gesti più o meno ufficiali e vincolanti (dalla professione di fede all’assunzione volontaria d’impegni, ecc.). Una maggiore articolazione di tale cammino avrebbe il grosso vantaggio d’allenare sempre più il giovane credente a vivere la fede come scelta, fino a giungere alla scelta vocazionale.
Pedagogia vocazionale e vita sacramentale
Una pedagogia vocazionale parrocchiale normalmente prevede questi passaggi di natura educativo-formativa, in stretta correlazione con la vita nello Spirito quale è possibile vivere attraverso i sacramenti e la logica esistenziale a essa sottesa. Tale pedagogia suppone e significa l’apertura all’altro, e dunque una pedagogia della relazione, del volto: nel tu che chiama l’io riscopre la sua dignità, che lo segna dall’inizio dell’esistenza; nell’io che risponde l’individuo riconosce ancora il suo valore, o la sua responsabilità, e la serietà drammatica della vita; è una logica fondamentalmente battesimale, d’un battesimo accolto e sempre più scelto lungo la vita. Ma anche della fede pregata e celebrata, individualmente e come comunità.
Nasce e si sviluppa all’interno d’una più radicale pedagogia del senso credente della vita: la vita è un bene ricevuto, ricevuto da Dio, anzitutto, ma attraverso una serie pressoché infinita di mediazioni, è l’amore che rende figli e che da la certezza d’esser già stati amati come condizione basilare della libertà affettiva. È logica eucaristica. E anche della fede ricevuta in dono, da una comunità di credenti che m’ha preceduto e m’accompagna.
La pedagogia del senso credente della vita è la pedagogia del bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato, logica irresistibile perché del tutto naturale, inscritta nel cuore, ma che dona la vera libertà, quella che si coniuga con la responsabilità, la libertà del dono di sé. È ancora logica eucaristica. Che rimanda ai dinamismi della fede vissuta e personalizzata, ma pure amata come fonte di beatitudine e libertà.
Nella pedagogia vocazionale assume fondamentale importanza la formazione della coscienza, resa sensibile a ciò che è vero, bello e buono, perché dia forma alla propria vita, dandole verità, bellezza e bontà, e ne diventi anche norma comportamentale. La pedagogia della formazione della coscienza è la sostanza del sacramento della confessione, che rende il giovane sempre più capace di sentire nella coscienza il Dio che chiama.
La pedagogia vocazionale si precisa progressivamente attraverso una serie di scelte, piccole e grandi, quotidiane e pure a lungo termine, coerenti col senso credente della vita e convergenti verso la identificazione del proprio ruolo, della propria missione nella vita, a vari livelli. È appunto la pedagogia dell’allenamento a scegliere, allenamento che deve esser quotidiano: a scegliere, ad es., come impiegare il tempo libero, come e dove e con chi passare le vacanze, in quale giro di relazioni entrare, quali amicizie coltivare, che uso fare dei soldi, che scuola scegliere (quale facoltà), che atteggiamento tenere con gli altri, con chi è diverso da me… Ed è la logica in fondo della cresima, intesa come decisione progressiva e per nulla scontata di esser presente da cristiano in una società non cristiana. Qui sono in gioco i dinamismi credenti della fede tradotta sempre più in scelte concrete di vita, e approfondita, e condivisa coi fratelli credenti.
Momento estremamente significativo di questo iter decisionale è la scelta dello stato di vita. È importante in una parrocchia non dare per scontato nulla, neppure l’evidenza statistica, e dunque richiamare al significato di questo momento e di questa scelta, perché in ogni caso (qualsiasi sia la scelta) rispetti il senso credente della vita nella scelta di fondo, nella scelta della persona con cui condividere il progetto, nella scelta dello stile di vita, della professione e dei valori su cui costruire la famiglia. È la fase della preparazione del matrimonio, o della proposta esplicita e coraggiosa di altri progetti di vita, dal sacerdozio alla vita contemplativa. Dal punto di vista dei dinamismi della fede è il momento della fede condivisa, ma soprattutto della fede in cui il soggetto riconosce sempre più la sua propria identità, il suo io.
Una parrocchia è la casa comune, o la famiglia delle famiglie; nessuno dunque può chiudersi nella sua e provvedere esclusivamente a essa e al suo benessere, sarebbe il contrario dell’autentico benessere. La pedagogia vocazionale parrocchiale non finisce con la preparazione al matrimonio (quando va bene), ma continua in ogni fase della vita, perché il credente non cessi di vivere la sua fede con senso di responsabilità e oltre i propri piccoli interessi, sia chiamato che diventa chiamante, e non solo per i suoi figli. Potremmo dire che è proprio questa la logica dominante in tale periodo: del chiamato che diventa chiamante. Animatore vocazionale di altri, adulto nella fede in una parrocchia divenuta adulta. Qui sono attivati i dinamismi credenti della fede annunciata con coraggio.
E questo dovrebbe durare sempre, ogni giorno facendo scoprire la novità della vocazione. Perché “ogni vocazione è mattutina”[21], e c’è dunque una chiamata in ogni situazione ed età della vita. E pure una risposta da dare: “tutta la vita e ogni vita è una risposta”[22], nella salute e nella malattia; anche allora ci sarà una vocazione da vivere, misteriosa e feconda, in forza d’una fede sempre più provata e sofferta. E sarà compito della parrocchia accompagnare questi momenti e aiutare questi fratelli a vivere da chiamati anche questi momenti drammatici dell’esistenza. Fino all’ultimo giorno. Quando colui che chiama, chiamerà per sempre. E il chiamante tornerà a esser chiamato per sempre.
Concezione plastica della parrocchia
Se comunque l’obbedienza alla regola della fede è l’elemento costitutivo della prc, per quanto riguarda la sua struttura o stile operativo è importante avere un’idea abbastanza plastica della prc, come d’una realtà straordinariamente capace di adattarsi alle diverse e complesse situazioni della vita della gente. Ciò vorrà dire, molto in concreto, che una prc è fatta non solo di Chiesa, ma anche di case, di strade, d’incontri per diverse categorie di persone (dall’oratorio ai luoghi d’incontri informali, ove la gente ama riunirsi o dove il singolo tende a isolarsi); vorrà dire che l’evangelizzazione non è fatta solo in spazi sacri e deputati al culto o all’istruzione, ma avviene anche “per strada”; vorrà dire ancora un’idea di prc come amico fedele che è accanto nei momenti più significativi della vita, lieti e dolorosi, nelle diverse età e stagioni esistenziali, ove l’amico fedele, in concreto, non necessariamente né esclusivamente è il prete o il consacrato/a, ma il credente adulto nella fede, che magari ha vissuto un’esperienza di ritorno alla fede, o di esperienza particolare del proprio limite e dunque, proprio per questo, ha qualcosa da dire e una testimonianza credibile da dare[23]; è la casa di tutti dalla nascita alla morte.
E questo perché la genesi della prc, osserva acutamente il card. Scola, è anche “antropologica. Ogni uomo, ogni giorno, vive della dimensione degli affetti e di quella del lavoro… Si crea così un circolo permanente tra affetti e lavoro che ha poi nel riposo un elemento di significativo equilibrio… Ma negli affetti, lavoro e riposo si gioca inevitabilmente la concezione che si ha dell’uomo”[24]. E la prc viene proprio a rispondere anche a questa esigenza o, a livello più profondo, quella circolarità che abbiamo prima indicato a livello dei dinamismi della fede risponde alle dimensioni caratteristiche della vita umana tesa tra gli elementi di questa triade (affetti, lavoro, riposo) e dell’essere umano, essere donato alla vita, essere pensante, in cerca d’identità, di vocazione, di senso, di condivisione, ecc. È importante non dimenticarlo.
Itinerari pastorali credenti e vocazionali
Un altro spunto prospettico ci è offerto dall’angolatura dei contenuti. Come e attorno a quali contenuti una prc può costruire il suo ministero vocazionale? Iniziamo col dire che più l’azione pastorale è azione diretta, a immediato contatto con le persone, più necessita d’un piano coerente d’operazioni. Non è sufficiente, in tal senso, la nomina eventuale d’un animatore vocazionale, ma è decisivo garantire il… funzionamento vocazionale della parrocchia, attraverso una serie di mediazioni ben concertate tra loro.
Mediazione teologica
Deve essere anzitutto chiaro che la chiamata di Dio giunge attraverso la Chiesa e la Chiesa locale. E che la comunità cristiana, dunque la prc non è solo responsabile dell’animazione vocazionale, ma è ancor prima il luogo ove risuona la voce di Dio che chiama; anzi, l’esercizio della titolarità vocazionale viene correttamente interpretato solo quando la comunità ecclesiale che vive in un certo territorio diviene mediazione di quella voce. È quanto mai rilevante ribadire senso e valenza teologici della comunità quale luogo ove Dio si rivela, al di là d’ogni intimismo soggettivo o di quella pericolosa tendenza al fai-da-te anche in campo spirituale, nell’ambito della relazione con Dio, quale conseguenza anch’essa del clima di individualismo antropologico che oggi tutti respiriamo e che spesso diventa individualismo anche pastorale.
C’è oggi una nuova generazione di giovani credenti che pretende o trova più semplice rivolgersi direttamente a Dio e sembra ignorare le mediazioni di Gesù e della Chiesa[25] Generazione che predilige “i piccoli gruppi o molto i mega-raduni, ma poi, la percentuale di chi segue attivamente la vita della Chiesa è assai scarsa (…).! segni dei tempi indicano una fuga silenziosa dall’istituzione ecclesiastica”[26]. È chiaro che in un contesto come questo di individualismo percettivo-interpretativo del divino, di scavalcamento sistematico del tramite umano, di soggettivismo regolarmente e allegramente anti-istituzionale, anche se non in modo esasperato come in altri tempi, è molto difficile che la comunità parrocchiale, col suo cammino credente e i segni della sua fede, possa esser colta come luogo ove Dio rivela i suoi progetti ai singoli credenti. Occorre ridefinire un’azione pedagogicamente corretta. E proprio su quest’azione pedagogica vorremmo ora riflettere.
Mediazione pedagogica
La comunità non è solo il tramite o la mediazione attraverso cui Dio fa giungere a noi la sua parola e svela il suo progetto, ma rappresenta anche l’itinerario fondamentale, l’esperienza vitale che il credente deve percorrere e compiere per scoprire il suo ideale di vita. Esperienza che rimanda a quei “cammini comunitari di fede, corrispondenti a precise funzioni ecclesiali e a dimensioni classiche dell’essere credente, lungo i quali – ci ricorda il nostro documento – matura la fede e si rende sempre più manifesta o si conferma progressivamente la vocazione del singolo, a servizio della comunità ecclesiale. La riflessione e la tradizione della Chiesa indicano che normalmente il discernimento vocazionale avviene lungo alcuni precisi cammini comunitari”[27]: la celebrazione comunitaria e la preghiera (la liturgìa), la comunione ecclesiale e la fraternità (la koinonìa), il servizio della carità (la diakonìa), l’annuncio-testimonianza del vangelo (la martirìa)[28]. Sono esattamente i contenuti dell’itinerario credente e pure vocazionale. Che sembrano perfettamente complementari ai dinamismi della fede prima visti.
Infatti un’esperienza personale e comunitaria, sistematica e impegnativa, come può esser quella parrocchiale, in queste direzioni, che sono del tutto classiche e senza le quali non esiste vita cristiana, potrebbe e dovrebbe aiutare il singolo credente a scoprire il proprio appello vocazionale. La pastorale ordinaria, insomma, è per natura sua pastorale vocazionale: “ogni credente deve vivere il comune evento della liturgia, della comunione fraterna, del servizio caritativo e dell’annuncio del vangelo, perché solo attraverso tale esperienza globale potrà identificare il suo particolare modo di vivere queste stesse dimensioni dell’essere cristiano. Di conseguenza, questi itinerari ecclesiali vanno privilegiati, rappresentano un po’ la strada-maestra della pastorale vocazionale”[29], ed ecco perché una normale e autentica vita parrocchiale rende la prc vocazionale.
Ma non automaticamente: tali itinerari vanno caricati di valenza vocazionale, ovvero, non si può pretendere che scontatamente questi itinerari classici del vivere cristiano svelino la chiamata di ognuno, ma proprio questa dovrà esser l’attenzione dell’operatore pastorale, dal prete al catechista[30], dal consacrato/a all’adulto educatore: imprimere una prospettiva vocazionale alle dimensioni ordinarie della pastorale ordinaria parrocchiale. Evitando, d’altro lato, di pensare e collocare la PV nell’ordine delle prestazioni ulteriori, straordinarie, aggiuntive: è nel modo quotidiano di vivere la fede che può e deve lentamente rendersi evidente quella voce che chiama e può maturare il coraggio dell’assenso. Va dunque molto bene la giornata o la settimana o il mese vocazionale, ma solo all’interno d’una più generale e costante animazione vocazionale generale, altrimenti se è solo un “una tantum” è totalmente inefficace. Le iniziative straordinarie hanno senso solo se anche l’ordinario va nella medesima direzione; è un’altra legge pedagogica.
Proprio per questo e solo a questo punto la prc è una naturale culla e terra di vocazioni. Infatti queste quattro funzioni, mentre provocano un coinvolgimento globale del soggetto, lo portano anche alle soglie d’una esperienza molto personale, d’un confronto stringente, d’un appello impossibile da ignorare, d’una decisione da prendere che non si può tramandare all’infinito. Ma dovranno esser tutte presenti e armonicamente coordinate, per un’esperienza che potrà esser decisiva solo se totalizzante, che non lasci scampo. Capita invece ancora di incontrare realtà parrocchiali ove solo qualcuna di queste dimensioni è adeguatamente sottolineata, o lo è eccessivamente in riferimento alle altre. Questi squilibri o unilateralismi pastorali (che rimandano a corrispondenti schizofrenie del pastore) rendono debole il cammino di fede e pregiudicano anche la possibilità d’una intelligente e coerente provocazione vocazionale.
Quando invece il cammino abbraccia tutte queste dimensioni quale via obbligata del cammino credente, allora non solo ne guadagna la linearità del cammino, ma soprattutto vengono meglio garantite l’autenticità della ricerca e del discernimento vocazionale. Il che implica una deduzione pedagogica fondamentale: “le vocazioni che non nascono da quest’esperienza e da questo inserimento nell’azione comunitaria ecclesiale rischiano di essere viziate alla radice e di dubbia autenticità[31]… Spesso, in effetti, vi sono giovani (magari così modellati dai rispettivi pastori) che privilegiano spontaneamente l’ima o l’altra di queste funzioni (o unicamente impegnati nel volontariato, o fin troppo attratti dalla dimensione liturgica, o grandi teorici un po’ idealisti)[32]. Sarà allora importante che l’educatore vocazionale provochi nel senso d’un impegno che non sia su misura dei gusti del giovane (o suoi propri personali), ma sulla misura oggettiva dell’esperienza di fede, la quale non può, per definizione, esser qualcosa di addomesticabile. È solo il rispetto di questa misura oggettiva che può lasciar intravedere la propria misura soggettiva” [33].
Ma a questo punto la mediazione non è più solo teologica o pedagogica, ma anche psicologica.
Mediazione psicologica
Tale mediazione indica un passaggio che non viene spontaneo in particolare al giovane d’oggi, abituato com’è a privilegiare il versante soggettivo, della sua interpretazione personale, su quello oggettivo. E proprio qui, d’altro lato, l’animatore vocazionale in quanto tale ritrova la sua vocazione a essere vero e proprio educatore alla fede e formatore della decisione vocazionale. Egli deve far comprendere che “l’oggettività precede la soggettività”, ed è tutto interesse del giovane “imparare a darle la precedenza, se vuole davvero scoprire se stesso e quello che è chiamato a essere”[34].
È un principio che potrà sembrare impopolare e duro da osservare; per questo è indispensabile la testimonianza viva d’una comunità in tal senso, come uno stile di vita credente, come un normale modo d’iniziare alla fede e di far crescere nell’adesione credente che coinvolge tutti, come una autentica cultura credente nella quale uno nasce e dalla quale si sente progressivamente nutrito e sostenuto. Ma in realtà tale principio è vero anche su un piano umano: c’è un’oggettività precisa o un criterio normativo, in ultima analisi fondato sulla natura umana, che è passaggio obbligato per chi vuole realizzarsi secondo la sua verità. Dunque il giovane deve capire che se vuol davvero conoscersi e realizzarsi deve prima diventare quel che ogni uomo è chiamato a essere, già semplicemente a livello umano. Così pure, e tanto più, sul piano spirituale, deve comprendere che deve diventare quel che Dio vuole da ogni uomo, per capire ciò che vuole in particolare da lui[35]. Ecco perché l’adesione ai cammini comunitari di crescita nella fede diventa norma per conoscere la propria strada. Come dire: il senso d’appartenenza custodisce e garantisce il senso d’identità. E non solo a livello d’animazione vocazionale o di prima formazione, ma lungo tutta la vita.
Detto diversamente: c’è un’oggettività che salva la soggettività (e un senso comunitario che genera la scoperta dell’io), così come la verità protegge la libertà, ed è preciso compito del pastore come dell’educatore (entrambi animatori vocazionali) indicarla, questa verità oggettiva, nel cammino normativo della comunità credente, e guidare verso di essa, ben ricordando che “la pastorale vocazionale ha le tappe fondamentali di un itinerario di fede”[36]. Sarà nel solco di questa norma oggettiva che diventerà possibile scoprire poi il proprio originarissimo modo di render testimonianza alla verità[37].
Ecco perché tanti percorsi giovanili vocazionali restano senza sbocco o finiscono per non aver mai fine e girare su se stessi, parcheggiati in orbite perenni e inconcludenti. Anche perché non c’è una guida sicura e coraggiosa (o la guida preferisce fare il parcheggiatore), o perché la vita della comunità credente è contraddittoria e non lineare, perché non ben bilanciata nella proposta di questi 4 itinerari (per via delle simpatie soggettive del pastore, magari, o di altri operatori pastorali), e dunque sottilmente squilibrata; o perché, in ogni caso, non è ancora divenuta metodo o stile vocazionale per tutti.
Mediazione personale
Infine c’è una indispensabile mediazione a livello di persone coinvolte nell’animazione vocazionale. Si fa animazione vocazionale per contagio, grazie alla testimonianza personale, come abbiamo già ricordato, ma – aggiungiamo ora – soprattutto quando c’è una rete di più testimoni. La figura dell’animatore vocazionale oggi sta inevitabilmente cambiando. Stiamo passando dal personaggio tuttofare e che deve assumersi tutte le incombenze operative relative al “vocazionale” e concentrarle tutte su di sé, a un’articolazione di ruoli che rende maggiormente ragione della natura intrinsecamente comunitaria della stessa animazione vocazionale e la rende più efficace. La prc non può non essere immediatamente interessata a questa evoluzione, che può contribuire alla sua stessa evoluzione in questo mondo che cambia, e renderla anello indispensabile di trasmissione d’una intelligente pastorale vocazionale ecclesiale.
Non intendiamo dire che la figura dell’animatore vocazionale debba sparire perché .. .tutti devono fare animazione vocazionale. Andiamoci piano prima di delineare un futuro utopico, che ancora non esiste. Soprattutto a livello più generale e istituzionale (come una diocesi o un istituto) credo che sia ancora necessaria tale figura; ma in quanto soprattutto animatore degli animatori vocazionali, o del livello vocazionale su cui ha competenza immediata d’intervento[38], colui che oportune et importune non cessa di richiamare tutti a questo dovere, specie i latitanti e le parrocchie …latitanti vocazionalmente; una specie di “imprenditore vocazionale”, nel senso che è suo compito organizzare l’economia dell’insieme della diocesi o della famiglia religiosa, per creare cultura in tal senso o una rete di responsabilità collettive e convergenti.
Fatte le debite proporzioni lo stesso ruolo con la medesima finalità dovrebbe avere anche il primo responsabile della crescita nella fede d’una comunità parrocchiale, la cui maturità credente, abbiamo prima specificato e ora ribadiamo, è data dal fatto che tutti vivono la propria vocazione nella comune responsabilità per quella altrui: chiamati che diventano chiamanti. In tal senso il presbitero come primo educatore vocazionale deve mirare a render tutti animatori vocazionali, idealmente, nella prc. E in tal senso operare, creando cultura, cioè mentalità adulta credente, e diffondendo responsabilità a tutti i livelli nella comunità nelle sue varie articolazioni: in una prc c’è una infinita, potremmo dire, varietà di ministeri. Insomma meglio diffondere responsabilità che non disperdersi in una miriade di attività alla fine poco concludenti o inconcludenti; meglio formare il credente come naturale animatore vocazionale, ai vari livelli, che non organizzare attività episodiche ed estemporanee o chiamando gli esperti o presentando le solite più o meno eroiche testimonianze che finiscono per dare un’idea straordinaria della vocazione.
Siamo sempre più convinti che ciò che risolverà alla radice il problema vocazionale sarà solo l’assunzione di responsabilità diretta al riguardo, da parte della comunità credente in quanto tale, ovvero la presa di coscienza del “dovere di chiamare” che riguarda ogni credente che vive bene il proprio esser chiamato, o il legame indissolubile tra la dimensione vocata e vocante dell’essere cristiano, ovvero tra l’accoglienza della propria chiamata e la responsabilità circa quella altrui, hi una rete di responsabilità convergenti.
La titolarità vocazionale spetta alla comunità credente, a ogni credente. A partire dai genitori e dagli educatori, dagl’insegnanti e dai catechisti, che sono operatori vocazionali, fino ad arrivare al fratello maggiore qualsiasi, fratello maggiore nella fede e nel discepolato, che va formato a questa precisa responsabilità vocazionale nei confronti dei fratelli minori. Non solo il parroco o il cappellano, il consacrato/a o il catechista, vogliamo dire, ma anche l’allenatore della squadra sportiva, non solo il volontario della Caritas, ma anche il credente un po’ anonimo e più portato a “consumare” che non a produrre salvezza. È attraverso questo percorso che la prc potrebbe trovare sempre più la direzione del proprio autentico rinnovamento in questo mondo che cambia. È attraverso questo percorso che la prc troverà sempre più la direzione del proprio autentico rinnovamento in questo mondo che cambia.
SINTESI CONCLUSIVA
Proviamo a presentare sinteticamente alcune caratteristiche della parrocchia vocazionale.
1) Nella prc del futuro l’annuncio della fede dovrà progressivamente saldarsi con la proposta vocazionale, rivolta a tutti in ogni fase della vita, aperta a tutte le vocazioni e ministeri, attraverso ogni azione pastorale e in ogni momento della vita parrocchiale.
2) La prc dovrebbe sempre più esser vera e propria scuola vocazionale: luogo che chiama e ove si fa esperienza d’esser chiamati per tutta la vita, ma luogo anche ove si vive responsabilmente la chiamata altrui e ove si diventa chiamanti, adulti nella fede.
3) Sempre in tal senso e per favorire in particolare l’apprendimento della scelta, la prc dovrebbe esser maggiormente soggetto pro-vocante, che propone l’aspetto drammatico della fede, quale opzione credente fatta di scelte quotidiane.
4) L’operatore pastorale parrocchiale (presbitero e non solo lui) non potrà mai dimenticare che un’omelia, un’amministrazione d’un sacramento (dal battesimo all’olio degl’infermi al matrimonio), una catechesi, un’adorazione del SS.mo Sacramento, un ritiro, una messa, una confessione, una novena, un’iniziativa qualsiasi se non è vocazionale, se non propone la domanda strategica (“e io cosa sono chiamato a fare a partire da questa Parola, da questo dono…?”), non è azione liturgica o sacramentale cristiana, ma qualcos’altro, di non ben definito, ma comunque inutile e a volte contraddittorio (con l’essenza del messaggio cristiano) se non ipocrita.
5) Una prc deve essere e dar luogo a una grande fioritura ministeriale, con infinita fantasia; non può esser fatta di preti e parrocchiani, con, tutt’al più, l’aggiunta delle suore dell’asilo, ma di credenti che vivono ognuno la propria vocazione per l’edificazione comune. Nella Chiesa di Dio o fioriscono tutte le vocazioni o c’è pericolo e crisi generale vocazionale, ben ricordando che ogni vocazione ha una sua dignità.
6) La prc è sofferente, come abbiamo visto, dei 3 mali classici: mal di comunicazione, mal di comunione e mal d’identità. La vocazione (e la PV) non risolve certo per incanto queste patologie, ma in ogni caso ha qualcosa da dire a ognuna d’esse e alla radicale esigenza di cui ciascuna si fa portatrice. Indica infatti un modo di presentare la buona novella (come dono che responsabilizza), indica pure uno stile relazionale che s’ispira alla condivisione dei carismi e ministeri, disegna una Chiesa dal volto più ricco e diversificato, come un mosaico reso bello dalla presenza di tutti.
7) Animazione vocazionale parrocchiale e formazione permanente dell’operatore pastorale vanno assieme, curare l’ima è curare l’altra. Investire su entrambe è scelta strategica indovinata.
8) Una prc, normalmente, è aiutata nel metter in atto una pedagogia vocazionale dal fatto che in diocesi vi sia un progetto di animazione vocazionale. Anche qui è fondamentale il lavoro in unità d’intenti, in rete, con coerenza di passaggi dal più generale al particolare.
9) La preghiera è fondamentale per una genuina animazione vocazionale, ma non come alibi che dispensa dal pensare ad altro o addirittura dalle proprie responsabilità. La preghiera vocazionale è davvero tale non solo quando moltiplica ore di adorazione per impetrare la grazia delle vocazioni in seminario, ma nella misura in cui dispone gli animi ad assumere il corretto atteggiamento in tal senso, ossia l’atteggiamento di responsabilità unito all’intraprendenza personale. Anzi, rigorosamente parlando, non tutti possono pregare per le vocazioni, ma solo coloro che vivono bene la loro vocazione personale, solo quei chiamati che accettano di divenire chiamanti[39].
10) Le unità pastorali non risolvono automaticamente alcun problema, ma possono costituire un’occasione buona per dare un nuovo volto alla prc, responsabilizzando maggiormente il credente, ovvero facendo prender coscienza della propria responsabilità in ordine alla crescita della comunità, e rendendo finalmente attiva una certa ministerialità laica.
Note
[1] Cfr. L. Bressan, Che cos’è oggi la Parrocchia. I, in “La Rivista del Clero italiano”, LXXXIV(2003), 733-742.
[2] R. Beretta, cit. da F. Scalia, Quando il quartiere era chiesa, in “Presbyteri”, 9(2003), 650.
[3] F. Garelli, cit. da Scalia, Quando il quartiere, 646 (dalla ricerca sulla Chiesa in Italia curata da Garelli).
[4] Cfr. D. Bonhoeffer, Sequela, Brescia 1975, pp. 21-23.
[5] M. Semeraro, I piedi della Chiesa, Lettera Pastorale alla Chiesa di Oria sulla centralità della parrocchia nell’azione pastorale, Oria 2001, &7, pp. 7-8.
[6] F. Scalia, “Ripensare la parrocchia”. Un problema di fede e di cultura, in “Presbiteri”, 10(2003), 772.
[7] Scalia, Quando il quartiere, 647.
[8] semeraro, I piedi, 14.
[9] T. Bello, cit. in semeraro, I piedi, 15.
[10] Ugo di s. Caro, cit. da semeraro, I piedi, 42.
[11] Cfr. M. Muolo, Vocazioni, il “termometro” della parrocchia, intervista a mons. L. Bonari, in “Avvenire”, 3/1/2004, p. 14.
[12] Nuove vocazioni per una nuova Europa (NVNE), Roma 1998, &35 a, p. 89.
[13] Vedi su questo tema A. Cencini, I sentimenti del Figlio, Bologna 2001, pp. 42-51. Ma vedi anche NVNE, &3S-36, pp. 88-95.
[14] Ricordo, a tal riguardo, un giovane cappellano, responsabile dell’oratorio della parrocchia, al quale improvvisamente una delibera del consiglio comunale, per vari motivi, tolse il campo sportivo per un diverso utilizzo dell’area. Sembrò la fine dell’oratorio, privato d’uno spazio consi-derato essenziale, quasi il simbolo dell’oratorio classico. In realtà, raccontò poi questo prete, superato il disorientamento iniziale, fu l’inizio d’un modo diverso e davvero essenziale di fare animazione giovanile, meno articolata attorno al ludico-ricreativo e più centrato attorno a un cammino di fede. Forse diminuì il flusso quantitativo di giovani all’oratorio, ma crebbe la qualità del percorso educativo-formativo.
[15] Mi sembra pertinente al riguardo la simpatica storiella della formica n. 49.783.511: “Un formicaio ai piedi d’un vecchio abete. Milioni di formiche nere corrono senza sosta, perfettamente organizzate. Sezione trasporto aghi e foglie; sezione ricerca semi, insetti, larve; sezione allevamento e cura piccoli; comitato difesa dagli assalti… Un giorno la formica n. 49.783.511 si fermò. Ansimando s’appoggiò al lungo ago che stava trascinando e alzò lo sguardo. Si sentiva svenire…, abituata a scansare i fili d’erba, i sassolini, i bruchi, ora i suoi occhi si smarrivano nell’azzurro immenso del cielo, il cuore le scoppiava d’emozione guardando il grande tronco, i rami ordinati, il verde brillante. “N. 49.783.511 -gridò il capo settore – gli altri sgobbano e tu poltrisci! T’assegno per punizione un quarto d’ora supplementare!”. La sera la formica n. 49.783.511 fece il recupero di lavoro. Poi, mentre tutte s’infilavano nelle tane, restò fuori e scoprì le stelle. Un incanto! Tutta la notte ebbe gli occhi pieni di luce. Da allora i turni supplementari di punizione aumentavano, ma lei non si preoccupava. Anzi, diceva a tutti: “Alzate gli occhi. C’è qualcosa di grande sopra di noi, non possiamo portare solo larve e semi. Non avete mai guardato nemmeno l’abete!”. Le altre, per tutta risposta, la prendevano in giro: “Tu guardi e guardi, ma come riempiamo le riserve di cibo? Chi ripara la casa quando piove?”. La formica n. 49.783.511 lavorava, s’impegnava, rendeva bello il suo formicaio. Ma brontolavano lo stesso: “Se guardare il cielo fosse utile, dovresti essere più brava di noi, invece sei anche tu come noi. Le stelle non servono a niente” (M. robazza, Conta le stelle, se puoi segui la tua stella, in AA.VV., “Abbiamo visto la sua stella…”, suppl. a “Consacrazione e servizio”, 12(2003) 59-60). Così va spesso avanti anche il formicaio umano, anche nelle nostre parrocchie, ove nessuno spesso ha il coraggio di Abramo di guardare il cielo e contare le stelle.
[16] Sullo stile relazionale tipico del celibe per il regno dei cieli mi permetto ancora inviare al mio I sentimenti del Figlio, pp. 208-219.
[17] Cfr. NVNE, 26 b).
[18] Brambilla, cit. da Scalia, “Ripensare”, 774.
[19] Riprendo qui essenzialmente il paragrafo “L’esperienza della fede è dinamica”, apparso nel volumetto A. Cencini, “Chiamò a sé quelli che volle”. Dal credente al chiamato, dal chiamato al credente, Milano 2003, pp. 30-32.
[20] Ciò comporterà il collegamento organico con altri settori pastorali, come – ad es. – la pastorale giovanile e familiare.
[21] NVNE, 26 a).
[22] Ibidem, 26 b).
[23] Interessante l’esperienza della “evangelizzazione di strada”, gestita, come noto, da giovani nei confronti di altri giovani, soprattutto. Secondo quanto riferito dagli animatori di tale esperienza i più feriti diventano i più forti evangelizzatori.
[24] M. L. Conte, Parrocchia? “Una Casa tra le case “, in “Avvenire”, 4/X/2003, p. 23.
[25] Cfr. “…ma, ragazzi, Gesù Cristo dov’è?”, in “Rocca”, 24(1998), 12. La ricerca fu condotta da M. Pollo dell’Università Salesiana, e presentata al convegno della CEI nel novembre 1998.
[26] Ibidem.
[27] NVNE,21.
[28] Interessante il parallelo con quanto ribadiva il filosofo I. Mancini al riguardo, quando raccomandava, per l’autenticità e integrità dell’esperienza cristiana, la coesistenza di questi 4 elementi: l’evento, l’annuncio, la comunità e il comandamento (da un’intervista a S. Natoli apparsa su “Avvenire”, 12/XI/1998).
[29] Ibidem, 28.
[30] Pensiamo, ad es., agli attuali catechismi della CEI che hanno già in sé un struttura vocazionale chiara e attraente. Ma quanta coscienza c’è da parte dei responsabili della catechesi che il catechismo che fanno con quei sussidi è catechesi vocazionale? Ignorare ciò vuoi dire vanificare tutta l’azione catechetica.
[31] Questo almeno normalmente, non dimentichiamo infatti che Dio può chiamare in mille modi se quella volta, come racconta una simpatica storiella, un tizio un po’ affamato, passando sotto la finestra della cucina d’un convento all’ora di pranzo, sentì un tale profumo di cose buone e saporite da decidere d’entrare immediatamente in quel convento e farsi frate (non si sa se poi abbia perseverato, ma si spera che il tipo, una volta saziata la fame, abbia scoperto altre ragioni per restare o sperimentato altri…appetiti).
[32] Oggi, infatti, a ben riflettere, non viviamo tempi di materialismo invadente, quanto di spiritualismo esasperato e forse addirittura eccessivo, che corre sempre più il rischio d’esser totalmente gestito dal soggetto senz’alcun riferimento oggettivo e spesso senza anche alcun esito decisionale.
[33] NVNE, 28.
[34] Ibidem.
[35] Ho sviluppato questa logica sul piano più propriamente formativo nel mio volume Vita consacrata. Itinerario formativo lungo la via di Emmaus, Cinisello B. 1994, pp. 77-84.
[36] Proposizioni conclusive del Congresso Europeo sulle Vocazioni, 10, in NVNE, 28.
[37] NVNE, 28.
[38] L’incaricato vocazionale diocesano, ad esempio, sarà di per sé animatore vocazionale degli animatori vicariali (o foranei), questi – a loro volta – lo saranno degli incaricati vocazionali-parrocchiali, i quali dovranno responsabilizzare i catechisti o altri agenti pastorali locali, e così via, di livello in livello. Almeno come orientamento generale (valevole, mutatis mutandis, anche per gli istituti religiosi).
[39] Cfr. NVNE, 35 d).