Chiesa locale e vita consacrata insieme nella pastorale vocazionale: percorso di comunione ecclesiale. Perché e come?
Premessa
L’Anno dell’Eucaristia
“Mirabile è l’opera da lui compiuta nel mistero pasquale; egli ci ha fatti passare dalla schiavitù del peccato e della morte alla gloria di proclamarci stirpe eletta, gente santa, popolo di sua conquista, per annunziare al mondo la tua potenza, o Padre, che dalle tenebre ci hai chiamati allo splendore della tua luce”. Questo prefazio I delle domeniche del tempo ordinario, mentre proclama la nostra fede, ci suggerisce gli atteggiamenti che devono animare la nostra vita e il nostro impegno nella Chiesa a servizio delle vocazioni:
– “mirabile è l’opera da lui compiuta”: uno stupore colmo di gratitudine. Come ci ricorda S. Gregorio di Nazianzo, “i concetti creano degli idoli, solo lo stupore ci fa percepire qualcosa di Dio”;
– “nel mistero pasquale”: il cuore dell’annuncio e della vita vocazionale. Il cristianesimo non è una proposta generica di valori, ma incontro personale con Cristo, risorto e vivente. Paolo VI scrisse: “Nessuno segue uno sconosciuto, nessuno dà la vita per una persona che non conosce; se c’è crisi di vocazione non è perché c’è crisi di fede?” (Messaggio per la GMPV del 1977);
– “Egli ci ha fatti passare dalla schiavitù del peccato e della morte”: una conversione permanente, perché, come afferma Tertulliano, “cristiani non si nasce ma si diventa”. Il documento NVNE ci ricorda che “la risposta vocazionale deve essere mattutina”, ogni giorno nuova;
– “alla gloria di proclamarci stirpe eletta, regale sacerdozio, gente santa, popolo di sua conquista”: la dimensione ecclesiale della vita cristiana e della proposta vocazionale. È il Concilio a sottolineare che “Dio volendo salvare gli uomini non li ha presi singolarmente, ma ha fatto di essi un popolo che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse” (LG 9);
– “per annunziare al mondo la tua potenza, o Padre, che dalle tenebre ci hai chiamati allo splendore della tua luce”: la proposta vocazionale chiede prepotentemente di attraversare la vita dell’animatore vocazionale, per renderla testimonianza provocante. La pastorale vocazionale prima di scuotere la vita dei giovani, interpella quella dell’animatore vocazionale perché la sua testimonianza sia convinta e convincente e, per questo, coinvolgente.
Non potevo iniziare diversamente questa mia riflessione, se non, appunto, facendo riferimento alla Liturgia. Non solo perché, come scrivono i Vescovi italiani, si avverte “l’urgenza di esplicitare la rilevanza della liturgia quale luogo educativo e rivelativo, facendone emergere la dignità e l’orientamento verso l’edificazione del Regno” (CVMC 49); ma anche perché siamo all’inizio di questo “Anno dell’Eucaristia”. Il Papa non ci chiede “di interrompere i “cammini” pastorali che le singole Chiese vanno facendo, ma di accentuare in essi la dimensione eucaristica, che è propria dell’intera vita cristiana” (MND 5).
Se l’Anno dell’Eucaristia coinvolge tutta la Chiesa cattolica, interpella in modo particolare la Chiesa italiana. Fin dal 2001 la CEI aveva stabilito di celebrare a Bari dal 21 al 29 maggio del 2005 il Congresso Eucaristico Nazionale, il cui tema – Senza la domenica non possiamo vivere – ci chiede di riscoprire il valore e la ricchezza della domenica, e della celebrazione eucaristica, cuore della domenica.
Coincidenze? No, provvidenze! Provvidenze, sì, perché siamo convinti che, come preghiamo nella Liturgia, “in ogni tempo tu doni energie nuove alla tua Chiesa e lungo il suo cammino mirabilmente la guidi e la proteggi” (Prefazio IX delle domeniche del tempo ordinario). Anche l’Ufficio delle letture di quest’oggi ci ha sollecitati a guardare con fede la nostra vita: “Tu, o Signore, hai tutto disposto con misura, calcolo e peso” (Sap 11,20b); “Io provvedo sempre e tutto ciò che ho dato all’uomo è somma provvidenza” (S. Caterina da Siena, Dialogo della divina Provvidenza). Un animatore vocazionale non può lasciarsi trasportare dalla vita, come un tappo di sughero in un torrente in piena, ma deve essere capace, lui personalmente, ed educare i giovani a scoprire, nella trama intricata dell’esistenza, un Dio che ci visita e ci interpella. Vivere la vita vocazionalmente vuol dire appunto questo.
L’Anno dell’Eucaristia si concluderà con l’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si terrà in Vaticano dal 2 al 29 ottobre 2005 sul tema: “L’Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa”. Il prossimo Sinodo costituisce una tappa fondamentale di quel percorso di comunione ecclesiale, che è richiamato dal titolo della mia relazione. L’Eucaristia, infatti, fa la Chiesa, come mistero, comunione e missione. Non è, soprattutto, nella celebrazione eucaristica che la Chiesa si riconosce come “popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, indicando così che la comunione ecclesiale ha la sua sorgente “in alto”, nel mistero trinitario? Non è nella celebrazione eucaristica che la Chiesa invoca e accoglie continuamente il dono della comunione, offrendo la sua disponibilità all’azione dello Spirito Santo, “perché faccia di tutti noi un cuor solo e un’anima sola” (Preghiera eucaristica III)? Non è la celebrazione eucaristica una forte provocazione a vivere il mistero celebrato: “Fate questo in memoria di me”? “Sulla mensa eucaristica – ci ricorda infatti Sant’Agostino – è posto il vostro mistero; voi ricevete quello che siete. Quando tu rispondi “Amen” al sacerdote che presentandoti l’Eucaristia ti dice “il Corpo di Cristo”, tu dici “Amen” a quello che sei: il Corpo di Cristo” (S. Agostino). Ed infine, la Chiesa non è riconfermata, a partire proprio dalla celebrazione eucaristica, nella sua vocazione ad essere nel mondo “segno e strumento dell’intima comunione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1)?
I Sinodi, percorsi di comunione ecclesiale
Il prossimo Sinodo ci chiede di riscoprire i percorsi di comunione nella pastorale vocazionale non solo perché ci conduce alla sorgente della comunione, l’Eucaristia: “Sacramentum pietatis, signum unitatis, vinculum caritatis” (S. Agostino), ma anche perché attende di essere accolto come una tappa significativa di quel cammino di comunione già iniziato con i precedenti Sinodi.
Ogni Sinodo, infatti, al di là dei contenuti, pur sempre importanti, rappresenta per tutti i membri della Chiesa un invito alla comunione, a camminare insieme nella stessa direzione, a unire le forze per raggiungere l’obiettivo per il quale esso è stato convocato. Mantenere viva questa coscienza aiuta a superare ogni tentazione di astrazione e autocompiacimento, o, peggio, di individualismo e di contrapposizione. Con il Sinodo sui laici (1987), quello sui sacerdoti (1990), quello sulla vita consacrata (1994), e l’ultimo Sinodo sui Vescovi, la Chiesa si è presentata come mistero di amore e di vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che risplende nella ricchezza e reciprocità di tutte le vocazioni.
Questo mistero d’amore si offre come dono a coloro che sono nati dall’acqua e dallo Spirito (Cfr. Gv 3,5) e a coloro che sono stati chiamati a rivivere la comunione stessa di Dio e a manifestarla e comunicarla nella storia. Alla pastorale vocazionale si chiede di essere confessio Trinitatis. Dal mistero di amore trinitario nascono le diverse vocazioni e gli stati di vita cristiana, chiamati a radicarsi nella comunione e a testimoniarla nella vita. La pastorale vocazionale è continuamente sollecitata perché sia signum fraternitatis.
Questi Sinodi, trattando le diverse vocazioni o stati di vita, hanno cercato di promuoverne la ricchezza al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa. La pastorale vocazionale non può non essere servitium caritatis. C’è solo da chiedersi se le indicazioni dei Sinodi siano state realmente recepite dagli animatori vocazionali. Il nostro è un tempo che con forza ci chiede unità, non divisione; ci sollecita ad aggiungere, non a sottrarre; esige riconciliazione, non rivendicazioni. È tempo di “conversione”, di vita evangelica, tempo di agire responsabilmente secondo la grazia e il ministero ricevuti per il bene comune. Sia ben chiaro: i percorsi ecclesiali di comunione nella pastorale vocazionale incontreranno molte difficoltà se non saranno espressione di quella spiritualità della comunione che deve permeare ed essere testimoniata da tutta la nostra vita. “Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione (leggi: CRV, CDV). Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita” (NMI 43).
Perché insieme nella pastorale vocazionale?
Nel rispondere a questo interrogativo, vorrei innanzitutto soffermarmi su cosa la vita consacrata offre e chiede alla Chiesa locale. Poi, spenderò qualche parola su che cosa la Chiesa locale dona e domanda alla vita consacrata. E, infine, sulle provocazioni che vengono alla Chiesa locale e alla vita consacrata dal mondo giovanile.
Perché? Perché i consacrati hanno qualcosa da offrire e da chiedere alla Chiesa locale
Nel realizzare percorsi di comunione ecclesiale nella pastorale vocazionale, decisivo è il contributo della vita consacrata per la sua specifica vocazione alla vita di comunione nell’amore. Non è privo di significato il fatto che l’espressione “spiritualità di comunione” sia stata coniata dal Sinodo sulla vita consacrata nella proposta 28. È stata, poi, inserita nella Esortazione Vita Consecrata, in cui si legge: “Alle persone consacrate si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come ‘testimoni e artefici di quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio’. Si ricorda inoltre che un compito oggi delle comunità di vita consacrata è quello ‘di far crescere la spiritualità della comunione’, prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale, ed oltre i suoi confini, aprendo o riaprendo costantemente il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo di oggi è lacerato da odio etnico o da follie omicide” (VC 51).
Un compito che richiede persone spirituali forgiate interiormente dal Dio della comunione amorevole e misericordiosa, e comunità mature dove la spiritualità di comunione è legge di vita. La vita consacrata mentre offre questo specifico contributo, domanda alla Chiesa locale che la comunione sia la prima forma di evangelizzazione, come ci ricorda lo stesso Gesù: “Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. Anche la Liturgia ci ricorda che la comunione è frutto del mistero pasquale, segno dell’azione dello Spirito, primizia di quell’unità verso cui tende tutta l’umanità, e non un semplice escamotage organizzativo: “Con il sangue del tuo Figlio e la potenza dello Spirito, tu hai ricostituito l’unità della famiglia umana disgregata dal peccato, perché il tuo popolo, radunato nel vincolo di amore della Trinità, a lode e gloria della tua multiforme sapienza, formi la Chiesa, Corpo del Cristo e tempio vivo dello Spirito” (Prefazio IV delle domeniche del tempo ordinario).
Ma che cos’è la spiritualità della comunione, richiamata e provocata dalla vita consacrata? Con parole incisive, capaci di rinnovare rapporti e programmi, Giovanni Paolo II insegna: “Spiritualità della comunione significa innanzi tutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto”. E ancora: “Spiritualità della comunione significa capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”…”. Da questo principio derivano con logica stringente alcune conseguenze del modo di sentire e di agire: condividere le gioie e le sofferenze dei fratelli; intuire i loro desideri e prendersi cura dei loro bisogni; offrire loro una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzi tutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio; è saper fare spazio al fratello portando insieme gli uni i pesi degli altri (cfr. NMI 43).
Se si accetta il protagonismo dello Spirito e si agisce docilmente seguendo le sue ispirazioni, dall’io si passa al noi: senza confusione, senza separazione. È lo Spirito che favorisce la conversione permanente che porta a condividere quanto ricevuto per edificare il Corpo di Cristo (1Cor 12,4-11). La disponibilità all’azione dello Spirito è il miglior correttivo contro l’autosufficienza, l’indipendenza, l’emarginazione e l’arroganza.
“Non si tratta di guardarci l’un l’altro – ha detto fratel Alvaro Rodriguez Echeverria, superiore dei Fratelli delle Scuole Cristiane e Presidente dell’USG, citando A. de Saint Exupéry del Piccolo Principe –, ma di guardare insieme nella stessa direzione, il che non può essere altro che il piano salvifico di Dio. Dobbiamo unire i nostri carismi per rispondere con creatività alle nuove forme di disumanizzazione, alle nuove povertà, ai richiami che ci rivolge il mondo degli esclusi. Una presenza solidale ci deve stimolare ad una creatività feconda di iniziative in proprio e alla collaborazione in iniziative congiunte”.
Perché? Perché la Chiesa locale ha qualcosa da offrire e da chiedere alla vita consacrata
Dall’esenzione alla comunione: è questo il passaggio che si va sempre più delineando sull’orizzonte dei rapporti tra Chiesa locale e vita consacrata. È quanto si legge con chiarezza nel documento Ripartire da Cristo: “I rapporti con l’intera comunità cristiana si vanno configurando sempre meglio come scambio dei doni nella reciprocità e nella complementarietà delle vocazioni ecclesiali. È, infatti, nelle Chiese locali che si possono stabilire quei tratti programmatici concreti per consentire all’annuncio di Cristo di raggiungere le persone, plasmare le comunità, incidere profondamente attraverso la testimonianza dei valori evangelici nella società e nella cultura. Da semplici relazioni formali si passa volentieri ad una fraternità vissuta nel vicendevole arricchimento carismatico” (n. 7).
Ho l’impressione che questo non sia più solo un sogno, né tanto meno una semplice proclamazione d’intenti, ma in tante diocesi è già una splendida realtà. Molti sono i consacrati e le consacrate che lavorano con passione all’interno delle nostre diocesi, dando non solo un contributo notevole alla pastorale, ma anche un bell’esempio di generosità e di dedizione alla Chiesa. È necessario proseguire su questa strada. Lo chiedono con forza i Vescovi, nella recente Nota pastorale sulla parrocchia, innanzitutto ai presbiteri (sì, perché anche i presbiteri diocesani possono cedere alla micidiale tentazione dell’autoreferenzialità e dell’individualismo): “Valorizzare i legami che esprimono il riferimento al vescovo e l’appartenenza alla diocesi. È in gioco l’inserimento di ogni parrocchia nella pastorale diocesana. Alla base di tutto sta la coscienza che i parroci e tutti i sacerdoti devono avere di far parte dell’unico presbiterio della diocesi e quindi il sentirsi responsabili con il vescovo di tutta la Chiesa particolare, rifuggendo da autonomie e protagonismi. La stessa prospettiva di effettiva comunione è chiesta a religiosi e religiose, ai laici appartenenti alle varie aggregazioni” (VMP 3). E nel rilanciare la “pastorale integrata”, i Vescovi chiedono che si cresca nella corresponsabilità e nella comunione, prestando una grande attenzione al territorio: “Si deve distinguere tra i gesti essenziali di cui ciascuna comunità non può rimanere priva e la risposta a istanze – in ambiti come carità, lavoro, sanità, scuola, cultura, giovani, famiglie, formazione, ecc. – in ordine alle quali non si potrà non lavorare insieme sul territorio più vasto, scoprire nuove ministerialità, far convergere i progetti. In questo cammino di collaborazione e corresponsabilità, la comunione tra sacerdoti, diaconi, religiosi e laici, e la loro disponibilità a lavorare insieme costituiscono la premessa necessaria di un modo nuovo di fare pastorale” (VMP 11).
Vien chiesto con forza di superare il semplice utilizzo dei consacrati e dei laici nella pastorale per crescere sempre più tutti nella corresponsabilità, soprattutto nella fase del discernimento e della programmazione: “Ed è ancora a partire dalla diocesi che religiosi e religiose e altre forme di vita consacrata concorrono con i propri carismi all’elaborazione e all’attuazione dei progetti pastorali e offrono sostegno al servizio parrocchiale, nel dialogo e nella collaborazione” (VMP 11). E perché questo lavorare insieme nella comunione e nella corresponsabilità non sia percepito da qualcuno come una perdita della propria specificità, ecco come i Vescovi sottolineano l’apporto specifico della vita consacrata, che fa diventare la stessa sua presenza e la sua attiva collaborazione un annuncio vocazionale: “Una parrocchia che valorizza i doni del Signore per l’evangelizzazione, non può dimenticare la vita consacrata e il suo ruolo nella testimonianza del Vangelo. Non si tratta di chiedere ai consacrati cose da fare, ma piuttosto che essi siano ciò che il carisma di ciascun istituto rappresenta per la Chiesa, con il richiamo alla radice della carità e alla destinazione escatologica, espresso mediante i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza. Questa forma di vita non si chiude in se stessa, ma si apre alla comunicazione con i fratelli. Ogni parrocchia dia spazio alle varie forme di vita consacrata, accogliendo in particolare il dono di cammini di preghiera e di servizio. Ne valorizzi le diverse forme, riconosca la dedizione di tante donne consacrate, che nella catechesi o nella carità hanno costruito un tessuto di relazioni che continua a fare della parrocchia una comunità” (VMP 12).
Ecco ciò che la Chiesa locale deve saper donare alla vita consacrata: accoglienza, stima e valorizzazione. Se questo fosse tenuto costantemente presente innanzitutto dai CDV e attraverso di loro diventasse un patrimonio comune nella Chiesa locale, se ne avvantaggerebbe certamente la stessa pastorale
vocazionale. Ma la Chiesa locale ha anche qualcosa da chiedere alla vita consacrata: che la sua animazione vocazionale sia rispettosa del cammino e della vita della diocesi. Un’animazione vocazionale fatta come una specie di “incursione”, da “corpo estraneo”, genera inevitabilmente gli anticorpi. Questo non fa bene né
alla diocesi, né alla vita consacrata né, tanto meno, alla pastorale vocazionale. Vale la pena ricordare quanto si legge nel documento Ripartire da Cristo: “Ambiente privilegiato per questo annuncio vocazionale è la Chiesa locale. Qui tutti i ministeri e i carismi esprimono la loro reciprocità e realizzano insieme la comunione nell’unico Spirito di Cristo e la molteplicità delle sue manifestazioni.
La presenza attiva delle persone consacrate aiuterà le comunità cristiane a diventare laboratori della fede, luoghi di ricerca, di riflessione e di incontro, di comunione e di servizio apostolico, in cui tutti si sentono partecipi nell’edificazione del Regno di Dio in mezzo agli uomini. Si crea così il clima caratteristico della Chiesa come famiglia di Dio, un ambiente che facilita la vicendevole conoscenza, la condivisione e il contagio dei valori propri che sono all’origine della scelta di donare tutta la propria vita alla causa del Regno” (n. 16).
Perché? Perché il mondo giovanile interpella la Chiesa locale e la vita consacrata
Con sempre maggiore frequenza in questi ultimi tempi rimbalza nel Consiglio e nella Direzione del CNV la domanda che gli educatori dei seminari e i responsabili degli istituti di formazione dei consacrati rivolgono alle comunità cristiane: “Ma quali giovani ci mandate?”. Sovente questo interrogativo è seguito dall’amara constatazione dei Vescovi e dei Superiori degli istituti di vita consacrata che, dinanzi ai repentini crolli, dopo non molto tempo dall’ordinazione o dalla professione solenne, esclamano: “Come sono fragili i giovani d’oggi!”. A tutto questo non possiamo essere né sordi né indifferenti. Sono affermazioni che interpellano direttamente la pastorale vocazionale, obbligandoci non solo ad un più attento discernimento, ma anche a favorire quella maturità di fede, capace di rendere possibile sia la risposta vocazionale, come anche di sfidare l’usura del tempo.
Da anni ormai andiamo ripetendo che la pastorale vocazionale non può essere dettata dai bisogni e dalle necessità, ma deve essere espressione di quell’amore, con cui la Chiesa accompagna ogni giovane alla scoperta dell’amore di Dio e alla gioia di fare della propria vita un dono d’amore per Dio e per i fratelli, nella sequela di Cristo. Allora la nostra prima preoccupazione deve essere quella di accompagnare i giovani in questa affascinante e impegnativa avventura. Non credo che vi sia più qualcuno che presuma di poter, nel giro di pochi anni, formare vocazioni solide e mature. La formazione nei seminari e nei noviziati esige di essere preceduta dalla formazione nelle parrocchie e nelle famiglie.
Si avverte forte l’urgenza di una sinergia tra tutte le forze educative perché si generi e si diffonda una cultura vocazionale. Il tormentone delle “veline” che ha occupato tutta l’estate, i naufràgi sull’“isola dei famosi”, e le pareti di vetro della casa del “grande fratello” stanno trasmettendo l’idea che in fondo la vita non è altro che un “reality show”. Quanto questo sia lontano anni luci dalla consapevolezza che “la vita è un bene ricevuto che attende di diventare un bene donato” lo si vede chiaramente. Possiamo restare indifferenti o tutt’al più indignarci e condannare? No, non è sufficiente. È indispensabile un “patto educativo” per generare “quella cultura vocazionale” auspicata dal Papa fin dal 1993, l’unica capace di invertire la tendenza e di rispondere ad una cultura antivocazionale che genera un “uomo senza vocazione”. Questo è un compito che interpella tutti, nessuno escluso. Tutti in ogni ambiente e in ogni circostanza dovremmo favorire questo capovolgimento di visione della vita, innanzitutto attraverso la nostra testimonianza. Ci vien chiesto con forza di vivere la vocazione come dono sempre nuovo da accogliere con cuore grato. Un dono a cui rispondere con un atteggiamento sempre più responsabile, da testimoniare con maggior convinzione e capacità di contagio perché anche gli altri possano sentirsi chiamati da Dio in quella vocazione particolare o per altre strade. Il consacrato è, per sua natura, anche animatore vocazionale; chi è chiamato, infatti, non può non divenire chiamante.
Poiché non esiste un’antropologia neutra a cui fare riferimento, a noi è chiesto di diffondere una cultura vocazionale che scaturisca dall’incontro con Cristo ed è da questo continuamente alimentata. La vita come dono non può che trovare nel Cristo il suo riferimento obbligante e nell’Eucaristia, che ci dona di conformarci a “quel Corpo donato e a quel Sangue versato”, il suo alimento vitale. “Non possiamo dare per scontato – ci ricordano i Vescovi – che si conosca chi è Cristo e si faccia un’autentica esperienza ecclesiale” (VMP 6). In questo senso, come più volte ha affermato Cencini nei nostri convegni, la pastorale vocazionale oggi si presenta come un’esperienza meravigliosa di evangelizzazione.
I Vescovi italiani consapevoli di questa urgenza hanno incorniciato la recente Nota pastorale con queste due significative affermazioni: “C’è bisogno di una vera e propria “conversione”, che riguarda l’insieme della pastorale. La missionarietà, infatti, deriva dallo sguardo rivolto al centro della fede, cioè all’evento di Gesù Cristo, il Salvatore di tutti, e abbraccia l’intera esistenza cristiana. Dalla liturgia alla carità, dalla catechesi alla testimonianza della vita, tutto nella Chiesa deve rendere visibile e riconoscibile Cristo Signore” (VMP 1); “Occorre tornare all’essenzialità della fede, per cui chi incontra la parrocchia deve poter incontrare Cristo, senza troppe glosse e adattamenti. La fedeltà al Vangelo si misura sul coerente legame tra fede detta, celebrata e testimoniata, sull’unità profonda con cui è vissuto l’unico comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, sulla traduzione nella vita dell’Eucaristia celebrata” (VMP13).
Come non vedere una profonda sintonia tra queste due espressioni e quella con cui il Papa nella Pastores dabo vobis descrive il cuore della pastorale vocazionale: ““E lo condusse da Gesù”. Sta qui, in un certo senso, il cuore di tutta la pastorale vocazionale della Chiesa, con la quale essa si prende cura della nascita e della crescita delle vocazioni, servendosi dei doni e delle responsabilità, dei carismi e del ministero ricevuti da Cristo e dal suo Spirito” (n. 38). La pastorale vocazionale chiede alla pastorale giovanile di “Ripartire da Cristo!”.
Come realizzare percorsi di comunione ecclesiale nella pastorale vocazionale?
Vorrei ora rispondere, con rapidi cenni, alla seconda domanda che campeggia nel titolo della relazione affidatami: Come? È questo un passaggio obbligato, se si vuole non restare sui principi condivisi sempre da tutti, ma poi smentiti dallo stile del nostro lavoro. Senza volere indicare dei percorsi obbligatori, vorrei proporre alcune modalità con cui tradurre la ricchezza e la reciprocità delle vocazioni nella pastorale vocazionale di una Chiesa locale.
Come? Gratuitamente
Chi ha a cuore la felicità e la realizzazione dei giovani non può non assumere come programma d’azione l’espressione evangelica del Buon Pastore: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Questo esige da noi di superare continuamente gli inevitabili “conflitti di interesse” che possono sorgere, e metterci gratuitamente al servizio della vita e della gioia dei giovani. Se la vocazione è un dono gratuito, chi più dei chiamati deve sentire la necessità di testimoniare e favorire la gratuità? La pastorale vocazionale è provocata a rompere il “vaso di alabastro” e a diffondere in tutta la casa il profumo della gratuità. I giovani che sono nelle nostre diocesi e nelle nostre parrocchie non sono terra di nessuno, per cui vale la legge: “Res nullius fit primi occupanti”. Non i giovani sono terra di conquista dell’animazione vocazionale, ma l’animazione vocazionale deve sentirsi terra di conquista da parte dei giovani. Sì, solo se ci lasceremo conquistare da loro sapremo lavorare gratuitamente, vincendo la tentazione di lasciarci irretire dai nostri bisogni.
Come? Ascoltando in stereofonia
Gli Orientamenti Pastorali per questo primo decennio ci hanno sollecitati a riscoprire la necessità di metterci innanzitutto in ascolto. Sì, prima di parlare è necessario ascoltare. Non è, infatti, insignificante il fatto che in un documento che ruota attorno al tema del “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia” l’accento sia posto sul verbo “ascoltare” (che ricorre ben 56 volte) piuttosto che su parlare. Se questo vale per tutta la pastorale, non vale a maggior ragione per la pastorale vocazionale? Chi di noi non avverte l’urgenza nell’animazione vocazionale, non tanto di offrire risposte, quanto piuttosto di far sorgere le domande di senso?
Questo deve tradursi nel fare del CDV una potente stazione ricevente! Qui la comunione e la ricchezza delle vocazioni deve favorire un ascolto “stereofonico”. I diversi componenti del CDV mettendo a frutto le loro competenze, professionalità, sensibilità personali e carismi specifici, devono intercettare i segnali che, su diverse frequenze, provengono dal mondo giovanile: solo una molteplicità di antenne riceventi permette di ricevere. Quanta ricchezza vi è nelle nostre diocesi, che non sempre è valorizzata! Il CDV, con la collaborazione dei consacrati, deve favorire un circolo virtuoso: dalla conoscenza alla riconoscenza. Quanto se ne avvantaggerebbe la pastorale vocazionale se si realizzasse questo ascolto stereofonico. Si avrebbe una conoscenza del mondo giovanile delle nostre diocesi a più vasto raggio. O vi è qualcuno che pensa di poter far tutto da solo, perché tanto ci “sente bene”?
Come? Aiutando la PV ad avere uno sguardo tridimensionale
La valorizzazione della specificità e della ricchezza delle diverse vocazioni, aiuterebbe il CDV a non avere uno sguardo appiattito, ma offrirebbe alla pastorale vocazionale una indispensabile visione tridimensionale. Oggi si ricerca sempre più la specializzazione, rischiando di perdere lo sguardo d’insieme, che solo rende preziosa l’attenzione al particolare. Anche nella proposta e nella conseguente risposta vocazionale si corre il rischio di puntare decisamente sulla “specializzazione”, smarrendo l’orizzonte comune. La specificità di una vocazione non può significare svalutazione o, peggio, contrapposizione ad altri valori vocazionali. È quello che si sta realizzando oggi: risposte parziali. Giovani amanti della spiritualità che trascurano tutto il resto con il rischio di scivolare in uno spiritualismo evasivo. Giovani che si dedicano con grande generosità alle opere di carità, da trascurare di rifornirsi alla sorgente della Carità, cadendo in un vuoto attivismo. Giovani animati da una grande passione per la Sacra Scrittura, da non desiderare di accogliere, nell’incontro con il Cristo nella Liturgia, il dono di quella salvezza che la Parola annuncia.
Forse queste risposte parziali risentono di un annuncio parziale. Animatori vocazionali che pensano di aver esaurito il proprio compito dopo aver fatto una bella lectio divina, senza che questa prepari all’incontro con Cristo nella Liturgia e sia testimoniata da una vita di carità. Animatori che puntano decisamente sulla Liturgia, senza che questa si lasci penetrare dalla luce della Parola e trasformi la vita. Animatori che propongono unicamente campi di lavoro ed esperienze di servizio, senza preoccuparsi eccessivamente che tale servizio sia verificato dalla Parola e sostenuto dalla grazia. Certo ognuno di noi porta nell’animazione vocazionale la sua sensibilità, il suo carisma, la sua storia. Ecco perché solo la pluralità delle vocazioni e la loro ricchezza permetterà al CDV di fare una proposta tridimensionale e suscitare una risposta tridimensionale. Gli animatori vocazionali non sono maestri d’orchestra che suonano contemporaneamente spartiti differenti, ma musicisti che con strumenti differenti suonano lo stesso spartito. Al CDV spetta il compito di realizzare una pastorale vocazionale sinfonica. Quali sono queste tre dimensioni? Altezza, profondità e larghezza.
– In alto. La vita consacrata, in modo particolare la vita contemplativa, chiede che non si dimentichi di alzare lo sguardo in alto alla sorgente della vita, della fede, della vocazione, della missione… con uno sguardo colmo di stupore e gratitudine. La fedeltà vocazionale si abbevera quotidianamente al ruscello della gratitudine. Il CDV sarà, pertanto, attento non solo ad utilizzare i monasteri di clausura per la preparazione dei sussidi del “Monastero invisibile”, ma saprà opportunamente valorizzare gli stessi monasteri, come “luoghi-segno” di una vita vissuta vocazionalmente che, pur nelle fatiche dell’apostolato, non trascurerà mai di ritornare nella preghiera alla sorgente da cui tutto proviene. Come già diceva il grande Charles Péguy: “Oggi – purtroppo – si sta diffondendo una vera amnesia dell’eternità”. Inoltre, la vita consacrata non è solo “memoria” dell’origine, ma anche profezia del futuro, ricordandoci che, al di là delle differenze, comune è la vocazione alla santità, che consiste nel vivere nella perfezione della carità.
– In profondità. L’annuncio e la proposta vocazionale reclamano un accompagnamento personale che aiuti i giovani non solo a guardare in alto, ma anche a guardarsi dentro: per meglio conoscersi e perché la risposta vocazionale sia espressione del dono di tutta la vita. Il guardarsi dentro aiuta il giovane a non conservare sacche di resistenze, zone di oscurità dove il Cristo non risplende con la pienezza del suo Vangelo di salvezza. Il CDV saprà valorizzare, per questo preziosissimo aiuto di accompagnamento spirituale e psicologico personalizzato a favore dei giovani della diocesi, le tante ricchezze che oggi soprattutto si vanno diffondendo tra le consacrate e i consacrati.
– In larghezza. La proposta e l’accompagnamento vocazionale saprà trarre enormi vantaggi dalla valorizzazione dei consacrati impegnati nelle iniziative di carità e nelle diverse forme di missionarietà. Grazie alla presenza e all’aiuto di questi consacrati non solo la vita delle nostre comunità, ma anche quella dei nostri giovani sarà continuamente sollecitata ad allargare gli orizzonti della generosità e dell’annuncio del Vangelo, oltre i confini della propria casa, della propria parrocchia, della propria diocesi… oltre qualsiasi confine. Aiutateci a non rinchiuderci in orizzonti ristretti. Sollecitateci a spostare sempre più in là i paletti delle nostre tende. I consacrati dovrebbero assomigliare sempre più, per adoperare un’immagine di Eugenio Montale, “a quegli uccelli del mare che nel blu del cielo se ne vanno e più non tornano perché tutte le immagini portano scritto: più in là!”. Come fa un direttore di CDV a non valorizzare la presenza dei missionari, dei consacrati impegnati in luoghi di frontiera della sofferenza fisica e morale? Un altro grande contributo che i consacrati offrono alle nostre diocesi è dato dal loro essere degli ottimi vasi comunicanti capaci di far circolare la ricchezza delle esperienze tra le diverse diocesi e, addirittura tra le diverse nazioni. Non è questa una grande opportunità?
Come? Realizzando una pastorale vocazionale a più mani
Il CDV è chiamato a non venir meno ai suoi compiti specifici:
– Formazione. Le diverse competenze e specificità possono essere una grande opportunità nell’affrontare i diversi aspetti della pastorale vocazionale da più punti di vista. In questo senso i CDV devono qualificarsi sempre più come “laboratori vocazionali” e non semplici luoghi organizzativi. In quest’ottica le specificità si traducono in ricchezza per tutti.
– Coordinamento e animazione delle parrocchie. Realizzare una corretta ed equa distribuzione non solo delle iniziative, ma anche delle presenze nella diocesi, evitando sia la bulimia, sia l’anoressia di proposte vocazionali. Parrocchie dove vi è una saturazione di proposte e parrocchie dove si fa la fame. Questo naturalmente non può limitarsi ad una distribuzione “equa e solidale” degli animatori vocazionali, ma deve mirare anche a rispondere a particolari esigenze riscontrate in un determinato territorio. Il discernimento delle realtà della diocesi porterà anche ad un migliore e più mirato coinvolgimento dei diversi animatori vocazionali.
– Far giungere l’annuncio e la proposta vocazionale anche in luoghi diversi dalle parrocchie. La fedeltà al proprio carisma chiede ai consacrati di essere presenti in luoghi dove solitamente la pastorale ordinaria non è presente. La valorizzazione di tale presenza consentirebbe alla pastorale vocazionale di far sì che l’annuncio e la proposta vocazionale risuonino anche nelle scuole, negli ospedali, nelle esperienze di volontariato, nei luoghi della sofferenza. Oggi sono proprio questi luoghi quelli che risultano essere più recettivi vocazionalmente.
Non tenerne conto provocherebbe un grande impoverimento.
Testimoni gioiosi di speranza
Termino, così come ho iniziato, con un esplicito riferimento all’Eucaristia. Il memoriale che Gesù affida alla Chiesa è pegno della gloria futura, panis viatorum, pane dei pellegrini e nutrimento della speranza, che non delude. Per questo l’Eucaristia ci chiede di non essere dei piagnucoloni o degli incorreggibili pessimisti, ma audaci testimoni della speranza cristiana, che non delude. Nell’oscurità della notte che avvolgeva il cenacolo e che si insinuava nel cuore del traditore, il Cristo ci ha donato il sacramento dell’Amore. Ha trasformato l’oscurità del tradimento, “in qua nocte tradebatur”, nella luminosità del gesto del dono di sé per amore, “traditi semet ipsum”. Come dimostra l’offerta del pane da parte del Maestro a Giuda, boccone che seguirà Giuda anche nella notte, senza lasciarlo. L’amore non abbandona, insomma, l’amato infedele; il fuggitivo dall’amore porta con sé il pegno dell’amore, evidenziando così il paradosso dell’amore più forte del tradimento e della morte.
L’Eucaristia che celebriamo non chiede anche a noi di trasformare le nostre oscurità in luoghi in cui possa brillare la luce di una vita spesa per amore? L’Eucaristia, mistero di Luce, ci apre alla speranza, nella convinzione, come a volte cantiamo, che “questa notte non è più notte davanti a te; il buio come luce risplende”. Vorrei augurare a me e a voi quanto auspicava Paolo VI, nel concludere l’Evangelii nuntiandi: “Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo” (n. 80). Sì, come recita un proverbio orientale, “l’occhio vede soltanto la sabbia, ma il cuore illuminato scorge la fine del deserto e la terra fertile”. E questo per noi credenti non è un sogno, ma un certezza, perché, come afferma Clemente alessandrino, “una luce è brillata nel nostro cielo, più pura della luce del sole e più dolce della vita di quaggiù e saprà far penetrare nella nostra notte un raggio di questa luce”.