N.02
Marzo/Aprile 2005

Aiutare a scoprire il volto di Cristo mediante la luce dello Spirito

 

Liturgia della parola

1 Gv 2,29-3,6; Gv 1,29-34

 

Non lo conoscevo – ha detto Giovanni il Battista – ma sono venuto perché egli fosse fatto conoscere. Conoscere Gesù, riconoscere Gesù è la svolta fondamentale di ogni itinerario personale, di ogni itinerario vocazionale. Prima ancora che la conoscenza di noi stessi, è importante riconoscere il Signore, riconoscere in Gesù il Signore.

Il segno attraverso il quale il Battista identifica Gesù è la discesa dello Spirito: Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. La discesa dello Spirito è ciò che unisce i primordi della missione di Gesù, il suo apparire sulla scena pubblica della Palestina, indicato dal Battista, all’atto che stiamo compiendo questa sera, all’azione eucaristica che ha al suo centro l’invocazione della discesa dello Spirito sul pane e sul vino perché diventino il corpo e il sangue del Signore.

Il Signore apparirà anche qui in mezzo a noi, per chiedere il riconoscimento della nostra fede in quel pane e in quel vino, appunto riconosciuti come presenza della sua carne e del suo sangue, di lui vivo: il Signore in mezzo a noi.

Riconoscere, dunque, il Signore: questo ci è chiesto. Riconoscerlo come presente in forza del segno dello Spirito, attraverso l’Eucaristia. Non si tratta però soltanto di celebrare l’azione liturgica dell’Eucaristia come riconoscimento del Signore, ma di viverla. Se la vita del cristiano deve essere una vita eucaristica – come è stato detto spesso – lo deve essere anche in rapporto a questa azione dello Spirito. Così come l’azione dello Spirito nella celebrazione eucaristica fa sì che il pane e il vino diventino la presenza viva di Cristo in mezzo a noi, così la vita del cristiano deve essere un fare continuamente una epiclesi, una invocazione della discesa dello Spirito sul mondo. Una vita eucaristica è una vita che invoca la presenza dello Spirito sul mondo, così che anche il mondo riveli il volto di Cristo che è inscritto in esso.

Se l’umanità è fatta a immagine e somiglianza di Dio, noi sappiamo che l’immagine e la somiglianza di Dio acquistano la loro pienezza – come ci dice san Paolo – nel Figlio stesso di Dio: è lui la perfetta e sorgiva immagine e somiglianza del Padre.

Cosicché i tratti di Dio che vivono in ogni uomo non sono altro che i tratti di Cristo, e l’azione che noi dobbiamo compiere è, attraverso l’invocazione dello Spirito, dar rilievo, far manifestare i tratti di Cristo che sono inscritti nella vita di ogni uomo e nella vita dell’intera umanità.

Ritengo che un’azione vocazionale consista, fondamentalmente, in questo: far emergere il volto di Cristo che è inscritto in ogni persona, nel progetto della sua vita; aiutare a scoprire il volto di Cristo mediante la luce dello Spirito. La preghiera fondamentale che coloro che servono la vocazione delle persone possono fare è l’invocazione allo Spirito, perché egli li riempia di sé, perché poi possano donarlo come luce ai fratelli.

Questo è ciò che permette di distinguere l’azione di chi si dedica al servizio delle vocazioni, dall’azione che può fare un qualsiasi psicologo, un qualsiasi responsabile del personale in un’azienda.

Non è il “che cosa” faceva Gesù che lo distingueva molto dai suoi contemporanei. Molti taumaturghi esistevano al suo tempo; ancor più numerosi erano i predicatori, e non mancavano i trascinatori di folle. Gamaliele, negli Atti degli Apostoli, porterà due esempi di trascinatori di folle, la cui azione all’esterno poteva apparire simile a quella di Gesù. Ciò che distingue Gesù da tutti costoro è la presenza dello Spirito. Per questo Giovanni Battista riesce ad individuarlo.

Oggi non basta individuare in una persona una sete di spiritualità: è una caratteristica che interesserebbe anche chi seleziona personale per un’azienda. Una buona azienda sa che un uomo con forti motivazioni, con prospettive alte, carico di spiritualità rende di più. Non basta neanche una spinta alla solidarietà, una capacità di lavorare insieme, una capacità di animare gli altri. Non è questo che dobbiamo cercare in una vocazione per il Vangelo e per la Chiesa. Ciò che qualifica la vocazione cristiana è il rapporto che una persona ha con il Signore, con il suo Spirito.

Il Vangelo di oggi ci invita anzitutto a fare questa purificazione delle intenzioni e delle modalità con cui ci accostiamo agli altri, non ricercando né capacità, né cose da fare, ma ricercando il volto di Cristo, il loro rapporto con il Cristo. Quando si riconosce il Cristo, allora, si può dire anche, come fa Giovanni: Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo. Perché non è detto che col dire: è il Cristo, subito siamo già messi al sicuro da ogni possibile devianza. Ci sono troppe controfigure del volto di Cristo che stanno in circolazione tra di noi…

Qual è la vera figura di Cristo, quella che devo aiutare a riconoscere nella vita di ogni persona a cui mi accosto? Il Vangelo di Giovanni lo designa con questo nome: l’agnello. Il rimando è all’agnello che veniva immolato quotidianamente nel tempio per la remissione dei peccati del popolo. È però anche evidente il riferimento all’agnello della pasqua, lo strumento e il segno della liberazione. Ancor più, occorre rammentare l’agnello che è presentato come figura del servo del Signore, che come agnello viene condotto al macello portando su di sé il peccato degli uomini. Tutte queste figure stanno dietro all’immagine dell’agnello di Dio con cui viene identificato Gesù. Ciò che identifica, ciò che caratterizza quest’agnello – nella globalità di queste raffigurazioni – è da una parte la sua innocenza rispetto ad ogni peccato e dall’altra la sua solidarietà con ogni peccatore. Riconoscere il Gesù agnello significa rispondere alla chiamata di Dio, aiutare a rispondere alla chiamata di Dio condividendo questa sua missione di innocenza e di solidarietà.

Ne consegue per noi l’indicazione di identificare gli itinerari vocazionali che proponiamo anzitutto come cammini di innocenza, di santità, di appartenenza totale, assoluta a Dio. E, al tempo stesso, come cammini di compromissione, di donazione, di una donazione totale ai fratelli, capaci di raggiungere i fratelli più lontani, le pecore perdute.

L’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo, è colui che battezza con lo Spirito. Non è soltanto colui sul quale discende lo Spirito, ma colui che battezza in Spirito Santo, e per questo egli si mostra come il Figlio di Dio: L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo. È il figlio di Dio. Questo Figlio di Dio condivide con noi questo nome, perché anche noi – ci ha detto la prima lettura – siamo figli di Dio: Noi sappiamo… noi siamo fin d’ora figli di Dio.

L’orizzonte in cui si pone la prima lettura è quello della giustizia, Dio è giusto, sappiate anche che chiunque opera la giustizia è nato in lui: la giustizia è la conformità all’essere e all’agire di Dio, un progetto di vita che è conforme all’essere e all’agire di Dio. In questo orizzonte, può agire con giustizia, cioè conformemente all’essere e all’agire di Dio, solo chi è figlio di Dio, solo chi è generato da Dio.

Essere figli è un dono, ma essere figli è anche un progetto. Proprio tra il dono e il progetto si colloca il compito dell’aiuto vocazionale. Da una parte il riconoscimento del dono: Noi siamo fin d’ora figli di Dio; dall’altra però anche il progetto, perché dice Giovanni nella prima lettera: Noi non sappiamo ancora ciò che saremo… non siamo ancora ciò che saremo un giorno quando saremo simili a lui.

L’essere figli è già qualcosa della nostra vita, è il dono che abbiamo ricevuto, ma non siamo ancora figli: lo saremo totalmente e pienamente un giorno; esserlo è quindi un progetto che è di fronte a noi.

Perché il dono possa trasformarsi in un progetto attuato, perché il “siamo” diventi anche un “saremo”, c’è bisogno di un atteggiamento che l’autore della Lettera riassume in un verbo, che è il verbo “rimanere” o “dimorare”: Chiunque rimane in lui non pecca, e chi non pecca è appunto colui che traduce il dono dell’essere figlio in un progetto. Dimorare in Dio, cioè esistere in Dio, partecipare alla sua luce, alla sua vita, al suo amore.

Ed ecco, allora, la terza indicazione che prendo da queste letture per la nostra riflessione: l’itinerario vocazionale è una verifica, è un progresso nel dimorare in Dio. Verificare, cioè dare la percezione alle persone che si è, si esiste veramente solo in quanto si è in Dio, si esiste in Dio, è un progresso continuo in questa dimora, una vita collocata dalla parte di Dio che diventa anche un guardare con gli occhi di Dio a tutta l ’umanità, così che la vocazione quanto più intimamente unisce a Dio, tanto più ci rende aperti con il cuore di Dio verso i bisogni di tutti gli uomini.