Tra «fuga mundi» e «pro mundi vita»: il mondo nella direzione spirituale
Vorrei iniziare citando un’espressione di Paolo VI: «Siete nel mondo e non del mondo, ma per il mondo»[1].
È il dato di fatto da cui partiamo: noi siamo nel mondo, non possiamo prescindere da questa circostanza. Noi abbiamo coscienza di non essere del mondo: la fede ci ha aperto all’orizzonte ultimo delle origini e del fine della vita e della storia del mondo, che è in Dio ed è il fondamento della nostra speranza; infine, è ancora la fede che si determina come vocazione a farci vivere l’atteggiamento verso il mondo che è proprio di Dio stesso: essere per il mondo.
In Cristo, con Dio, solidali con il mondo
Il fondamento di tutto questo sta in Dio stesso, che ci si è rivelato per mezzo del Figlio. È in Gesù Cristo infatti che noi troviamo la sintesi e la via della nostra vocazione, poiché, come scrisse il teologo Dietrich Bonhoeffer, «In Cristo ci è offerta la possibilità di partecipare al tempo stesso alla realtà di Dio e a quella del mondo: non all’una senza l’altra»[2]. Dalla vocazione cristiana deriva un’appartenenza al mondo paradossalmente ancora più forte: chi non conoscesse il Dio di Gesù Cristo potrebbe forse anche legittimamente disinteressarsi degli altri, del mondo e del suo destino. Chi conosce Dio non può che partecipare al desiderio più profondo del suo cuore: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). «Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio nel mondo perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).
Dal mondo ai “mondi”
Ci chiediamo però cosa s’intende per “mondo” e vediamo subito che è una realtà diversificata: è mondo tutto ciò che è realtà umana, a partire dalla nostra persona (la corporeità, la sessualità, le relazioni, le risorse personali), per passare alla dimensione del vivere sociale (beni economici, culturali, scientifici, intellettuali e artistici), fino alla dimensione cosmica (l’ambiente, le risorse del territorio, ecc… e dell’uso che se ne fa per il bene comune).
Dalle scienze umane, e dalla psicologia in particolare, ci viene poi un’ulteriore sottolineatura che mi sembra utile da proporre a chi si occupa della formazione delle coscienze: quella tra “mondo esterno” e “mondo interno”. Anche popolarmente noi diciamo che “ognuno ha il suo mondo” e se ne vedono effetti nella diversa risonanza che lo stesso evento ha sulle persone. Il principio è semplice: ciascuno di noi, con l’esperienza, si costruisce una rappresentazione interna del mondo. Una rappresentazione che funziona poi, nelle successive relazioni con il mondo, come un modello interpretativo già pronto per l’uso.
Conoscere questa rappresentazione interna è importantissimo per comprendere come la persona si rapporta al mondo; come questa “rappresentazione interna del mondo” gli permetta di essere toccata o no dal messaggio evangelico della carità; come aiutarla a correggere eventualmente, attraverso nuove esperienze, una rappresentazione interna del mondo che sia frustrante, negativa, inibente. Infine, in un’ottica di fede, parliamo di mondo anche come tutto ciò che è creato, e dunque tutto ciò che non è Dio. Di questo “creato” l’uomo è il vertice ed è stato dotato di una libertà creaturale, ma effettiva: la libertà di poter scegliere il male ed il bene. Tra queste libertà create la Tradizione ci insegna a considerare seriamente che vi è una libertà creata che si è ribellata a Dio e che lo rifiuta: è il principio del male, che nel Vangelo di Giovanni viene giudicato da Gesù come “il principe di questo mondo” (Gv 16, 11). Vi è dunque la possibilità che ogni uomo, nella sua libertà di creatura, possa rifiutare Dio e l’offerta del suo amore, per credere al principe delle tenebre, satana, contrapponendo così la logica del mondo alla logica di Dio. Tuttavia, la libertà che Dio ci ha donato è davvero in grado di accogliere l’amore di Dio e di corrispondervi, imparando ad amare come lui ci ha amato. È così che possiamo intendere come mondo anche tutti quei valori autenticamente spirituali, morali, che aprono l’uomo – in modo consapevole o meno – al progetto del Dio creatore.
Il tema nel contesto attuale
Non posso qui affrontare le origini storiche e spirituali dei concetti di “fuga mundi” e di “pro mundi vita”. Mi limito a fare due sottolineature che mi sembrano rilevanti per aiutarci a ripensarli nel contesto attuale. La prima sottolineatura è sul versante del mondo. Viviamo in un contesto secolarizzato in cui l’aria che respiriamo è quella di un mondo auto-centrato, ripiegato su di sé, egocentrico, individualista, che ha perso l’orizzonte ultimo di Dio[3]. C’è un bisogno di spiritualità che emerge sotto varie forme , ma spesso si presenta come un bisogno autocentrato: l’idea che ci sia una verità assoluta, che ci sia qualcuno che abbia la pretesa di essere normativo per la nostra vita, di un Dio – appunto – reale, oggettivo, personale, è un’idea che dà fastidio oggi, per cui facilmente la si esclude. Vediamo i segni di questo fenomeno anche in un orizzonte di proposta vocazionale: manca spesso la prospettiva e la capacità di progettare il proprio futuro, di costruire una storia d’amore corrispondendo a un invito di qualcun altro (o Altro), aprendosi alla trascendenza, a un oltre. È difficile prendere impegni a lungo termine, o per sempre. Penso che questi aspetti siano causa di sofferenza per i giovani d’oggi, che sono spinti dal contesto a vivere, tutto sommato, una vita triste, senza prospettiva, apparentemente appagante e felice, ma che nasconde dietro l’angolo depressione e non senso. In un tale contesto cosa può dirci oggi l’atteggiamento di “fuga mundi”? C’è la necessità di rifiutare un mondo così, di differenziarsi, di avere il coraggio di fare scelte forti che vadano controcorrente, ma anche rimanendo “dentro” e sopportando la fatica di dare una testimonianza diversa. Ci è chiesta quella “capacità di resistenza” di cui ci parlava don Romano Martinelli. Ci potrebbe anche essere la tentazione di vivere una “fuga mundi” dispregiativa, fatta con orgoglio, che rinuncia al dialogo e perde la sensibilità necessaria per capire e continuare a stare in questo mondo. Mi sembra però necessario imparare a “rimanere” nel mondo di oggi (l’unico con cui siamo chiamati a rapportarci), per chiedersi con frutto cosa significhi vivere per la vita del mondo.
La seconda sottolineatura è sul versante della Chiesa, dell’esperienza cristiana: occorre recuperare quella nuova consapevolezza del rapporto Chiesa-mondo che ci è venuta dal Concilio Vaticano II. Forse è scontato, ma è importante ricordarcelo. Leggo ancora un brano di Paolo VI:
«La Chiesa ha coscienza del fatto che essa esiste nel mondo, e che “cammina insieme con tutta l’umanità, e sperimenta insieme col mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana” (GS 40); essa perciò ha un’autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione, la cui radice affonda nel mistero del Verbo Incarnato, e che si è realizzata in forme diverse per i suoi membri – sacerdoti e laici – secondo il proprio carisma»[4] . Ho scelto questa frase per dire che tutti noi, in qualunque vocazione siamo, non solo i laici e non solo i laici consacrati, partecipiamo di questa dimensione secolare della Chiesa: l’essere nel mondo è di tutti i cristiani[5]. La Chiesa è quella parte di mondo che ha accolto l’annuncio del Vangelo, ma rimane parte di questo mondo, amato da Dio. Come cristiani, siamo chiamati a dare speranza a tutto il mondo dal di dentro, nella condivisione e nella solidarietà con il genere umano. Da qui deriva quella vocazione ad essere sacramento universale di salvezza, perché, rimanendo partecipe della vita del mondo, la Chiesa sa che ciò che porta a compimento la storia, come storia di salvezza, è la grazia di Dio. Di questa verità la Chiesa si fa testimone e perciò promuove ogni attività che favorisca le condizioni per cui l’umanità possa aprirsi a tale grazia. Ciò che è autenticamente umano è anche autenticamente cristiano e lo possiamo condividere con altri. Allora, senza rinunciare ad essere profeticamente segno di salvezza, dito puntato verso il “totalmente Altro” che è Dio, che si è fatto presente tra noi per mezzo di Gesù Cristo, la Chiesa rimane solidale con il genere umano, si sente parte del genere umano. Si è superata una logica di contrapposizione e di rivalità, per vivere una logica di testimonianza e profezia dal di dentro del mondo.
Cittadini del cielo e cittadini del mondo: una tensione insopprimibile
Abbiamo già detto che ogni uomo è chiamato a vivere in un certo senso la “fuga dal mondo” e ogni vocazione è chiamata a vivere “per la vita del mondo”. È necessario però precisare: per dire in modo comprensibile oggi cosa sia “fuga dal mondo” mi sembra utile attingere alla sapienza biblica, nella quale ritroviamo la condanna dell’idolatria. Vivere anche oggi la “buona” fuga dal mondo significa rinunciare all’idolatria. Noi non rinunciamo a partecipare alla vita del mondo, ma ad un modo idolatrico di appartenere e di rapportarci alla realtà: né le cose, né le relazioni, né la mia libertà possono sostituirsi a Dio. Quand’anche questo avvenisse, allora dovrei avere il coraggio di rinunciare a quest’ambiguità, per vivere nella verità: questa è la fuga dal mondo che ci chiede la fede, che ci chiede la conversione. Essere “per la vita del mondo” allora, in una prospettiva vocazionale, è vivere la vita come dono, rinunciando a fare di se stessi il centro della propria esistenza.
Il contrasto tra la logica idolatrica e l’appello a farsi dono, provoca una tensione tra la realtà che viviamo e ciò verso cui tendiamo, che diventa guida per la nostra vita (i valori della vita cristiana, la relazione con Cristo, che diventa normativa per la mia vita). La realtà è sempre qualcosa in divenire rispetto all’ideale di apertura e di donazione che ci viene proposto dalla fede. Siamo in cammino verso gli altri/verso l’Altro, sentiamo il desiderio di uscire da noi per trascenderci verso qualcuno che dia senso alla nostra vita, eppure sentiamo sempre la spinta a conservarci per noi stessi, siamo sempre anche sotto l’influsso di una forza centripeta che ci suggerisce di essere egocentrici. Per esempio: come penso al futuro? Sono preoccupato di soddisfare i bisogni di oggi, o sono capace di pensare ad un oltre? Riesco a posticipare una gratificazione, per esempio rinunciando a qualcosa, in nome di un valore che mi trasforma e costruisce in me una realtà nuova? La tensione che viene a crearsi verso l’assunzione di un valore che sento vero per me, ma che mi sprona a superarmi, è spesso evitata, perché crea ansia e preoccupazione. Ecco perché sentiamo la fatica di vivere da cristiani la relazione con il mondo: si tratta infatti di rimanere nel mondo senza eludere questa tensione, ma imparando a gestirla come via di maturità umana e cristiana. La tentazione è sempre quella di rinunciare ad uno dei due poli che crea tensione (il mondo o i valori della fede in Dio) e ciò può avvenire quando la tensione è troppa o è fastidiosa. Se si rinuncia al polo dei valori, ci ripieghiamo sui nostri bisogni egoistici; se si rinuncia al polo dei bisogni umani, ci si illude di camminare più speditamente verso una santità che rischia però di rivelarsi in seguito disincarnata.
Possiamo riconoscere questa tensione come una realtà intrapsichica buona, una dialettica interiore, presente in ogni uomo : essa crea un’inquietudine sana che permette di camminare nella vita con realismo ed assumere nella verità i valori della vita cristiana. Rinunciare a confrontarsi apertamente con questa tensione di fondo vorrebbe dire rinunciare a crescere nella vita cristiana, non solo verso Dio, ma anche verso il mondo; vorrebbe dire appiattirsi in una logica egocentrica[6].
Si intuisce allora come e perché sia importante “monitorare” questa dialettica anche nella direzione spirituale. Vuol dire chiedersi come è la tensione che la persona vive nella realtà della sua vita? Come la sua vita interroga il valore e viceversa?
Per dire quanto questa tensione, inquietudine o dialettica sia sana, vi offro un altro brano tratto dai discorsi di Paolo VI, che utilizza un’immagine a mio parere illuminante: «E avrete così un campo vostro ed immenso, nel quale svolgere la duplice opera vostra: la vostra santificazione personale, la vostra anima, e quella “consecratio mundi”, di cui conoscete il delicato ed attraente impegno, e cioè il campo del mondo; del mondo umano, qual è, nella sua inquieta e abbagliante attualità, nelle sue virtù e nelle sue passioni, nelle sue possibilità di bene e nella sua gravitazione verso il male, nelle sue magnifiche realizzazioni moderne e nelle sue segrete deficienze e immancabili sofferenze: il mondo. Voi camminate sul fianco d’un piano inclinato, che tenta il passo alla facilità della discesa e che lo stimola alla fatica dell’ascesa. È un camminare difficile, da alpinisti dello spirito»[7]. Questa tensione, questa inquietudine tra ciò che io sono e ciò verso cui cammino, mi tiene in vita e mi fa camminare verso una vita sempre più unificata dal valore della fede. Tale inquietudine è resa bene dall’immagine della scalata: c’è una forza di gravità che ti tira indietro, ma c’è anche il desiderio di arrivare in cima che ti spinge avanti e ti fa rimanere in cammino. La fatica dell’ascesa è tenere insieme le due cose: essere nel mondo, essere cittadino del mondo ed essere cittadino del cielo, e così vivere nella propria carne quella consecratio mundi che è santificazione di quella parte di mondo che siamo noi stessi, con tutte le relazioni in cui siamo inseriti, docili all’opera dello Spirito Santo che agisce in noi.
Alcuni criteri per vivere in modo «sano» e «santo» la tensione
Nello svilupparsi di questa “dialettica di base” si sviluppa allo stesso tempo un buon rapporto con il mondo e con Dio. È vivere la santità, a cui tutti i cristiani sono chiamati e che si potrebbe anche definire come “il modo giusto, secondo Dio, di essere in relazione con se stessi, con le cose, con gli altri e con Dio”. Perciò vorrei dare qui alcuni criteri per individuare, nella direzione spirituale, come questa tensione è vissuta. Se essa è ottimale favorisce e al tempo stesso esprime il cammino di santità della persona.
– Saper gustare la bellezza delle cose del mondo
Occorre bandire il disprezzo come atteggiamento che indica un’immaturità, un’incapacità a gustare la bontà della creazione in senso biblico, come atto d’amore di Dio per l’uomo. Questa persona che ho qui davanti, che professa di voler abbandonare il mondo per abbracciare la vita monastica, che esperienza ha del mondo? La prospettiva di farsi una famiglia, di avere dei figli, un marito… forse disprezza l’esperienza che ha avuto? Oppure l’apprezza, ma alla luce di Dio, decide liberamente di rinunciarvi? Il disprezzo non è mai un grande criterio per rinunciare.
– Sentire come benefica questa tensione e imparare a starci
Quando valuto cosa sta vivendo la persona, riesco a dire con che cosa entrano in dialettica i valori che sta assumendo per la sua vita vocazionale? Come la persona riesce a tenere insieme, a fare sintesi dei valori e dei bisogni della sua esistenza? Questa tensione è vissuta in modo benefico, cioè mentre dà ansia è in grado di tenere in cammino la persona ad un passo sostenibile? Oppure è quasi inesistente questa tensione? Anche in questo caso il direttore spirituale dovrà rendersene conto e intervenire: o la persona è carente sul versante dei valori cristiani e vocazionali, o è inconsapevole di alcuni aspetti della sua umanità che non fa entrare in gioco nella dinamica del discernimento vocazionale.
– Passare da una logica egocentrica ad una logica della trascendenza, attraverso la condivisione
Questa tensione mi fa uscire da me stesso, provocato dal fatto che mi misuro con un altro da me (che sono magari gli altri, la comunità, ma che è anche l’Altro che è Dio), passando attraverso la condivisione (il farmi carico degli altri). In questo c’è una logica di progressivo allargamento del mio orizzonte: imparare a condividere con chi mi è accanto, a ricevere e a dare, apre progressivamente alla scoperta dell’Altro che è Dio. Del resto, poi, Dio stesso ci rimanda ai fratelli, in una logica di donazione e di condivisione che verifica anche la donazione a Dio. Come ritrovo nella direzione spirituale questa dinamica di apertura all’altro/Altro da me?
– Nella direzione spirituale è importante considerare la dimensione diacronica
Consideriamo qui come progressivamente la persona passi dall’apprezza-mento dei beni terreni (cose, relazioni, affetti, successi) – che istruiscono sul senso buono della vita – ad una gratitudine verso la fonte della vita stessa che è Dio[8], aprendo così la strada all’orizzonte vocazionale. C’è uno sviluppo nel tempo di questa capacità ed apertura. E tuttavia è infine alla luce del Dio scoperto, amato, e scelto come riferimento ultimo della vita che si possono apprezzare di nuovo e di più i beni terreni, e si può anche rinunciarvi nella logica del dono di sé. A che punto del cammino si trova la persona che sto aiutando nella direzione spirituale? In che cosa è carente? Come aiutarla? Per fare ciò è necessario curare la formazione su due versanti che non sono mai da dare per scontati e che anche la direzione spirituale deve prendere in considerazione come orizzonte in cui muoversi. Innanzitutto incrementare il polo che attrae. Fare in modo di coltivare una relazione con Dio, in un modo il più possibile coerente con la Rivelazione, senza predicare un Dio deforme. Siamo così sicuri che le persone che abbiamo di fronte, quando parlano di Dio, parlano del Dio di Gesù Cristo? Che conoscono davvero il volto dell’amore, della misericordia? O magari, quando stanno rifiutando o faticando ad aprirsi a un Dio così hanno in mente un Dio che ha un volto un po’ diverso? Credo che nella direzione spirituale vada fatta questa verifica; la persona va aiutata ad incontrare il vero volto di Dio rivelato in Gesù Cristo. Quale Dio incontra questa persona? Come ne fa esperienza? Attraverso quali mediazioni? E soprattutto: cosa dice del mondo il Dio che questa persona ha in mente? Cosa dice della sua umanità? Se una persona ha in mente un Dio vendicatore e invidioso dell’uomo probabilmente svilupperà un vissuto vocazionale segnato da questa negatività. Io credo che questo avvenga anche nella nostra Chiesa, nella confusione che c’è in giro, nelle persone che si riavvicinano dopo anni di lontananza. Credo che il momento della direzione spirituale abbia il dovere di verificare in tal senso l’esperienza spirituale della persona e di purificarla, perché appaia il vero volto di Gesù Cristo. Il secondo versante è quello dell’esperienza che la persona ha di questo mondo. Lo psicologo lo fa dal suo punto di vista, ma il padre spirituale lo deve fare considerando le domande di prima: che esperienza ha questa persona del mondo? Quali possibili ferite le ha procurato? Per mondo intendo l’ambiente, un ambiente umano, il contesto sociale in cui ha vissuto: è un ambiente che l’ha privata delle cure e delle attenzioni necessarie, oppure è un ambiente ricco e stimolante? E che cosa le dice questo mondo di Dio? Anche questo è importante.
Preoccuparsi del cammino formativo e degli aspetti della crescita umana della persona che ho di fronte è imparare a leggere i segni di Dio nella sua storia. Lo sviluppo della capacità di amare, di donare la propria vita, di aprirsi all’amore di Dio, passa nelle pieghe complesse dell’esistenza. Occorre assumerle, conoscerle ed individuarle: per esempio l’esperienza della mancanza, della sofferenza, dei conflitti vissuti, delle fatiche, è da integrare in un cammino di crescita spirituale.
Un criterio mi sembra importante ricordare: tutto ciò che non si prende in considerazione o ciò di cui non si riesce a ricostruire un senso, alla luce dell’in-contro con il Signore, rischia di rimanere pericolosamente fuori dal percorso vocazionale e rimane una mina vagante per la stabilità della persona. Se qualche affetto, magari doloroso o faticoso da portare, rimane fuori, prima o poi viene a galla, perché la vita prova con altre sollecitazioni, col logorio del tempo. Allora penso che il padre spirituale dovrebbe facilitare questa presa di coscienza per capire come Dio ha attraversato queste ferite, sofferenze e fatiche. Credo che dargli un senso alla luce del Signore aiuti a costruire una vocazione più solida.
Se un certo modello di direzione spirituale punta molto sul primo aspetto formativo, alla luce di quanto detto è importante che si occupi anche dell’altro, guardando alla storia della persona, al senso che passa attraverso la storia di quella persona.
Quali forme dell’atteggiamento verso il mondo?
La fuga dal mondo potrebbe essere vista oggi come una ricerca di “scorciatoie” per evitare la tensione necessaria al cammino di crescita cristiano; come un modo per sfuggire alla realtà umana in cui siamo chiamati a vivere la vocazione alla santità e quindi per eliminare o attenuare la tensione che si determina nell’assunzione responsabile di tale realtà.
Proporrò allora tre esempi di “vie per evitare la tensione”: in un cammino di direzione spirituale sono atteggiamenti che possiamo ritrovare sia nel diretto che nel direttore e sui quali occorre vigilare. Poi mi soffermerò a descrivere quali tappe mi sembrano invece necessarie perché maturi un sano atteggiamento verso il mondo, che può anche sfociare in una specifica vocazione laicale, e darò alcuni consigli su come verificare tali tappe nel cammino di direzione spirituale.
Atteggiamenti per evitare la tensione:
– «Va dove ti porta il cuore…»: la beatitudine degli ingenui
Questo atteggiamento è presente nelle persone che in fondo negano che ci sia qualche frizione tra la proposta cristiana della vita e l’assunzione dei valori umani, quasi le due cose coincidessero in modo naturale e scontato. È la via che privilegia l’obiettivo dell’autorealizzazione, come via per trovare il senso della vita e la felicità che ne consegue. È la via in cui il direttore spirituale accondiscende spesso o quasi sempre alle valutazioni, ai desideri e alle aspettative della persona che dirige, evitando di suscitare le domande fondamentali che lo inquieterebbero. In sintesi è una via che tende a non affrontare la necessaria apertura al Dio trascendente, che rischia di essere vissuto al servizio del proprio mondo autoreferenziale. La visione di Dio come colui che mi dona la vita, ed è felice della mia felicità, che mi vuole realizzato, ecc. non viene integrata con la visione esigente di un Dio che chiama all’amore e al dono di sé. La persona in questo caso potrebbe vivere anche la direzione spirituale come una compagnia che conferma i suoi bisogni, e non come un incontro umano che la apre, però, ad un’esperienza di Dio normativa per la sua vita. Una direzione spirituale ridotta a questo modo accondiscendente di accompagnare la persona, in fondo, la priverebbe di quei criteri necessari per discernere come vivere da cristiano, nella logica del dono, la propria presenza nel mondo, l’assunzione di responsabilità, il senso del lavoro, dell’amore, del servizio.
Altro discorso sarebbe affermare la necessità di una gradualità nell’incarnare i valori morali che discendono dai valori religiosi. Da una profonda esperienza di Dio a poco a poco la vita si trasforma assumendo nuovi stili di relazionarsi agli altri e al mondo. In quest’apertura della coscienza al Dio vivente c’è una logica di gradualità che mantiene in un cammino di conversione. È una logica che non esclude mai né la verità oggettiva della chiamata di Dio, che splende in tutta la sua forza, e di cui Egli stesso è garante, né la realtà spesso fragile e povera della persona che si mette in cammino e dà ascolto al Dio che chiama. In questo dialogo schietto e sincero tra Dio che chiama e la persona che risponde nella sua povertà, l’amore di Dio si manifesta come misericordia. Il direttore spirituale è chiamato ad essere mediatore di tale amore misericordioso, diventando così esempio di integrazione tra i valori della fede e la vita vissuta.
– «Il fine giustifica i mezzi!»: la furbizia degli intelligenti
Questa massima di vita mi sembra si possa ritrovare in diverse situazioni, dove soprattutto chi ha grandi ideali può sentirsi autorizzato, in nome di quelli, a sorvolare sul modo con cui in concreto si cerca di perseguirli. Il cristiano che vive nel mondo ha, in nome della fede che lo guida, dei criteri di giudizio sulla realtà che possono davvero aiutarlo a comprendere cosa è bene e cosa è male (pensiamo a tutta la dottrina sociale della Chiesa). Tuttavia c’è sempre dietro la porta la tentazione di imporre tali valutazioni agli altri in modo dogmatico e intransigente, irrispettoso delle coscienze o addirittura ottenendo “sconti” per se stessi, o utilizzando “vie privilegiate” in nome del fine da raggiungere. Nella sua versione “da crociata”, in ambito sociale si potrebbe pensare per esempio ad un modo di imporre i valori che non passi dalla via lunga e stretta del dialogo, della fatica di ascoltarsi e di conoscersi, della mediazione come arte nell’agone politico. Pensiamo all’enfasi con cui si parla di “moderazione” come di un valore, ma che – nel contesto politico attuale – non sembra avere nulla a che fare con la capacità di mediazione e di dialogo suggerita dal Vangelo: chiarezza dei valori, coerenza di vita, capacità di perseguire il bene comune mettendo in gioco se stessi e rischiando di perdere qualcosa delle proprie sicurezze o ricchezze, ecc. mi sembrano tutti aspetti che si ritrovano troppo poco nell’attuale panorama politico. L’arte di passare dall’imposizione dei valori alla loro testimonianza sofferta e tenace non può essere perseguita da chi imbocca la scorciatoia del “fine che giustifica i mezzi”. In questo caso, tenendo separata l’alta idealità, ci si consente delle scorciatoie sociali che eliminano anche in questo caso la sana tensione del cristiano, chiamato a cercare la via per l’incarnazione possibile – qui ed ora – del valore eterno.
Il compito di ordinare le cose del mondo alla luce del progetto di Dio, rimane la via maestra per incarnare i valori della fede. Altrimenti possono verificarsi dei “corti circuiti” tra i valori affermati e le modalità di comportamento: si crede di scegliere un grande ideale, ma intanto si rimane attaccati a dei beni transitori, parziali, egocentrici, arrivando anche a manipolare il valore religioso per scopi di affermazione personale.
Qualche esempio può chiarire meglio:
– Non pago le tasse (può mancare la coscienza della responsabilità civile, del bene comune, della dignità delle istituzioni democratiche) perché poi con i soldi risparmiati faccio volontariato (e ciò vale per singoli e istituzioni), dove l’ambiente è amichevole, informale, mi rassicura, non mi espone, in fondo mi lascia libero di fare quello che voglio: mi costruisco la mia “chiesupola” ad immagine e somiglianza dei miei bisogni e delle mie sicurezze, non affronto la domanda che un impegno stabile e duraturo mi porrebbe, posso sempre tirarmi indietro.
– Non importa se non rispetto tutte le leggi della trasparenza e della democrazia, se questo mi mette in posizione di potere: da bravo cristiano saprò poi gestirlo per sistemare le cose e servire le persone. Anche in questo caso, mi pare che si ottengano dei risultati che sono incoerenti e non tengono la prova dello svelamento delle intenzioni: gli altri si scandalizzano. Esempi di questo genere si possono trovare in relazione ad incarichi amministrativi, sociali o politici, dove l’etichetta “cristiana” è usata con molta faciloneria, ma anche nelle relazioni personali. Privilegi legati all’abito religioso per esempio: se da una parte è cosa buona accettare il dono che può essere fatto ai cristiani in quanto discepoli del Signore, dall’altra parte occorre sempre vigilare per non approfittare del ruolo socio-religioso che si riveste, per ottenere facilitazioni nelle cose che riguardano il mondo. L’unico privilegio che dovremmo desiderare è quello di essere trattati come i più poveri del paese.
Vorrei aggiungere un altro esempio sul versante delle relazioni e in particolare della gestione dell’affettività e della sessualità. Chi ha incarichi con i giovani e fa direzione spirituale (giovane prete o religioso) può talvolta essere portato dal contesto attuale a mostrarsi disinvolto nelle relazioni affettive: mostrare affetto con abbracci o baci, magari in una relazione di accompagnamento, con l’obiettivo di facilitare la relazione; oppure a raccontare in modo disinvolto delle proprie esperienze passate in campo affettivo. Possono essere segni di un’insufficiente integrazione del valore umano della sessualità con l’orizzonte dei valori vocazionali. È possibile che la guida spirituale non abbia ancora percorso il cammino di riconciliazione tra la propria umanità e i valori vocazionali, che per esempio non sia consapevole del senso profondo della rinuncia e che esorcizzi così la sofferenza ad essa collegata, in modo paradossale e maldestro. Tale mancata integrazione potrebbe in effetti ricadere sulle persone che sono in formazione, sui giovani: che coinvolgimento sperimentano? …con quali conseguenze? È proprio questa la via per mostrare quella padronanza di chi abita la buona terra della propria umanità, aprendola alla luce della Grazia? E se questo comportamento rivelasse invece una paura nell’affrontare apertamente per sé e per gli altri il senso ed il valore dell’abitare un corpo fatto di carne, con il quale si entra in relazione con gli altri, per vivere secondo la logica del dono o della autorealizzazione? Anche in questo caso, il buon fine dell’educare il giovane alla scoperta della sessualità come dono, come cosa buona da mettere al servizio della logica del Regno di Dio, non esime dalla scelta di modalità, di mezzi di comunicazione, di atteggiamenti relazionali coerenti e capaci di testimoniare il valore senza ambiguità.
– «Vade retro Satana…» : l’illusione di chi scappa
Uso queste parole del Vangelo in senso figurato, quasi improprio, volendo stigmatizzare l’atteggiamento (che non era certo di Gesù) di chi vede il male dappertutto e pensa appunto di “fuggire materialmente dal mondo” per “fuggire radicalmente dal male”. Se è vero da una parte – come abbiamo detto – che occorre rinunciare alla logica egocentrica dell’autorealizzazione alla quale spesso il mondo ci riconduce, è vero anche che chi scegliesse un atteggiamento di fuga o di ritiro dal mondo pensando così di essere esonerato dalla necessità di confrontarsi con le spinte egocentriche, che nascono dal cuore, si condannerebbe all’illusione.
Potrebbe capitare infatti di seppellire tutto ciò che dentro di me è “mondo” sotto una coltre di divieti e di logiche esteriori di compiacenza o di formalità, mentre sotto il fuoco brucia e prima o poi potrebbe incendiare la vita. Penso ai conflitti che possono nascere intorno alle relazioni fondamentali: con le cose, con gli altri (e con l’altro sesso), con la mia libertà. Cosa significa vivere secondo una logica evangelica tali relazioni? Pur nelle diverse forme di vita, è evidente che queste tre relazioni vanno sempre incarnate e vissute dentro un contesto concreto. I consigli evangelici sono un richiamo per ogni cristiano a vigilare sul modo di relazionarci alle cose, alle persone, alla nostra stessa libertà, in modo che Dio rimanga l’unico Signore e nessun’altra realtà diventi il nostro idolo. Questo richiede una consapevole relazione con questa parte di mondo che è in noi e intorno a noi, dovunque ci troviamo a vivere. Non esistono luoghi sicuri, che ci esonerano da tale fatica.
Tappe per vivere la concretezza evangelica, «pro mundi vita»:
– Apprezzare la bellezza e la bontà del creato
Abbiamo già parlato di questo aspetto. Qui mi sembra giusto ribadire che nella direzione spirituale dovrebbe emergere la dimensione affettiva del legame con il mondo da parte della persona che chiede di essere aiutata nel discernimento. La persona sa apprezzare e riesce anche a vivere e gustare i beni naturali, i valori umani, sentendosi parte di un’umanità che è amata da Dio? Se si può rispondere affermativamente a questa domanda siamo in una condizione ottimale per poter condurre la persona ad un ulteriore passaggio: aprirsi, nella logica del dono di sé, anche all’aspetto di “rinuncia” che fa parte di ogni percorso vocazionale. In un senso cristiano, infatti, si può lasciare o sacrificare solo ciò che si ama e si apprezza. La rinuncia che avviene su queste basi assume un significato profondamente unitivo: è un “no” ad un bene che rimane tale, ma al quale si rinuncia per un “sì” a Colui che è “il Bene”. Il legame assoluto e unicamente necessario con Dio autorizza anche a rinunciare all’esercizio di facoltà umane buone, da lui donate (la sessualità, la libertà, la capacità di possedere), in vista di una testimonianza d’amore.
Come verificarlo?
Vi sono almeno due casi nei quali vigilare. Il primo si ha quando l’atteggiamento nei confronti del mondo è dispregiativo e la persona è portata a rinunciare al mondo perché lo sente come cattivo, o le fa paura, o le sembra troppo difficile da affrontare. Sono tutte modalità emotive che indicano un disagio, un’insufficiente capacità di abitare la propria dimensione umana in modo maturo. Se ci sono segni di questa affettività “negativa”, essi andranno presi in considerazione nella direzione spirituale e portati a consapevolezza, analizzati e fatti evolvere verso una riconciliazione con la propria storia e con la propria umanità.
Il secondo caso da considerare è invece quello della rinuncia inconsapevole in cui la persona non ha ancora sviluppato un senso profondo di dignità, di stima personale, di valore della propria personalità (capacità, doti, desideri affettivi): l’atteggiamento non è di contrapposizione al mondo, ma piuttosto di indifferenza o di inconsapevolezza. Nel percorso vocazionale sarebbe meglio prendere coscienza di tutte queste dimensioni, per renderle luogo in cui la grazia possa davvero agire e incontrarsi con una libertà che consapevolmente si fa dono.
– Subire il fascino di Dio
Ogni cristiano, anche il laico che voglia vivere nel mondo per vocazione, ha bisogno di fare l’esperienza del Dio che ama, che si fa presente in modo personale e unico, che chiama per nome: quello con Dio dovrebbe diventare l’incontro che dà senso alla vita. Una vita che va a Dio con molte domande, interrogativi aperti, ricerca di senso, può trovare in Lui la risposta adeguata. Perciò non è la condizione secolare in quanto tale che può allontanare la persona dal fare l’esperienza di Dio. Ho invece l’impressione che ciò che blocca o rallenta o impedisce a Dio di diventare “Colui che dà senso alla mia vita” sia l’incapacità di rimanere passivi davanti a lui, l’incapacità di porsi in atteggiamento recettivo, di accogliere, di lasciarsi investire da una presenza che affascina e che non è determinata da noi. Imparare a subire il fascino di Dio richiede di liberare il terreno della nostra umanità da ciò che rende impercettibile la sua Parola e invisibile la sua presenza.
Se però la sua voce si fa strada tra tante voci, allora è possibile che se ne percepisca il fascino e la bellezza, l’incommensurabile grandezza rispetto ad ogni altro bene: se Dio mi ama così, anch’io non posso far altro che amarlo con tutta la mia vita e questo è il meglio per me, l’esperienza che lascia sullo sfondo dell’esistenza tutti gli altri beni.
Come verificarlo?
Si tratta di verificare la vita di preghiera, nei suoi contenuti, nelle sue forme, nelle sue tappe di crescita e di maturazione. In particolare per il laico sarà necessario trovare una modalità personale di vivere l’incontro con il Signore, legata ai tempi e alle responsabilità della vita quotidiana. Una modalità possibile e al tempo stesso irrinunciabile, ma sufficientemente flessibile per andare incontro agli imprevisti di una vita che non è ordinata dal suono della campana del convento. Una preghiera che attinga profondamente ai contenuti della fede e alle forme della Tradizione, ma che sappia anche arricchirsi delle domande e delle sollecitazioni che provengono dalla vita quotidiana, fatta di impegno e di responsabilità civile e sociale. In questa tappa mi sembra importante permettere che si sviluppi la preghiera di lode: contemplare e lodare Dio con gratitudine e riconoscenza.
Verificare che si sviluppi il desiderio di intimità e di solitudine con Dio, che cresca il bisogno di conoscere profondamente il suo volto, attratti dal mistero che si svela. Coinvolgere in questa conoscenza le facoltà che la persona possiede: intelligenza, affetto, volontà. Il fascino di Dio si può rivelare nel porsi le domande fondamentali della vita, nella contemplazione teologica dell’esistenza, nello stupore di fronte ad un moto dell’affetto suscitato dalla Parola o dall’incontro con un povero, con un amico, con la comunità. Il fascino di Dio può rivelarsi anche nello scoprirsi capaci di poter servire gli altri, capaci di un gesto di volontà d’amore.
Come conduciamo la persona a cogliere lo stupore che apre alla fede in tutti questi ambiti della vita? Mi sembra che un’attenzione particolare vada data alla quotidianità: esperienze eccezionali possono aiutare nel cammino di fede e in quello vocazionale, ma occorre poi verificare quanto l’esperienza sia stata in grado di cambiare davvero lo stile quotidiano dell’esistenza, o se invece l’euforia del momento, una volta passata, abbia lasciato le cose come prima.
– Imparare da Dio l’amore per il mondo: guardare il mondo con i suoi occhi
A mano a mano che la vita di comunione con Dio cresce e la persona si lascia affascinare e trasformare dalla sua presenza, cresce anche la capacità di guardare il mondo con Dio, e direi quasi “attraverso i suoi occhi”. Rimanendo con lui, si impara a ragionare come lui, ad avere i suoi sentimenti[9], a guardare il mondo con i suoi occhi di misericordia, di amore, di tenerezza.
Innanzitutto però si parte dall’esperienza di sentire noi stessi dentro questo sguardo: noi abbiamo ricevuto gratuitamente la vita e l’amore di Dio, attraverso le innumerevoli mediazioni con cui ci ha raggiunto. Tale esperienza genera una gratitudine profonda, che spinge a corrispondere all’amore di Dio facendosi carico anche di quelli che lui ama e portando anche altri a godere della gioia del Vangelo.
È così allora che ogni attività di servizio all’uomo, dal lavoro alla cura della casa, alle relazioni familiari, di amicizia e sociali, diventano situazioni in cui si riesce a contemplare la realtà con gli occhi di Dio, vivendola dal suo interno.
Come verificarlo?
Giunti a questa tappa, nella vita di preghiera emerge la richiesta di avere il dono della sapienza[10]: si percepisce che da soli non si ha l’esatta capacità di lettura della realtà e che la preghiera, individuale e comunitaria, dona una nuova consapevolezza del reale. Ciò suppone che la persona abbia fatto una rilettura della sua storia, con le sue fatiche e le ferite, forse ancora aperte, e che, rintracciando in essa il filo rosso della presenza di Dio, si senta guardata e amata da lui. Dovrebbe crescere così anche l’amore per le attività quotidiane, vissute come luoghi fecondi di crescita umana e cristiana; la capacità di cogliere le tante opportunità della vita con passione: studio, lavoro, impiego diversificato dei talenti che ciascuno ha. È sempre utile verificare lo spirito con cui la persona vive i suoi impegni quotidiani: li sopporta? Ci mette impegno e passione? Ne fa una rilettura alla luce della fede? O fede e vita camminano ancora su due binari distinti? Occorre verificare anche che ci sia equilibrio tra impegni quotidiani e attività di volontariato, servizi ecclesiali, ecc. In genere incentivare un distacco dalle responsabilità della vita (famiglia, lavoro, scuola) per un maggior impegno intraecclesiale (i più svariati servizi pastorali) non sembra una buona norma per chi si prepara a vivere o già vive una vocazione laicale, perché educherebbe implicitamente alla irresponsabilità, alla svalutazione degli aspetti umani dell’esistenza, bloccherebbe quell’andamento di unificazione tra fede e vita a cui mira il cammino di santità.
Come verificare se la preferenza per gli impegni intraecclesiali sia invece segno di una chiamata vocazionale per il giovane alla vita religiosa o sacerdotale? Mi pare che – seguendo il percorso che stiamo facendo – si dovrebbe in essa ritrovare quell’aspetto di stima per le cose del mondo, di passione personale e di dedizione, che rende possibile una scelta di rinuncia libera e consapevole in risposta alla chiamata di Dio. Il giovane dovrebbe comunque essere in grado di vivere ciò che abbiamo cercato di descrivere nelle prime due tappe.
– Decidere di rimanere nel mondo e di assumerne tutte le realtà per amore di Dio
È a questo punto che può maturare una determinazione vocazionale per la secolarità vissuta come “luogo di santità”. Rimanere nel mondo non più e non solo perché già ci si trova a stare, ma motivati dallo sguardo d’amore di Dio sul mondo. È un passaggio che mi richiama alla mente il brano della guarigione dell’indemoniato di Gèrasa, il quale chiede a Gesù di poter rimanere con lui. Gesù gli risponde: «Torna a casa tua e racconta quello che Dio ti ha fatto» (Lc 8, 39). Si è rimandati a vivere una solidarietà umana nella quotidianità, assumendo le stesse fatiche e le stesse gioie di tutti: condivisione e solidarietà che sono però profondamente rinnovate dalla comunione con il Signore e che spingono alla responsabilità. S’impara a vivere la vita come dono, mettendo al servizio degli altri i doni che abbiamo ricevuto. In questo modo ogni attività può diventare servizio di carità, azione apostolica, perché in essa passa l’amore di Dio, la comunicazione di una speranza nuova per la vita di tutti: è l’apostolato dei laici. Sarà poi compito di ciascuno individuare gli ambiti in cui poter vivere la propria vocazione alla santità.
Anche chi si decide per il matrimonio cristiano è chiamato a fare questo percorso di approfondimento della fede e di coscienza vocazionale del dono dell’amore umano.
Vi sono poi laici che, spinti da un dono di grazia particolare, scelgono di consacrarsi a Dio, emettendo i voti di castità, povertà e obbedienza. Essi dicono con la loro vita la radicale appartenenza al Signore: un’appartenenza che non separa dai fratelli, ma invia al loro servizio. Un servizio d’amore che non allontana da Dio, ma unisce maggiormente alla sua missione di salvezza per il mondo.
Come verificarlo?
Nella vita di preghiera dovrebbe farsi strada la preghiera d’intercessione. Le varie realtà umane nelle quali ci si sente inseriti diventano altrettanti “altari” da cui innalzare la preghiera al Dio vivente. Se c’è questo anelito profondo a trasformare la vita (lavoro, incontri, relazioni, gioie, fatiche, impegni) in “culto spirituale”[11], allora di pari passo con la dimensione vocazionale, cresceranno nella persona l’equilibro umano e una stabile maturità cristiana. Tale maturità prenderà la forma vocazionale a cui la persona è chiamata: nel matrimonio o in una consacrazione, ma comunque in una dedizione coerente con i valori cristiani e fedele al tempo stesso alla terra[12]. Un segno che ciò sta avvenendo è anche la maturazione progressiva – legata alle diverse età della vita[13] – di una sapienza che dà gusto, che rende ragione delle scelte operative e degli atteggiamenti di fondo; una sapienza che dà serenità e gioia pur nell’inevitabile alternanza di fatiche e preoccupazioni, di tempi di riposo e di stimolo a scomodarsi per rimanere in cammino.
Una vita che si lascia interpellare dai bisogni del mondo, della gente, che non sente come “facoltativa” la possibilità di condividere con altri il senso della vita che si è trovato. Da ciò nasce l’atteggiamento di responsabilità, di dedizione, di impegno civile e sociale che potrà a buon diritto chiamarsi “vocazionale”: perché tutta la vita sarà una risposta all’invito d’amore che Dio ha rivolto personalmente a me, chiamandomi per nome.
Conclusione
Il discorso che abbiamo fatto circa la trattazione del mondo nella direzione spirituale riguarda in fondo il tema della “integrazione”, che è un concetto chiave per tutti i percorsi formativi. In particolare, chi vive il tempo della formazione vocazionale ha la necessità di trovare un modo adeguato di integrare i valori cristiani e vocazionali con la realtà umana. Tale questione costituisce un interesse prioritario sia per il formatore che per la persona in formazione[14]. Vorrei riprendere quanto detto sintetizzando gli esiti possibili di questo complesso e affascinante compito: incarnare i valori della fede in un’umanità che non si chiude, ma si apre ad essi come la terra buona che accoglie il seme della Parola e porta un frutto nuovo.
La negazione. In una fase di immaturità è possibile che questo mutuo richiamo tra “fede e mondo” sia negato. Possiamo avere allora come esito il disprezzo o l’uso ingenuo e inconsapevole di chi non prende in considerazione tale questione.
Il controllo. In una fase un po’ più evoluta possiamo trovare l’atteggiamento di chi, partendo dalla fede e temendo di dover avere a che fare con qualcosa di potenzialmente “pericoloso” (il mondo), assume un atteggiamento di rigido controllo, di distanza, di difesa. In questo caso non c’è negazione della realtà “mondo”, ma l’atteggiamento di fondo blocca e impedisce di entrare in un dialogo fecondo, di assumere responsabilità, di correre il rischio di sporcarsi le mani per dare concretezza ad un vissuto spirituale.
L’accettazione. È un atteggiamento più maturo, dove la forza della fede è più sicura e in grado di dialogare con la realtà “mondo”, percepita ora nella sua realtà ambivalente. Tutto ciò che è concretezza e mondanità è riconosciuto nella sua attuale bellezza e potenzialità positiva, ma non vengono negati gli aspetti di fatica, di dubbio, di tentazione egoistica che le realtà mondane portano con sé. È una tappa necessaria alla maturità cristiana: essa comporta la percezione della perdita di realtà buone. Questa perdita può essere subita, e allora si tratterà di dare un senso agli aspetti dolorosi della nostra storia, oppure sarà una perdita voluta, cioè della consapevole rinuncia in nome della vocazione.
L’unificazione. Mi sembra il grado più alto della maturazione umana e spirituale: si raggiunge quando una persona ha integrato in sé i valori della fede con la realtà umana. Ma l’integrazione non si vede ad occhio nudo. Ciò che noi vediamo è appunto una persona profondamente unificata, in pace con se stessa, stabilizzata intorno ad un “centro esistenziale” chiaro, che le dà una identità vocazionale certa e stabile. Quando s’incontrano persone così, si è colpiti dalla loro padronanza di sé, dalla fiducia che ispirano, dal calore della loro umanità, dall’efficacia della loro azione. Si tratta di uomini e donne “sapienti”, di quella sapienza che viene dall’alto, ma che cammina sulle strade del mondo, come ha fatto Gesù, a Nazareth e in Galilea. Uomini e donne capaci di assumersi le responsabilità della storia senza distogliere lo sguardo dal Maestro, da colui che è il Signore e il Salvatore del mondo[15]. Anche noi vogliamo dunque essere discepoli di questo Signore, «per la vita del mondo»[16].
Note
[1] PAOLO VI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale degli Istituti Secolari, 26 settembre 1970.
[2] Citato in SCHOPFLIN M., Resistenza al male, resa a Dio, in “Jesus” 2/2006, p. 79.
[3] Penso al fenomeno della New Age, e alle forme di spiritualità che vanno in quella linea, ma anche alle tante forme di cura del benessere psico-fisico, con al centro la ricerca di un’armonia interiore che eluda ogni preoccupazione o tensione.
[4] PAOLO VI, Discorso nel XXV della “Provida mater”, 1972.
[5] Vedi per un approfondimento di questo tema gli scritti di don Giovanni Moioli, e in particolare G. MOIOLI, Va’ dai miei fratelli, Glossa, Milano 1996, pp. 89-93.
[6] P. Luigi Rulla, fondatore dell’Istituto di Psicologia dell’Università Gregoriana, nella sua antropologia della vocazione cristiana parla di una “dialettica di base” come condizione stabile della dimensione psichica di ogni uomo. Cf L. RULLA, Antropologia della vocazione cristiana I – Basi interdisciplinari, EDB, Bologna 21997.
[7] PAOLO VI, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale degli Istituti Secolari, 1970.
[8] Leggi su questo tema l’articolo di E. PAROLARI, La gratuità e i legami. La psicologia del dono in “Tredimensioni” 1/2006, pp. 31-45.
[9] Cfr. Fil 2,5.
[10] Cf Sap 9.
[11] Cf Rm 12,1.
[12] Sl 37, 3: «Confida nel Signore, e fa’ il bene; abita la terra e vivi con fede».
[13] Cf 1Pt 3, 15.
[14] Per un approfondimento del tema rimando ad alcuni articoli pubblicati sulla rivista “Tredimensioni”: A. CENCINI, Formazione: parola magica, 1/2004, pp. 277-295; A. CENCINI, Formazione permanente e modello dell’integrazione 3/2005, pp. 276-286; P. MAGNA, Dalla perfezione all’integrazione, 1/2006, pp. 55-63.
[15] Mi è sempre sembrato interessante il fatto che questa professione di fede concluda il brano in cui Gesù incontra la Samaritana (Gv 4,1-42). In quel brano la donna è il culmine dell’incontro di Gesù con i Samaritani, dove il percorso che egli fa con loro è di riepilogare tutto ripartendo dall’incontro con se stesso: il vissuto della donna, le tradizioni sociali e religiose che costituiscono l’identità di un popolo, tutto trova nuovo significato alla luce dell’incontro con Gesù. Mi sembra un bell’esempio di come dovrebbe essere il percorso di integrazione del mondo nella direzione spirituale.
[16] Cfr. Gv 6,51.