La vocazione tra desideri del cuore e sete di Dio: pedagogia e criteri di discernimento
È forse significativo il fatto che circa una decina d’anni fa abbiamo affrontato in sostanza la stessa tematica durante uno dei nostri incontri annuali vocazionali (La guida e il mondo dei desideri)[1]. Ci ritorniamo quest’anno, alla luce della spiritualità agostiniana, dunque ponendoci in una prospettiva particolare, senz’altro molto positiva, nei confronti del desiderare umano.
Il tornare su questo tema sta a dire, da un lato, la contiguità di significato tra il termine “desiderio” e la realtà della vocazione: addirittura potremmo dire che la vocazione è un desiderio, esprime la capacità di desiderare. Ma d’altro lato, se avvertiamo l’esigenza di riprendere la riflessione sul desiderio e sul desiderare, vuol dire che avvertiamo pure la crisi di questo termine, o la crisi del desiderare giovanile, che forse è la stessa cosa della crisi vocazionale. E proprio questo è il problema.
Scopo, allora, della presente conversazione è cercar di capire più in profondità la natura di questa crisi, le sue radici; ma soprattutto vorremmo capire come l’educatore può entrare dentro questo complesso mondo dei desideri giovanili, come può aiutare a riconoscere questi desideri, come sfruttare – in particolare – quello che potrebbe diventare uno straordinario alleato delle nostre decisioni, questa preziosa componente della vocazione cristiana che è il desiderio umano.
Nel primo punto, allora, cercheremo di definire cosa significhino desiderio e desiderare, quali siano le componenti costitutive di questo atteggiamento. Nella seconda parte faremo un tentativo di analisi dei tipi e dei livelli del desiderare umano, che già ci farà intravedere come leggere il desiderio umano in relazione con il progetto vocazionale, e infine nella terza parte entreremo più esplicitamente nella dinamica del desiderio umano che diventa desiderio vocazionale.
DESIDERIO E DESIDERARE
Senza pretendere di trattare in modo esaustivo la questione sul piano teorico, vediamo semplicemente di offrire qualche indicazione utile per capire bene di cosa parliamo, per poter poi identificare qualche possibile via di accesso al dinamismo del desiderare.
Partiamo da un tentativo di definire le due cose, tra loro strettamente correlate, evidentemente. Potremmo dire che uno riguarda il contenuto (il desiderio), l’altra concerne il dinamismo (il desiderare).
Desiderio
Il desiderio, in generale, è legato alla verità della vita, di quello che noi siamo e che siamo chiamati ad essere e ancora non siamo; per l’uomo credente, il desiderio dell’uomo è di vedere Dio (Filippo: “mostraci il Padre e ci basta”)[2], o di realizzarsi secondo il progetto che Dio ha su di lui, il progetto delle origini, quello che ci rende a immagine e somiglianza divina. Secondo l’antropologia biblica il desiderio appare come uno degli elementi che caratterizzano fin dall’inizio l’essere umano, se è vero che “il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne una nefesh vivente” (Gen 2,7), ovvero l’uomo vivente è presentato come un essere di desiderio, strutturato verso la relazione con l’altro/Altro per la realizzazione di se stesso. L’uomo della rivelazione è il desiderante vivo[3]: la struttura della sua persona, in quanto essere di desiderio, è orientata verso Dio, come la sentinella che attende l’aurora (cf Sal 42,2.6.12; 43,5).
A livello umano, semplicemente umano, il desiderio esprime la tensione dell’essere umano verso il suo compimento-completamento; l’uomo desidera fondamentalmente realizzarsi nella verità di se stesso, si avverte carente e cerca la pienezza del proprio essere. Il desiderio è la proiezione nel futuro d’un sé migliore di quello attuale, esprime l’anelito d’ogni uomo verso un’immagine di sé più vera e completa rispetto a quella del presente. Di qui alcune caratteristiche del desiderio, sempre sul piano antropologico:
Apertura al futuro
“Senza il futuro non si può desiderare, e quanto più il futuro si allarga, fino all’eterno, tanto più i desideri evolvono e vanno lontano”[4]. La tendenza a una vita iperconcreta, tesa cioè al “subito”, all’hic et nunc, al tutto immediatamente, vanifica il processo del desiderare e, bruciando tutto nel momento che scappa, priva d’importanza il passato e ignora il futuro, chiudendo pure alla prospettiva della speranza. Senza il desiderio, dice un osservatore acuto e insospettabile come Andreoli, “tutto si spegne. E affiorano molti dei comportamenti che dominano questo momento storico”[5], in cui sembra dominare una cultura di morte. “Tra gli estremi aborto-eutanasia, troviamo persone che vivono perché non sono ancora morte, la cui vita ha per cornice la morte, una morte così invadente che la vita ne risulta appena una sua temporanea sospensione; e la felicità è simile a un lampo che passa”[6], o il flash d’una dose di droga…
Concezione progettuale della vita
Aver un desiderio significa concepire se stessi e l’esistenza in modo dinamico, non statico. Implica, dunque, una concezione positiva di sé, come di persona capace di impegnarsi o di dare il meglio di sé, lungo un cammino fatto di tappe intermedie da superare gradualmente e ordinatamente; di rinunce, sacrifici e fatiche da accettare, di obiettivi possibili e praticabili, per un progetto di fatto realizzabile. L’idea del desiderio s’oppone dunque a una concezione magica o illusoria della vita, in cui la prospettiva della speranza è sostituita dalla scommessa sulla fortuna o sul destino, ma anche a quei comportamenti che nascono da una fondamentale deresponsabilizzazione nei confronti della vita e oggi così frequenti: il ricorso alle droghe, come fuga dal mondo e dalle sensazioni negative, e rifugio in una realtà illusoria; la disonestà, come ricerca d’uno stile di vita facile, liberato da vincoli comportamentali e da qualsiasi obbligo nei confronti degli altri, o come sbrigativo tentativo di farla franca, aggirando quelle leggi che obbligano tutti in qualsiasi collettività, e ottenendo quel che si vuole senz’alcuno sforzo; il camaleontismo, quale atteggiamento che svela il desolante vuoto di valori e convinzioni, che porta un giovane a mutare a seconda del vento che tira, fino a convincersi che la coerenza sia segno di rigidità e che la stabilità sia espressione della paura della novità; la sostanziale chiusura alla vita, che si manifesta in molte forme, dalla sterilità delle famiglie al sottile disprezzo per alcune vite umane, come contassero meno di altre, quale la vita del povero, del debole, dell’emarginato sociale, del disabile, dello straniero… Possiamo far rientrare in queste forme di rifiuto della responsabilità nei confronti della vita anche quel satanismo oggi in preoccupante ascesa, specie tra adolescenti e giovani[7], attraente perché incoraggia alla ribellione, alla sfida, a desiderare e ottenere subito quel che si vuole, imparando a piegare gli eventi a proprio vantaggio, magari con la moda dei Pokémon, “demoni tascabili nati per diffondere l’idea che qualunque bambino può diventare una potenza nel mondo delle tenebre”[8].
Prospettiva trascendente
È implicita nella definizione che abbiamo data di desiderio, come tensione verso qualcosa d’altro, che ancora non è, che supera il momento e la situazione presente, che forse pare al di là delle capacità del soggetto desiderante (progetto in senso progettuale, come gettare se stessi al di là di se stessi). Ancora Andreoli: “il desiderio è la pista di volo senza la quale non ci si alza e la visione del mondo e di se stessi nel mondo rimane fortemente amputata”[9]. Chi si chiude alla prospettiva trascendente avrà solo bisogni, non desideri; solo impulsi determinati dalla natura, alla ricerca d’una gratificazione oggettuale, puntuale e immediata che soddisfa lì per lì, ma poi suscita altra tensione che si ripropone tale e quale, in un quadro privo di creatività e spesso anche di libertà.
Il desiderio, invece, riguarda o può riguardare realtà a lunga scadenza, implica un coinvolgimento totale a livello intrapsichico, chiede sacrifici, tentativi, smarrimenti e rinunce; e non scompare una volta esaudito, ma anche se lascia un senso di pienezza e soddisfazione crea anche ulteriore attesa e quasi un nuovo desiderio. Per questo la prospettiva del desiderio un po’ ci spaventa, per cui il problema di solito è quello che desideriamo poco, ci accontentiamo di troppo poco, di soddisfazioni modeste[10]. In fondo desiderio deriva da de-sidus (= mancanza d’una stella).
Ma trascendenza vuol dire anche uscita da sé per incontrare l’altro: “il desiderio invita a uscire da se stessi, pone in contatto con gli altri, mette in relazione. Soprattutto se letto nella prospettiva biblica, il desiderio indica un essere umano strutturato verso la relazione con l’altro/Altro, e che in questa relazione ritrova la possibilità d’esser soggetto. È esperienza di incompiutezza.
Natura insaziabile
Se il desiderio va compreso nella logica del trascendente, ne viene di conseguenza la caratteristica della insaziabilità. L’autentico desiderio non è mai raggiungibile pienamente. Tanto più se il desiderio è riportato alle sue origini, come abbiamo visto: nell’uomo è posto un eccesso di desiderio che nessuna cosa concreta o quotidiana potrà esaurire. E forse questa è una regola fondamentale per discriminare i veri dai falsi desideri: “solo i desideri miserevoli, quelli spudorati, vengono esauditi, mentre i grandi desideri degni d’un uomo rimangono inesaudibili”[11]. Lo dice splendidamente Lévinas: “Il vero desiderio è quello che il Desiderato non sazia, ma rende più profondo”[12]. “Il desiderio sembra saziarsi soltanto di infinito e di eternità”[13]. Per questo si può ben dire che “il desiderio e la capacità di desiderare sono l’organo o il luogo per eccellenza dell’esperienza umana di Dio”[14].
DESIDERARE
L’attenzione al dinamismo è fondamentale e complementare all’attenzione al contenuto del desiderio. Come tale è forse più tipica della scienza umana, così come l’altra appartiene per natura sua alla scienza filosofica o teologica.
Dal punto di vista psicologico, dunque, il desiderare è la “capacità di canalizzare tutte le nostre energie verso un oggetto stimato centrale per noi. Non è quindi il cieco impulso, la voglia matta, l’istinto che spinge incontrollato, ma una tendenza significativa verso qualcosa che è apprezzato in sé”[15]. Né è un semplice esser colpiti o eccitati da ciò che è piacevole qui e ora, ma un aspirare con tutte le forze verso qualcosa che vale in se stesso e che l’individuo scopre e vuole al centro della vita e del proprio futuro.
Di qui alcune caratteristiche dinamiche, ma che sono importanti anche sul piano squisitamente educativo.
Avere un centro
Per desiderare occorre avere un centro. Un centro che svolga sostanzialmente queste funzioni: che dia identità e verità al soggetto, sia in grado di attrarre e unificare le sue energie affettive, in modo di attivarne e orientarne la capacità decisionale[16]. Dunque il centro è indispensabile, poiché svolge funzioni senza le quali non esiste autentica vita umana, non esiste io, non esiste desiderio alcuno né possibilità alcuna di desiderare. Mancherebbe proprio lo strumento operativo. Per questo dev’esser centro significativo, ovvero capace di dare senso alla vita e alla storia del soggetto (in tutti i suoi aspetti), verità alla sua identità; dev’esser ancora attraente, qualcosa che esprime bellezza e che si pone dunque subito come oggetto di desiderio, per se stesso, perché il bello attrae per natura sua; infine dev’esser anche esigente, anche se può sembrare strano, avere forza provocante, il coraggio di chiedere il massimo al giovane. Senza un centro con queste caratteristiche è impossibile al giovane imparare a desiderare e a desiderare nella direzione giusta. Occorre dunque che vigili attentamente su quanto sta, magari inavvertitamente, ponendo al centro della propria vita[17].
Non mettersi al centro
Altra attenzione molto importante: ricordare che nessuno può mettere il proprio io al centro della vita. Sarebbe un’operazione suicida, non solo impropria e inefficace. L’operazione di ricognizione del centro è ben condotta quando conduce l’individuo a cercare e trovare fuori di sé il punto di riferimento della vita. È un principio psicologico importantissimo quello che ci ricorda che l’io non può esser il centro di se stesso, altrimenti farebbe la fine di Narciso, nella frustrazione totale e nell’immobilità pure totale. Lo specchio è sempre fallace, e rimanda un’immagine falsa di sé, perché “immediata”, non mediata dall’altro, da un tu, da un’oggettività trascendente. Ci dev’essere una trascendenza radicale, con ciò ch’essa significa sul piano psicologico: oggettività, alterità, sensazione di qualcosa che supera l’individuo, coerenza verso qualcosa che non può essere ridotta su misura del soggetto e dei suoi gusti.
Partire dal centro (non c’è decisione senza desiderio)
A questo punto entra in scena un elemento strettamente collegato al desiderio e al desiderare, ovvero la decisione. Non si può parlare di desiderio se non si parla al tempo stesso, e in maniera corrispondente, di decisione, che del desiderio è in qualche modo il prolungamento o la conseguenza inevitabile, in diversi modi.
Il movimento di tensione verso il centro significa raccogliere tutte le energie perché siano dirette verso un’unica cosa, un unico valore, un unico amore, che a questo punto sarà grande, come una passione, un innamoramento. Come le acque d’una diga tutte contenute nell’invaso. Partire dal centro significa fare in modo che ogni decisione e azione parta da quella realtà, che l’individuo ha posto al centro della sua vita, e che ora desidera intensamente. Il desiderio deve precedere la decisione. Ovvero non c’è decisione senza desiderio, o non dovrebbe esserci. E se ci fosse sarebbe decisione instabile (senza energia) e debole, o falsa e contraddittoria, o solo volontaristica-moralistica o cerebrale-intellettuale o istintiva-sentimentale. In tal senso si potrebbe dire che “un comportamento buono è valido nella misura in cui è frutto del desiderio della bontà. Più che essere buoni è importante avere la voglia di diventarlo”[18]. E noi potremmo dire: più che esser preti o frati o suore, è importante aver la voglia di diventarlo e poi di restarlo.
È quanto ci racconta la parabola del tesoro trovato nel campo: è la gioia della scoperta (scoperta del centro o di ciò in cui il soggetto riconosce la sua propria identità e verità) che determinerà poi la decisione di rinunciare a tutto il resto per acquistare quel campo. In termini di principio morale: la gioia della scoperta dà la forza della rinuncia. Altrimenti la rinuncia o è impossibile o è forzata. E così è anche la vocazione. Insomma la scintilla è il desiderio. Ed è anche il punto di partenza.
Tornare al centro (non c’è desiderio senza decisione)
Al tempo stesso un autentico desiderio dovrebbe per natura sua provocare una decisione. Altrimenti non è vero desiderio, o è desiderio fasullo che non ha messo in moto il meccanismo del desiderare. È quello che vogliamo qui sottolineare: il desiderare implica il decidere. Proprio per questo la riflessione sul desiderare è un’analisi anche sulla vocazione e sulla crisi vocazionale. E se non c’è decisione senza desiderio, è altrettanto vero che non c’è desiderio senza decisione.
E dunque il desiderio dev’esser forte e determinato. Per questo, l’attenzione della persona dovrebb’essere quella di impedire fuoriuscite o deviazioni o perdite d’acqua, ovvero – fuori immagine – di non avere altri desideri, o simpatie o attrazioni o centri d’interesse, perché questi porterebbero a un indebolimento del desiderio, non più attratto verso una direzione unica, ma spezzettato e disperso in mille rivoli, nei quali si perde e confonde, e spesso si contraddice e smentisce.
Questo sarebbe un desiderio sterile, incapace di provocare la decisione, che è o dovrebb’essere la conseguenza naturale del desiderio. La decisione, tornando all’immagine della diga, è esattamente il punto di rottura, ove le acque per la loro pressione rompono la diga o, se questo può richiamare l’immagine sinistra della sciagura, è la forza dell’acqua che, tutta incanalata senza dispersioni, smuove la turbina per la produzione dell’energia elettrica. L’autentico desiderare dovrebbe portare alla decisione, altrimenti siamo di fronte ad un desiderio debole o inesistente in una persona eccentrica (senza un centro o con più centri dispersivi, che desidera in modo contraddittorio), o egocentrica (che vuole solo se stessa), o scentrata (il grande inconcludente).
In tal senso si deve partire dal centro (dal desiderio), ma anche tornare al centro; ovvero la decisione e l’azione che ne segue rinforzano il desiderio. Infatti, la decisione è un modo di concretizzare il desiderio, di renderlo effettivo e non velleitario[19], indica la fedeltà e coerenza con esso, fino al punto di rischiare per esso (come quando uno sceglie e “si butta”, senza la pretesa d’aver tutte le garanzie e sicurezze), ne è sempre un’interpretazione creativa, proprio perché, come ricordato prima, il desiderio ha un profilo trascendente, dunque è inesauribile nelle forme che può assumere.
DESIDERIO E VOCAZIONE
Quanto abbiamo detto, credo sia sufficiente per mostrarci il nesso tra vocazione e desiderio. La vocazione è essenzialmente chiamata che viene da un altro, da Dio e dal suo desiderare, il quale normalmente suscita nel chiamato un desiderio corrispondente, o si rende riconoscibile attraverso una serie di desideri corrispondenti. Potremmo dire che la vocazione è un desiderio divino (=Dio che desidera chiamare al suo servizio una persona) cui corrisponde un desiderio umano, da parte di chi sceglie di consacrarsi a Dio. Più precisamente, allora, la vocazione è desiderio nel senso pieno del termine, poiché è desiderio che diventa decisione.
Livelli del desiderio e norma generale
Ma questo desiderio, che potremmo chiamare desiderio vocazionale, a volte, o forse molto spesso, specie nella fase iniziale dell’accompagnamento e del discernimento vocazionale, convive o può convivere con altri desideri, più o meno in sintonia con il primo. Anzi, per esser più precisi, diciamo che lo stesso desiderio vocazionale deriva a sua volta da un fondamentale desiderio umano di Dio da parte del soggetto credente, che mette Dio al centro della propria vita (desiderio teocentrico), e genera o dovrebbe generare dei desideri tipici di chi intende porre la propria vita, la propria umanità totalmente al servizio di Dio (desideri quotidiani). C’è dunque una relazione reciproca e circolare tra questi tre livelli. Non sempre è facile riconoscere la natura e il significato dei desideri legati all’esistenza d’ogni giorno e l’autenticità del desiderio vocazionale, che a noi qui ora interessa, ma la regola fondamentale è proprio quella della connessione o della successione ordinata e coerente tra questi tre livelli del desiderare: desiderio Teocentrico – desiderio Vocazionale – desideri Quotidiani
Tale immagine ci consente di situare in modo corretto la posizione rispettiva dei singoli desideri e il rapporto esistente tra essi; ci fa dunque vedere che in qualche modo il desiderio originante è quello di Dio, e che da esso deriva il desiderio-decisione vocazionale, che si manifesta poi, idealmente, negli ulteriori desideri quotidiani esistenziali.
L’animazione vocazionale mira a sollecitare e riconoscere il desiderio vocazionale, ma sarebbe fuorviante se limitasse la sua azione a esso esclusivamente, ignorando la sua fonte (il desiderio teocentrico) e quelle che dovrebbero essere le sue espressioni (i vari desideri umani quotidiani).
Ci può essere, infatti, un desiderio vocazionale di speciale consacrazione, ma che non nasce da un genuino desiderio di Dio, anche se – almeno all’apparenza – esibisce desideri umani molto religiosi, pii e devoti; oppure vi può esser il caso di un autentico desiderio di Dio, ma che si scontra con una notevole resistenza a livello vocazionale; e gli stessi desideri umani, in teoria facilmente riconoscibili, non sempre manifestano in modo trasparente quel che c’è davvero nel cuore della persona, sia in positivo che in negativo.
Il problema allora non è tanto semplice. Ma per lo meno questa distinzione ci consente di dare un certo ordine al lavoro delicato di discernimento vocazionale.
Vediamo allora come procedere a ognuno di questi livelli del desiderare umano, non solo per operare il discernimento, ma per cogliere in questa operazione una metodologia di animazione vocazionale, e ancora, per consentire al giovane stesso non solo di esplorare il mondo dei propri desideri, ma anche di attivare e riattivare il proprio desiderare. Insomma, ne vale la pena.
Desiderio teocentrico
Anzitutto, un intelligente animatore vocazionale dovrebbe operare soprattutto a questo livello. Ma distinguendo tra il desiderio che Dio ha dell’uomo e il desiderio che l’uomo ha di Dio, e rispettando quest’ordine, sia su un piano teologico che psicologico.
I desideri di Dio (un Dio che desidera…)
Qui nasce la vocazione, non altrove: sulla base della percezione, come accennato, del desiderio che Dio ha di chiamare e riservare per un qualche servizio una determinata persona. E solo qui nasce anche la tensione teocentrica del desiderare umano: a partire dalla percezione, grata e commossa, da parte dell’uomo, del desiderare divino, o dalla scoperta d’esser oggetto del desiderio divino.
Anzi, potremmo dire che tutta la pastorale trova qui il suo naturale punto di partenza e d’arrivo, essendo tutta orientata a cogliere e far cogliere questo desiderio divino nei confronti della creatura, d’ogni creatura, desiderio di darle la vita, di renderla simile a Sé, di chiamarla, e chiamarla ogni giorno a una vocazione particolare, di qualsiasi tipo. Dio chiama, abbiamo più volte detto nei nostri incontri, perché ama.
C’è nell’uomo un desiderio naturale nei confronti di Dio, desiderio delle origini, che lega la creatura al Creatore, ma tale desiderio scatta solo a partire dalla percezione del desiderio che il Creatore ha in cuore verso la creatura. In fondo il desiderare umano è frutto del desiderare divino; nasce a partire da quello, perché lo ha posto Dio in noi.
Tutta la pastorale dovrebbe essere orientata in tale direzione: a fare scoprire sempre più il desiderio divino, quel desiderare il cui soggetto è Dio, l’essere desiderante per eccellenza, e il cui oggetto è l’essere umano – qualsiasi essere umano – l’essere desiderato, cioè voluto dall’amore dell’Eterno, o amato d’amore eterno. Se non aiuta a cogliere questo, il cristianesimo scade a moralismo, a ideologia più o meno gnostica, a vitalismo più o meno segnato da un certo buonismo di maniera, ad ascetismo volontaristico privo d’afflato mistico, a culto e rito poveri di fede, e rischia sempre più d’esser male interpretato…
D’altronde è la prima regola del discernimento: quando il credente fa discernimento, qualsiasi discernimento, l’oggetto è prima di tutto l’azione della Grazia, e solo poi, e in dipendenza da questa, la risposta del credente stesso. Dunque in questo caso non sarebbe possibile alcun discernimento vocazionale, perché mancherebbe il punto di riferimento fondamentale del discernimento, o si ridurrebbe a un’interminabile operazione narcisista (come succede in tanti falsi discernimenti vocazionali), a un inutile girare attorno a se stessi (dimenticando che l’io non può stare al centro della vita); o non esisterebbe tout court alcuna autentica animazione vocazionale, o sarebbe ridotta a pura caccia alle vocazioni, ad animazione vocazionale mercantile, preoccupata soprattutto di riempire i vuoti, alle prese coi numeri, efficientista (quando va bene), frenata dalla paura dell’ostile clima culturale odierno e debole dinanzi al giovane moderno diversamente interessato, a pastorale vocazionale perdutamente alla ricerca dell’eroe e incapace di rivolgere a tutti un appello che parla della vocazione di tutti, o timorosa di fare proposte forti e vigorose, quelle che partono dal presupposto vincente della certezza del desiderio del Creatore su ogni creatura.
Non vi pare che questa potrebbe esser una proposta significativa: prima ancora di pensare a come esplorare il mondo complesso dei desideri dei nostri giovani (o di quelli, beninteso, che ancora desiderano), non è forse il caso di raccontare il desiderio che Dio ha di noi? Di parlare d’un Dio il cui cuore desidera qualcosa per noi, ha in mente qualcosa di bello e significativo che rende bella e significativa la nostra esistenza? È chiaro che la ricerca vocazionale sarà tanto più sollecitata da questa presa di coscienza.
Qualsiasi ricerca vocazionale è autentica solo se parte da qui. Ma dipende anzitutto dall’animatore vocazionale rispettare il primato del desiderare divino, e su questa premessa animare vocazionalmente, o sollecitare a scoprire questo desiderio per poi concentrare tutte le proprie energie nella tensione verso di esso.
Il desiderio centrale dell’uomo
San Benedetto lo indicava come primo criterio di discernimento vocazionale: “In primo luogo bisogna accertarsi – dice – se il novizio cerca veramente Dio”[20]. Ovvio che tutti quelli che sono in ricerca vocazionale dicano di cercare Dio; Benedetto, da profondo conoscitore dell’animo umano, chiede di non accontentarsi dell’apparenza e di osservare più in profondità quanto questo sia vero.
Nel lavoro di psicodiagnostica con giovani in ricerca vocazionale, o già in un cammino vocazionale, usiamo sempre indagare sull’area dei desideri, com’è naturale. Anche attraverso una serie di domande esplicite con le quali chiediamo alla persona di elencare i desideri che sente di portare in cuore, almeno quelli più importanti (di solito chiediamo di elencarne tre). In vista di questa conferenza ho chiesto ai colleghi del nostro gruppo (di Verona) di raccogliere queste liste per vedere quanto, almeno a livello esplicito (che già di per sé non sarebbe sufficiente, ma è comunque significativo), la ricerca di Dio (e della sua volontà) sia presente tra i desideri del chiamato: la sensazione non è affatto positiva. Queste liste sono piene di tanti desideri, qualcuno anche singolare (da quello un po’ improbabile di giocare nel Milan almeno per un anno [?] a quello, sconcertante in un giovane, di diventare cerimoniere del Papa; da quell’altro desiderio classico di donarsi agli altri a quello semplice e sano di fare una bella scalata in montagna con gli scout; da quello, non proprio tipico d’un aspirante al sacerdozio celibatario, di avere una relazione con una ragazza a quello di andare in un altro monastero [da parte d’una monaca di clausura di voti perpetui]…), ma quello teologico o teocentrico è sostanzialmente assente o presente in pochissimi. Eppure sono persone tutte in cammino vocazionale, come se il rapporto con Dio non fosse un desiderio, una tensione quotidiana, un obiettivo costante, o fosse dato per scontato, quasi il soggetto si vergognasse di dirlo e ribadirlo.
Ciò creerebbe, a livello psicodinamico, conseguenze notevoli, perché verrebbe a mancare quella scintilla (il desiderio di Dio) da cui prende l’avvio il cammino vocazionale. Come abbiamo detto, non c’è, non ci può essere, decisione (vocazionale) senza desiderio (di Dio).
Oppure c’è, e però sarebbe fondamentalmente falsa, ambiguamente orientata, debole e instabile, a volte contraddittoria e decisamente falsa. In sostanza sarebbe una decisione in funzione del non desiderio divino o d’un desiderio non autentico né credibile o non abbastanza centrato su di lui. Se, dunque, desiderare significa concentrare tutte le proprie energie nella tensione verso un oggetto considerato centrale per la propria identità e verità d’essere, il desiderio di Dio di queste persone sarà solo all’apparenza teocentrico, ma in realtà metterà al centro più il proprio io che non Dio, e magari userà Dio o si servirà della causa di Dio (o dei poveri o dei giovani e degli emarginati…) per la propria gloria e affermazione ed esibizione di sé. È il caso di chi sogna la propria missione come strada verso la realizzazione di sé, di chi vede nella vocazione sacerdotale o religiosa una possibilità e opportunità di manifestare le proprie doti, di fare in qualche modo carriera, di vincere il più possibile alla tombola della vita, di prevalere sugli altri, di raggiungere un certo prestigio, di uscire da un certo anonimato o da una certa inferiorità sociale, di abbandonare situazioni di povertà o disagio sociale…, come dicono i casi da noi registrati e tante storie di vocazioni mancate o deboli e false.
In questi vasi, ripetiamo, è povero il desiderio fontale, non è abbastanza attivo il desiderare e quel desiderare che dovrebb’esser all’origine del processo poi decisionale. Forse potremmo dire che è povera la fede.
Ma proseguiamo nel nostro percorso.
Decisione (e desiderio) vocazionale
Abbiamo or ora detto del rapporto, psicodinamico e spirituale, tra desiderio di Dio e decisione vocazionale. Il primo è il grembo del secondo. Non c’è desiderio senza decisione, tanto più se si tratta del desiderio di Dio, che per natura sua partorisce una decisione vocazionale. Ma il secondo elemento (la decisione vocazionale) in qualche modo qualifica e certifica il primo (il desiderio di Dio). Dunque un autentico desiderio di Dio, o una forte concentrazione delle proprie energie affettive nella ricerca di Dio, culmina normalmente in una decisione vocazionale, di qualsiasi tipo essa sia.
Ed è già un’indicazione precisa, sul piano pastorale e pedagogico. Che vogliamo confrontare con la realtà attuale dei nostri giovani. Oggi qual è il livello del desiderare giovanile? E, di fatto, i nostri giovani desiderano? E con quali conseguenze, ovvero che ruolo e peso ha il desiderio nella loro vita? E quanti di questi desideri diventano decisione vocazionale?
Dato sorprendente
In realtà tutti sappiamo bene come stiano le cose: questi ragazzi superbulli fanno i bulli per nascondere proprio il vuoto di aspirazioni e progetti; in realtà desiderano poco, poco e in modo ripetitivo, tutti le stesse cose e di scarsa qualità; c’è in atto una mortificante omologazione dei desideri, che conduce progressivamente verso l’atrofia del desiderare. La generazione dalle braghe basse è anche la generazione dai desideri poveri.
Inevitabile il riflesso negativo vocazionale: la vocazione è in ultima analisi questione di desideri, come sappiamo, implica capacità di desiderare, chiede coraggio di mantenere alti i propri desideri o di resistere alla tentazione di accontentarsi di qualcosa di meno. La crisi vocazionale in corso è la riprova di questa situazione piuttosto mortificante.
Così abbiamo creduto in questi ultimi tempi, almeno fino a quando la recente ricerca di Garelli, su cui abbiamo riflettuto nel corso del convegno di gennaio, ci ha svelato un aspetto nuovo e forse inedito. Non è vero che questi giovani siano privi di desideri e di desideri vocazionali, se è vero che tra i giovani di oggi (dai preadolescenti ai giovani) l’11% dei giovani intervistati (corrispondenti a un milione circa di persone!) confessa d’aver nutrito in cuore il desiderio di offrire la propria vita in una vocazione di speciale consacrazione, e d’averci pensato – nella percentuale del 20% (di questi giovani, circa 200.000 persone dunque) – per 3 anni, cioè per un tempo, psicologicamente parlando, rilevantissimo.
Dunque i desideri ci sono, persino il desiderio vocazionale, su cui noi stiamo riflettendo, ed è desiderio autentico, nel senso almeno che non viene da una provocazione esterna, dall’imbeccata dell’animatore vocazionale in crisi d’astinenza, se – come han confessato i giovani stessi – “nessuno degli intervistati ha indicato l’opzione su invito di un sacerdote o padre spirituale”[21].
Questo è già un fatto assolutamente nuovo. Ed è sintomatico il fatto che non venga dato il giusto risalto a questa ricerca a livello soprattutto di pastorale giovanile[22]. Forse dovremo abituarci a cambiare modo di pensare e pure di esprimerci al riguardo: non possiamo più parlare di crisi vocazionale, quanto – semmai – di crisi di accompagnamento vocazionale (o degli accompagnatori vocazionali). Da un lato il dato della ricerca è positivo, se così tanti giovani prendono sul serio l’ideale vocazionale in maniera del tutto autonoma e libera (in questo la ricerca conferma una realtà sulla quale il CNV ha costruito in questi anni tutta la sua proposta d’animazione vocazionale, anche quando pochi sembravano crederci…), dall’altro il dato messo in evidenza, della latitanza-insignificanza degli educatori è inquietante. Poiché questi desideri vocazionali, senza il necessario discernimento e accompagnamento, rischiano di diventare “aborti vocazionali”[23]!
Nel convegno di gennaio sono emersi in particolare due limiti da parte del presbitero educatore:
-l’incapacità d’intercettare la disponibilità vocazionale giovanile;
-la non attenzione verso tale disponibilità, per purificarla, farla crescere, confermarla, farla diventare decisione vocazionale vera e propria!
Il dato pedagogico è dunque chiaro: il desiderio vocazionale c’è, e c’è molto più di quanto noi possiamo pensare, ma non diventa automaticamente decisione vocazionale. Il passaggio da desiderio a decisione non è immediato né spontaneo: ha bisogno, positivamente e propositivamente, di supporto educativo-formativo.
Fase educativa. Il desiderio va anzitutto verificato e purificato. Per quanto possa sembrare positivo e promettente, va sempre sottoposto ad un salutare e profondo lavoro di analisi e investigazione. Ma va anche custodito e protetto, e forse mai come oggi un desiderio come quello vocazionale è debole, è il più piccolo di tutti i semi[24]; deve lottare contro una cultura opposta, quella dell’“uomo senza vocazione”[25].
Fase formativa. Il desiderio va sostenuto, ovvero il giovane va soprattutto provocato a concentrare davvero tutte le energie nella tensione verso questo desiderio vocazionale, che riguarda la sua vita e in cui riconosce se stesso. In tal senso il desiderio deve trovare una forma, una via concreta, nella quale, appunto, il giovane riconosce la sua propria identità e verità. Dunque va sollecitato a passare alla fase della decisione, alla fase del compimento pieno del desiderio, che è come la fase del compimento definitivo della sua “creazione”, quella in cui decide d’essere in un certo modo e non in un altro.
Occorre dunque un certo coraggio e determinazione nella guida, specie oggi, nella cultura della indecisione, che scoraggia il giovane dal prendere un certo tipo di decisioni come quella di cui stiamo parlando.
Un caso particolare: la vocazione di Agostino
Agostino ha seguito un desiderio di consacrarsi al Signore, e di consacrarsi a lui nel sacerdozio?
Certamente non ha frequentato alcun corso di formazione specifica al presbiterato.
Ma ha avuto nondimeno un intenso cammino formativo: dopo il battesimo, ricevuto a 33 anni nella notte di Pasqua (del 387, era il 24 aprile), ha vissuto per 3 anni circa in un “monastero laico” da lui stesso fondato con alcuni amici, a Tagaste. Ma ad esser prete lui non ci pensava proprio. Fu ordinato, infatti, a forza. Le cose andarono così. Si era recato a Ippona, solo per incontrare un amico. Ma la sua fama lo aveva preceduto. Era una domenica dell’anno 391. Agostino era andato nella cattedrale dove l’anziano vescovo, all’omelia, cominciò a spiegare che aveva bisogno d’un sacerdote che lo aiutasse nel fronteggiare pagani ancora aggressivi ed eretici accaniti che lo ostacolavano in tutti i modi. All’improvviso Agostino si trovò letteralmente afferrato dai vicini. Narra un antico biografo: “Si impadronirono di lui e lo portarono al vescovo perché lo ordinasse. Egli piangeva a dirotto… Ma infine si compì il loro desiderio”[26]. Semmai il desiderio lo avevano loro, non Agostino. “Fui preso con violenza e fatto sacerdote”[27], racconterà poi lui stesso, aggiungendo una nota di colore: lui piangeva perché non si sentiva degno di quel ministero, che gli cadeva addosso di schianto; i suoi “aggressori” invece pensavano che piangesse di delusione perché lo facevano semplice prete (evidentemente anche allora esistevano preti in carriera); e lo consolavano però dicendogli che il passo per diventare vescovo era molto breve, tanto più che il loro pastore, Valerio, era già tanto vecchio! In effetti non sarebbero passati altri 4 anni che Agostino sarebbe stato eletto vescovo di Ippona, la città da allora legata per sempre al suo nome.
Quale considerazione possiamo trarre da questo episodio vocazionale così insolito? Certo, andiamoci piano, con l’attuale CJC sarebbe da dubitare della validità d’una ordinazione siffatta, d’un soggetto invitus!, e nessuno si sogna di proporla come metodo di animazione coatta vocazionale! Ma serve a sottolineare un punto importante, anche se forse di non facile comprensione per la nostra riflessione, come sottolinea il vescovo Lambiasi: “la vocazione non è un vago sentimento soggettivo, bensì una necessità della Chiesa, che si fa voce e grido, e dice: guarda, figlio mio, il presbiterato, così come la vita consacrata, è un dono di Dio alla Chiesa, anzitutto, prima d’essere una tua scelta. Non è una tua conquista, né un premio meritato dalla tua bravura, o qualcosa comunque legato alla percezione o su misura dei tuoi gusti e delle tue capacità. Tu pensa a scegliere Dio, e sarà poi la Chiesa a sceglierti per il suo ministero o per la sua testimonianza”[28], o comunque a farti capire la strada da intraprendere, qualsiasi essa sia. In tal senso potremmo dire, apparentemente in contrasto con quanto già detto, ma in realtà completandolo, che la vocazione non è desiderio, o non lo è necessariamente e immediatamente, nel senso che non si può pretendere che sia subito una cosa affascinante, che piace irresistibilmente. Anzi, semmai sarà normale aspettarsi che vi sia la sensazione contraria, ovvero sensazione di resistenze. Vediamole:
Resistenze
È normale che un giovane che si sta aprendo al progetto di Dio sulla propria vita avverta delle resistenze dentro di sé, o delle paure, perplessità, incertezze, difficoltà…, che gli vengono dalla propria personalità, dal proprio carattere, dalla propria sensibilità, dalla cultura circostante, dalla propria storia. Non sarebbe normale né credibile che un cammino vocazionale fosse fatto solo di desideri e aspirazioni pacifiche. Il desiderio evoca il suo contrario, l’aspirazione viaggia assieme alla tentazione; la disponibilità nei confronti di Dio dovrà subito lottare con la voglia di tirarsi indietro dinanzi alla sua proposta.
Dunque, paradossalmente, un giovane che si presenti con un pacchetto di desideri celesti, purissimi, quasi fosse stato alleggerito per grazia e improvvisamente del peso della carne, non è vocazionalmente affidabile; chi sogna la vocazione solo o soprattutto, anche se inconsciamente, come esaudimento di certi suoi desideri (normalmente di natura piuttosto narcisista o esibizionista, per quanto si tratti di esibizionismo liturgico) ignorando più o meno totalmente le normali difficoltà derivanti dalla natura e dalla propria umanità, va messo in discussione… per il suo bene. Sarebbe ingenuo quell’animatore (o formatore) che si lasciasse “incantare” da tanta apparente positività e non sapesse che i sogni, normalmente, coprono e nascondono delle resistenze.
Dunque è importante identificare le resistenze, senza pretendere di ignorarle o cancellarle, dar loro un nome e lavorarci sopra, perché molto spesso sono esse a creare ostacolo alla decisione vocazionale vera e propria. Un intelligente animatore vocazionale non si spaventa dunque dinanzi alle resistenze, sa che sono normali e che addirittura stanno a dire un percorso normale vocazionale; non si scoraggia dinanzi ad esse e tanto meno considera chiuso il discorso né ridimensiona la proposta vocazionale, ma si pone accanto al giovane perché la resistenza che avverte dentro di sé non gl’impedisca di cogliere il progetto di Dio su di sé e di sceglierlo.
Preferenze
Ma torniamo ad Agostino e alla sua travagliata storia vocazionale. Il grande santo africano ha seguito un cammino lungo, faticoso e doloroso per arrivare alla conversione, cui è approdato a 33 anni. Anche se non era, come lui stesso tendeva a dipingersi, un peccatore particolarmente depravato, non si è dovuto convertire solo dagli errori del manicheismo (cui aderì per 9 anni) e dallo scetticismo; ma ha dovuto letteralmente rigettare degli idoli, i tre che particolarmente lo tenevano incatenato: il denaro, il potere, il piacere. E ciò che è stato più faticoso e duro da superare è stato proprio quest’ultimo. L’Agostino dei primi tempi, subito dopo la conversione, non riusciva a capire né il senso né la concreta praticabilità del celibato. Si era legato ad una donna a 17 anni, e da più di 15 conviveva con lei, che amava teneramente e da cui aveva avuto un figlio (Adeodato), ma quando prima del battesimo se ne dovette allontanare, sentì sanguinare la carne e il cuore: “Quando mi fu strappata dal fianco la donna con cui ero solito dormire, il mio cuore, di cui lei era parte, fu profondamente lacerato e sanguinò a lungo. Ella ripartì per l’Africa, facendo voto di non voler conoscere altro uomo, e lasciandomi con il figlio naturale avuto da lei”[29].
Ma il celibato continuava a sembrargli una “inutile e penosa fatica”. Si era nel frattempo fidanzato con una ragazzetta milanese “bella, buona e colta”, ma non ancora in età da marito. Intanto conviveva con un’altra donna. Eppure, per quanto strano ciò possa sembrare, continuava a sentire una misteriosa, per quanto discreta e sottile, attrazione per la verginità.
Perché faccio questo esempio? Perché molte volte proprio sulla sessualità avvengono le maggiori resistenze per un progetto vocazionale di speciale consacrazione. Al punto che molti lasciano, e lo confessano candidamente, a motivo di questo contrasto che sentono insolubile, come se la normale attrazione sessuale fosse segno inequivocabile di vocazione al matrimonio (e come se la chiamata ad una vocazione che implica il celibato o la verginità implicasse pure l’assenza di attrazione sessuale). La vicenda di Agostino ci dice con molta evidenza che non è così. Semmai si dovrà dubitare dei casi contrari: di chi non ha, o dice di non avere, alcun desiderio sessuale (eterosessuale). Non sarebbe certo buon segno (l’esperienza ci dice che chi non ha problemi in quest’area, mentre s’appresta a fare una scelta celibataria, è lui stesso un problema…). Un sano desiderio d’una intimità profonda con una creatura che ti appartenga per sempre è segno d’un equilibrato psichismo; di questa intimità è parte anche l’attrazione genitale-sessuale, che sta a dire la normale predisposizione emotivo-affettiva della persona, condizione fondamentale per vivere un rapporto di piena intimità con Dio, e per amare gli altri alla maniera di Dio. Vale sempre il vecchio detto: non si consacra bene chi non si sposerebbe bene, non si sposa bene chi non si consacrerebbe bene.
Ma torniamo ad Agostino: come ha risolto il suo contrasto interiore, tra desideri che sembravano elidersi a vicenda?
Il desiderio diventa decisione quando mette insieme coerentemente, e in modo complementare, i due elementi fondamentali della scelta, di ogni scelta: l’elemento negativo e quello positivo, ovvero la rinuncia e la preferenza. La decisione è “fatta” di queste due componenti: implica il saper dire di no a qualcosa in forza d’un sì a qualcos’altro, come abbiamo prima accennato parlando del desiderare. Dunque è indispensabile, perché il desiderio diventi decisione, che ci sia qualcosa (qualcuno) che è più amato e preferito rispetto a qualcosa o qualcun altro. Non il disprezzo o la pretesa di eliminare o tanto meno d’ignorare l’altra realtà con tutta l’attrazione che si porta dietro, ma semplicemente la sensazione del “più”, o il fatto che quest’altra realtà è ancor più amata, apprezzata, desiderata, riconosciuta come luogo della propria identità, a differenza dell’altra, pur apprezzata e “desiderata” a livello umano.
Infatti a far superare ad Agostino ogni indugio fu esattamente la progressiva e sensazionale scoperta dell’amore di Dio, come amore in cui ritrovava ogni amore umano e qualsiasi affetto che credeva perduto o sottratto; non si vince un amore se non con un amore più grande! E Cristo finalmente gli apparve non solo come il modello da imitare, ma come il dono più grande che Agostino potesse pensare, l’amore che gli dava la sensazione d’una pienezza sconfinata, che colmava e calmava finalmente la sete del cuore…, e più in particolare come la chiamata (divina) che porta già inclusa la grazia della risposta (umana). Di qui la sua celebre preghiera: “Dona quello che comandi, e poi comanda pure quello che chiedi”[30].
Desideri quotidiani
Infine, l’ultimo elemento di questo cammino dei desideri è rappresentato dai desideri d’ogni giorno, apparentemente meno significativi, legati alle economie quotidiane e ai rapporti umani, specie con le persone che ci sono più vicine. Secondo il nostro schema interpretativo, il desiderio di Dio, o teocentrico, che genera desiderio e decisione vocazionale, idealmente dovrebbe anche attivare la capacità umana di desiderare e desiderare in grande, o dovrebbe in qualche modo trasparire anche in questi desideri. I quali a loro volta potrebbero e dovrebbero confermare la scelta vocazionale e il desiderio stesso di Dio, e rendere entrambi sempre più forti e sicuri. Insomma i desideri quotidiani come mediazione psichica del desiderio vocazionale.
Come riconoscere concretamente i desideri che svolgono o possono svolgere questa preziosa funzione?
Pensando all’animatore vocazionale, vorrei tentare di proporre una sorta di distinzione tra tre tipi, fondamentalmente, di desideri:
-desideri buoni o vocazionalmente consonanti, su cui può agevolmente innestarsi un progetto vocazionale;
-desideri ambigui o vocazionalmente neutri, su cui non può innestarsi automaticamente un progetto vocazionale, ma che hanno bisogno di verifica e magari purificazione;
-desideri …cattivi o vocazionalmente dissonanti, su cui non può innestarsi un progetto vocazionale. E che dunque andrebbero eliminati o comunque resi inefficaci, e trasformati.
Nessuna pretesa di schematizzare in modo definitivo alcunché, ma solo un’indicazione pedagogica; non più che un’esemplificazione, che ognuno potrà valutare ed eventualmente arricchire secondo la propria esperienza.
Desideri vocazionalmente consonanti
Possiamo inserire in questa categoria, in generale, quei desideri che esprimono una feconda attività interiore del soggetto, o che manifestano anzitutto il fatto che costui mette in movimento la propria capacità di aprirsi ad una realtà che ancora non è sua, ma che intravede vera e bella; che corre il rischio di desiderare e non interpreta la vocazione come una semplice sistemazione e neppure solo come un’obbedienza, foss’anche a Dio.
Sul piano dei contenuti, sono una mediazione vocazionale quei desideri che esprimono un’interpretazione della vocazione come un’opportunità per dare alla propria vita e alla propria persona un impulso creativo e originale, il più possibile personalizzato e concretamente realizzabile, in direzione altruista e trascendente, e naturalmente in linea con il contenuto e il significato della vocazione cristiana, religiosa e sacerdotale come la può sognare un giovane.
Così, ad es., sono buon segno quei desideri che non solo vanno nella linea del dono di sé, o del compiere il progetto di Dio su di sé, o dell’annunciare la Parola o della disponibilità per gli altri (espressioni che rischiano d’essere ripetitive e dire poco del soggetto), ma che indicano un’appropriazione personale di tutto ciò (e una conoscenza discreta del proprio mondo interiore, debolezze comprese). Come il tipo che dice: “vorrei imparare a mettere le mie doti personali, dalla capacità di relazione al mio pazzo amore per la musica e per il teatro, o dalla mia intraprendenza al mio puntiglio di fare solo ciò di cui sono convinto al servizio del piano di Dio su di me, però so anche che tutto questo mi porta molto a mettermi al centro dell’attenzione, e allora vorrei tanto imparare a farlo in modo davvero disinteressato, mettendo l’altro (l’Altro) al centro”.
Oppure il tipo in ricerca che dice: “io non sono tanto sicuro che questa sia la mia strada (consacrarsi a Dio nella vita religiosa), perché la sento al di sopra delle mie forze, però voglio imparare fin d’ora a esser povero, casto e obbediente, perché questo mi aiuta a superare mie forti tendenze e attrazioni contrarie, che non mi aiutano neanche ad esser uomo…”.
Ma sono ancora desideri vocazionalmente positivi quei desideri, tipici dell’età giovanile, di amore, di amicizia, di relazione, di bellezza, di autenticità, di verità, di felicità, di distensione, di sport, di rischio…, magari il tutto anche con un po’ di follia e incoscienza… Come dice bene il documento del congresso vocazionale europeo: «È importante che chi chiede di entrare in seminario o nella vita consacrata sia veramente “giovane”, con le virtù e vulnerabilità tipiche di questa stagione della vita, con la voglia di fare e il desiderio di dare il massimo di sé, capace di socializzare e di apprezzare la bellezza della vita, cosciente dei propri difetti e delle proprie potenzialità, consapevole del dono d’essere stato scelto”[31]. Chiaramente, non basta che uno s’esprima in tal senso, ma il manifestare questi atteggiamenti è già il primo passo.
Desideri vocazionalmente ambigui
Sono quei desideri, in sostanza, in cui è ancora abbastanza evidente una certa tensione aperta verso il futuro, verso una proposta che viene da Dio, ma in cui gioca un certo ruolo una ricerca di sé ancora infantile o adolescenziale, svelando una ricerca vocazionale poco trascendente e ancor meno creativa, e attestata su quegli aspetti della vocazione stessa che più si prestano alla gratificazione di certi bisogni, dunque predisponendo verso un’interpretazione strumentale e difensiva della vocazione stessa.
Esempio in tal senso è il caso accennato prima del giovane che alla domanda sui desideri risponde: “Vorrei diventare come mons. Marini, il cerimoniere del Papa”. Ovviamente nulla da dire circa il ruolo del cerimoniere, ma che un giovane scelga d’intraprendere il cammino formativo sacerdotale con questo segreto sogno non è il massimo della generosità e dell’altruismo giovanile…, non sembra un buon segno[32].
Attenzione, perché in qualche settore della generazione giovanile odierna sembra in ripresa un certo fascino della vocazione sacerdotale, che finisce per attrarre in modo ambiguo personalità apparentemente pie e devote, oranti e …sempre in chiesa (o in sacrestia), ma sedotte in realtà “dalla dimensione sacrale del ministero sacerdotale col suo luccichìo, o da una certa interpretazione del ruolo del prete sempre al centro dell’attenzione, individui che si sognano, e lo fan capire, molto più nei panni solenni e sfavillanti del presidente d’assemblea che non in quelli dimessi e normali del servitore della fede e del collaboratore della gioia”[33]. È almeno ambiguo tutto ciò. Così com’è ambiguo il semplice desiderio di potersi autorealizzare attraverso la vocazione, come s’esprime quest’altro: “vorrei portare a compimento le mie capacità, particolarmente quelle intellettuali, perché senza il titolo di studio anche il prete conta meno…”. O quest’altro ancora, per altro molto singolare (da parte d’un chierico di prima teologia): “poter giocare nel Milan, anche per una sola stagione, prendere soldi e poi aiutare la famiglia o altre realtà”.
Desideri vocazionalmente dissonanti
Infine abbiamo i desideri di per sé non integrabili in una logica vocazionale. Li intendiamo in due sensi, che riprendono la distinzione tra desiderio e desiderare.
Anzitutto è segno prognostico negativo l’atteggiamento rinunciatario, dal punto di vista della capacità di desiderare, che oggi non pochi giovani esibiscono, come se il desiderare fosse cosa meno perfetta per chi ha scelto di seguire il Maestro. Come dice questa sorella nel primo anno di juniorato: “in questo ultimo anno non oso desiderare… Non voglio più desiderare, voglio solo imparare ad accogliere quanto la vita mi dona perché il desiderio troppo frustrato, pur continuando lo stesso a desiderare, ha fatto ammalare il mio desiderio. Vivendo così, senza desideri, mi sento anche più libera interiormente”.
Così pure un postulante: “Dopo essere entrato in questa casa di discernimento non ne ho più di desideri, perché ho imparato a mie spese che più grande è l’aspettativa, più grande è il dolore se non si avvera… Veramente, un desiderio l’avrei: è quello di capire il futuro, di sapere cosa fare, ma intanto desidero ancor più abbandonarmi, non avere aspettative su ciò che vorrei ricevere…”. Addirittura giunge a dire, circa il suo futuro: “Fra cinque anni dovrei esser in quinta teologia… Ma se mi diranno che non posso continuare andrò a lavorare, sentirò un po’ di rabbia, ma poi mi passerà. Il mio modo di agire è per comprensione o per esaurimento, ma questo secondo mi viene anche meglio”. Son piuttosto inquietanti queste due ultime testimonianze, a dire una vita pur giovane, che s’è già appiattita sull’assenza sostanziale di desideri e aspirazioni, giusto per non soffrire troppo e patire delusioni. Meglio “abbandonarsi”, che va inteso soprattutto come lasciar proprio perdere in questo caso. Anche circa lo stesso progetto vocazionale, il secondo tipo sembra rimettere la possibilità di andare avanti nel cammino vocazionale nelle mani degli altri (“se mi diranno…”), e se per caso il loro responso sarà negativo, nessun problema: “andrò a lavorare”, tanto tutto passa, anche la rabbia della bocciatura vocazionale. Ma uno che (s)ragiona così è già da considerarsi un “bocciato vocazionale”. Singolare e comunque azzeccata la sua autodefinizione: “il mio modo di agire è soprattutto per esaurimento”: più chiaro di così? Un soggetto del genere è lontano mille miglia da una sensibilità autenticamente vocazionale.
Va detto che questi soggetti che desiderano al ribasso, o già “vecchi” a vent’anni e disincantati, indifferenti e quasi insensibili, forse travestiti da saggi e prudenti, sono sempre più facili da trovare.
Un’altra causa che inibisce il desiderare è l’incertezza di fondo, come ben dice questa giovane postulante: “come faccio a dire cosa desidero se non so neppure cosa farò tra un mese!? A 25 anni sono ancora qua che vacillo, a 30 anni sarà ancora lo stesso…”. Un altro giovane in ricerca dice di non aver mai avuto aspirazioni, “a causa della mia incertezza di fondo”, e non si rende conto della contraddizione in cui si pone, che svuota di senso anche la sua ricerca vocazionale.
Dal punto di vista del contenuto dei desideri, sono da considerare desideri non integrabili con un progetto autenticamente vocazionale quei desideri che sembrano nascere unicamente da una sensazione di carenza, che riducono il desiderio a bisogno e sono privi dell’altra dimensione costitutiva del desiderio, l’aspirazione propositiva, il profilo trascendente, l’esser positivamente attratti da qualcosa di bello e vero, che vale in sé e non perché è gratificante per me. Il desiderio non è mediazione vocazionale quando sembra delineare un progetto vocazionale in funzione dei bisogni della persona, soprattutto per difendersi da essi. Come, ad esempio, quando uno ambisce farsi prete per evitare rotture e rogne della vita, o quando uno pensa al celibato perché è in sostanza un imbranato dal punto di vista relazionale o ha paura dell’altro o dell’altro sesso, dell’intimità o della responsabilità, o magari non ha realizzato finora niente di valido nella vita (attenti, in tal senso, a certe vocazioni un po’ in là con gli anni…).
Oppure, il desiderio non è mediazione vocazionale quando pare delineare un progetto vocazionale in funzione dei bisogni della persona, specie per gratificarli. È il caso di quel narcisista che sogna di diventare cerimoniere di Sua Santità, e descrive così il suo esser prete: “vivrò molto il senso della comunità, però sicuramente non nascosto nella comunità, ma come capo…, mi piace essere al centro dell’attenzione”. E ancora: “io amo molto me stesso, amo la mia personalità…, e poi ritengo che alcune qualità che ho io le dovrebbero avere anche gli altri (ad esempio, il mio senso dell’ordine, di responsabilità, di precisione…)”. Apprezzabile una certa lucidità nella percezione di sé, ma è chiaro che con questi desideri non potrà andare tanto lontano nella via dell’identificazione con lo spirito del servo inutile.
Non si vuol dire con questo che sia preclusa ogni possibilità vocazionale, ma semplicemente che essa dovrebbe passare per la via della purificazione e conversione di questi desideri.
TRASFORMAZIONE DEI DESIDERI
Quest’ultimo punto è come una scommessa dal punto di vista psicologico, o la convinzione che sia possibile cambiare i propri desideri, sottoporli a un processo, per quanto laborioso, non solo di formazione, ma di trasformazione. Probabilmente non tutti gli psicologi sono d’accordo con questa prospettiva: molti semplicemente non la ritengono utile e necessaria, altri decisamente la giudicano dannosa, come una inutile violenza psicologica su se stessi (o sugli altri). Io credo, invece, che in un normale processo di formazione, e di formazione vocazionale, sia indispensabile avviare questo processo, senza del quale non avviene alcuna crescita nel soggetto.
Si tratta certamente d’un processo complesso, del quale qui indicheremo solo alcuni punti essenziali[34].
La domanda strategica
Il primo passo in questo percorso è costituito da un atteggiamento, da parte della guida, che cerca d’indagare e scrutare il desiderio espresso, non è così ingenuo da prenderlo semplicemente per quel che dice, ma ne fa in qualche modo l’esegesi, se il termine non è eccessivo, per coglierne l’origine, ma anche la direzione possibile. O, per indagare nel desiderio umano la componente divina. In concreto, lo sottopone a questo interrogativo strategico: “Da dove può venire questo desiderio, e dove può portare? Cosa c’è oltre un’immediata sua gratificazione? Come potrebbe esser realizzato in pienezza? Quale è il suo vero punto d’arrivo?”.
In fondo è quello che faceva Gesù stesso con coloro che da lui volevano esser guariti: malati che a lui ricorrevano con tanta fiducia e speranza. Spesso nel Vangelo Gesù risponde alla richiesta di guarigione chiedendo a costoro cosa vogliano (“cosa vuoi che ti faccia?”). Sembrerebbe una domanda inutile, tanto è evidente la loro situazione e il motivo della loro spesso accorata supplica. E invece la domanda non è inutile, soprattutto non lo è per i richiedenti stessi: Gesù vuole che queste persone interroghino se stesse e prendano coscienza dei loro reali desideri, o che partendo dalla richiesta della guarigione fisica facciano quel salutare viaggio a ritroso per cogliere ciò che è più importante chiedere, ciò di cui la salute fisica è solo un segno e una parte, ovvero quella salvezza integrale che è all’origine della stessa richiesta, anche se non lo sanno, e che dice il progetto originario del Padre. Spesso il giovane che espone i suoi desideri è come i due discepoli (i figli del tuono) che avanzano richieste nei confronti di Gesù, per quanto riguarda il loro futuro e la loro “sistemazione”, e si attirano quella considerazione non proprio esaltante: “Voi non sapete ciò che domandate (=desiderate)” (Mc 10,38).
Un formatore vocazionale dovrebbe partire da questo presupposto: in ogni desiderio si cela un po’ della verità della persona, di quello che è e di quello che è chiamata ad essere. Dunque, ciascun desiderio ne svela forse la storia e ne indica qualche inconsistenza, ma ne indica anche le aspirazioni ideali, quel che lui è chiamato ad essere e forse ancora non sa. In tal senso potremmo dire che ogni desiderio è un po’ anche desiderio vocazionale, anche quello che sembrerebbe il più lontano dalla radice o deviante rispetto alla matrice, anche quel desiderare tante volte implicito e nascosto in certe ansie, lotte, domande, tensioni, o anche paure, dubbi, conflitti, o persino negli istinti e nelle pulsioni naturali. Non esiste domanda troppo piccola, un’ansia trascurabile o una lotta irrilevante, da cui non si possa o non si debba partire per questo viaggio verso la sorgente del desiderare umano, ove il giovane s’imbatte inevitabilmente con il progetto di Dio su di lui… In tal senso si potrebbe intendere il grido del salmista: “Signore, davanti a te ogni mio desiderio” (Sal 39,10).
Si tratta un po’ di scavare il desiderio. Lo scavo è movimento in profondità, è una sorta di cammino a ritroso verso l’origine del desiderio, della lotta, della domanda, della tensione, della tentazione dell’uomo, come un viaggio all’indietro, verso il recupero delle proprie radici (una specie di “ritorno a casa”), senza mai dare per scontato che l’obiettivo della domanda o il motivo della tensione o l’attrazione della tentazione o l’oggetto del desiderio s’identifichino con quanto dichiarato dal soggetto o con quanto sembra più evidente; anzi, dando per scontato proprio l’opposto, la non identificazione, cioè, o la componente misterica di tutto ciò che è umano.
Quando questa operazione è condotta con calma e rigore logico, procedendo di desiderio in desiderio (senza salti illogici) si risale alla sorgente o si giunge a identificare il desiderio di Dio (Dio come oggetto), quel desiderio che ogni uomo si porta dentro come una donna incinta. È grande servizio alla verità della persona mostrarle questo aspetto nascosto nel suo desiderare, perché non abortisca.
Dalla dispersione alla concentrazione, dalla molteplicità all’unità
Qui è importante ricordare quanto abbiamo sottolineato nella prima parte della nostra conversazione: l’unico desiderio dell’uomo è quello di vedere Dio. È fondamentale per il formatore vocazionale questa convinzione; gli dà un orientamento sicuro generale, non per imporre alcunché, quanto per imprimere una direzione precisa al suo indagare e, al tempo stesso, per aver pazienza nell’indagine stessa, perché arrivi gradatamente alla sua conclusione naturale. O per mostrare come non solo all’origine, ma anche al termine delle domande e dei tanti desideri umani, vi sia l’unico desiderio di Dio, di vedere il suo volto, di realizzarsi nella sua prospettiva. Se prima si trattava di scavare il desiderio, ora si deve scalare pazientemente la domanda e il desiderio stesso. Ovvero, scoprire e impedire, per quanto possibile, tutti quei tentativi meschini e riduttivi di dare risposte, che di fatto restano alla superficie del problema e, piccole e parziali come sono, offendono in realtà la dignità e vanificano le potenzialità dell’uomo; scalare vuole dire insistere intelligentemente fino a cogliere e far cogliere quell’esigenza radicale di bene, di verità, di felicità, di libertà, di definitività che è presente in ogni essere umano e che è l’espressione immediata del desiderio ancor più radicale di Dio, di quel che Dio vuol fare nell’uomo.
Occorre far emergere quest’aspirazione divina, che è unica e riporta all’unità la vita del giovane, spesso divisa e distratta; tale aspirazione, sovente, rimane nel sottofondo ma in ogni caso c’è, è dentro l’orizzonte umano e pervade e attraversa tutto l’uomo: il suo passato, presente e futuro, la sua origine e il suo destino, la sua radice e la sua vocazione… Ogni esperienza autenticamente umana, come il lavoro, il dolore, l’amore, la libertà, il tempo libero, la stessa morte mette l’uomo in comunicazione con il Tu divino. Come prescindere da questo Dio nel formulare il proprio piano esistenziale? Il formatore vocazionale è proprio colui che è divenuto esperto nel portare il soggetto oltre se stesso, oltre il suo pensarsi e il suo sentire, per accogliere quel “sovrappiù” che è il dono gratuito della fede, per scoprire nella fede il mistero della vita, della sua vita. Solo così il giovane apprende lentamente a canalizzare e concentrare tutte le sue energie verso il desiderio centrale e unico, quello di Dio, e dunque anche quello di pensare la propria vita a partire dal pensiero di Dio.
Anche qui è vero quanto abbiamo detto circa lo scavo dei desideri. Ogni desiderio, anche il più terreno o quello che poi segue un’altra direzione, può diventare strada che porta a Dio, anche quando l’uomo stesso è lontano dal rendersene conto o lo nega esplicitamente. Non esistono, ripetiamo, desideri troppo piccoli o meno nobili: solo terreni o troppo materiali. Se ogni desiderio è subito segnato dall’impronta del desiderare divino, così è altrettanto vero che ogni desiderio è orientato verso Dio, l’unico che può appagare il desiderare umano. Come racconta la storia dello studentello universitario, a suo tempo educato nella fede, che ritornò al paese per le vacanze. Il ragazzo aveva imparato qualcosa di Freud. Incontrò sulla piazza il suo parroco. I tempi del catechismo erano lontani. Dopo qualche convenevole l’ex-chierichetto, ormai anche ex-credente, con fare sufficiente gli butta lì la grande scoperta: “Caro don, non s’illuda, la gente che viene in chiesa da lei non viene per fede, ma per sublimazione dell’impulso sessuale. Lo sapeva?”
Il vecchio parroco non si scompone; Freud non lo conosce granché e anche il termine “sublimazione” non gli suona familiare, ma sa qualcosa dell’animo umano, dei suoi desideri e delle sue contraddizioni. Con molta pacatezza, allora, gli ribatte: “E io sai che ti dico? Che quando suoni alla porta del casino, tu credi di cercare la carne d’una donna: in realtà stai cercando Dio”.
Guardare in alto per desiderare al massimo
Formazione e trasformazione vocazionale vuol dire, allora, aver il coraggio di tener alto lo sguardo o la tensione del giovane, ma facendo sempre intravedere che questa tensione è già presente in lui e in ogni suo desiderio, e sarebbe un tradimento pretendere d’appagare un desiderio con l’obiettivo immediato che quel desiderio sembra cercare. Una ricerca di successo o di autoaffermazione, ad esempio, potrebbe esser soddisfatta semplicemente con la riuscita di fronte a tutti e il successivo consenso da parte di tutti; un certo direttore spirituale potrebbe semplicemente ritenerlo un desiderio pagano, noi stessi prima l’abbiamo considerato un desiderio ambiguo; in realtà non contiene forse la ricerca di qualcosa di più? Non potrebbe forse esser interpretato come luogo e segno d’un desiderare che apre l’uomo a progetti d’altro tipo, ben superiori a quelli di chi rincorre o è costretto a rincorrere un incerto consenso solo umano? Il bisogno stesso di felicità non indica già in se stesso autotrascendenza? Il classico bisogno o desiderio d’amore, d’esser amato e d’amare, non segnala già di per sé quella famosa inquietudine agostiniana?
Il giovane che celebra la sua notte nell’evasione chiassosa della discoteca, ad esempio, è spinto dall’evidente voglia di divertirsi e conta di appagare lì il suo bisogno; è provocato, dunque, da un desiderio che sembra piccolo e di basso livello, se non addirittura equivoco, ma che in realtà ha un’origine e un destino che superano di gran lunga quel che la discoteca gli può offrire, e che il giovane di solito non conosce ed è lontanissimo dal sospettare. Il suo movimento interiore sembra l’opposto di chi cerca la luce di Dio e se n’è lasciato illuminare; eppure è anch’egli alla ricerca d’una luce e c’è una luce che brilla anche per lui. Quando, infatti, si spegneranno quelle luci artificiali e spesso aggressive, e rumore e frastuono non potranno più coprire alcuna voce interiore, riemergerà l’inappagamento, e con esso la tensione e la ricerca, e poi l’illusione e la frustrazione, in un circolo vizioso che lega l’eccitazione della gratificazione illusoria con la delusione e la noia che le fan subito seguito, in una sequenza che puntualmente si ripete sempre identica, che imprigiona e soffoca, ma non può distruggere ed eliminare la fonte e lo sbocco del desiderio umano…
L’intelligente formatore vocazionale, sempre più trasformatore di desideri, non deride né disprezza alcuna ricerca di godimento e di distensione umana, ma è colui che fa comprendere che dentro quella ricerca c’è qualcosa di più, molto di più, anzi, quella festa è solo la pregustazione d’una festa diversa, che Dio ha preparato per l’uomo, che il cuore del giovane sta cercando e che può senz’altro trovare e godere. Come dice quella simpatica paraboletta con la quale Enzo Bianchi cerca di dire il senso della vita monastica: “i monaci sono come quelle persone che, nel momento culminante d’una festa gioiosa, si sentono irresistibilmente attratti fuori nella notte, perché capiscono che queste feste sono solo una pregustazione della festa di Dio che deve venire”[35]. Scalare il desiderio significa trasmettere quella irresistibile attrazione notturna…
Come ogni domanda nasconde e contiene una domanda su Dio, così ogni desiderio umano è desiderio di Dio, che ha Dio come oggetto e soggetto. Perché ciò che l’uomo desidera può esser appagato in modo pieno e definitivo solo da Dio, quel Dio che è la sorgente e il destino, la patria e il grembo del desiderare umano.
Guardare in alto e aiutare a guardare in alto vuol dire semplicemente questo: accogliere e sfruttare tutti questi desideri, ogni desiderare umano, per mostrarne il naturale e soprannaturale punto d’arrivo.
È la condizione, questa, o la strada per domandare al giovane di desiderare al massimo grado, di non accontentarsi di gratificazioni parziali o illusorie, di traguardi ingannevoli…, ma di giungere a desiderare per sé quello che Dio desidera per lui. Per un credente la sorgente dei desideri non può esser nell’opinione della maggioranza, nella cultura generale, nelle lusinghe di certi obiettivi solo terreni, o di quel che suggerisce solo l’io attuale, ma è nei valori rivelati, ossia nella persona di Cristo. Il formatore vocazionale deve avere il coraggio di indicare questo orizzonte, per quanto possa sembrare da vertigini per il giovane. Egli deve imparare a desiderare con il cuore di Dio.
Il rapporto con Dio, luogo di torsione dei desideri
A questo punto, allora, formazione vocazionale vuol dire relazione con Dio, ovvero preghiera, ma non solo come orazione. Vuol dire un giovane, anzitutto, che supplica Dio perché gli trasmetta i suoi stessi desideri, vuol dire un giovane che capisce che solo Dio può svelargli cosa dovrebbe stargli a cuore, e allora si mette in ginocchio, e lo chiede allo Spirito, quello Spirito che è l’espressione dei desideri divini. Ogni vocazione nasce “dalla invocazione orante, da una preghiera che è più preghiera di fiducia che di domanda, preghiera come sorpresa e gratitudine”[36].
Ma non solo questo: orazione non è solo richiesta e supplica, ma drammatico confronto coi desideri divini o, come dice Godin con un termine singolare ed efficace, la preghiera è il luogo di torsione dei desideri dell’uomo, che “s’arrotolano su desideri altri”[37]. Torsione come trasformazione o, letteralmente, come un giramento del tronco su se stesso, per dire che non si tratta d’annullare i desideri umani o di devitalizzarli (tutt’altro!), ma si tratta di volgere il desiderio verso il suo destino naturale o obiettivo finale, che fa inevitabilmente saltare la misura semplicemente umana delle aspirazioni giovanili e spalanca lo spazio illimitato del desiderare divino. Se lo scavo è rivolto verso l’origine e la radice del desiderare umano, la torsione indirizza l’attenzione verso il compimento e la realizzazione d’esso. Se scavare il desiderio vuol dire cogliere qualcosa che c’è già, deposto da sempre nella nostra natura e nel nostro passato, torsione dei desideri vuol dire decidere liberamente di pensare ed attuare il proprio futuro nella linea del desiderare divino.
Ovvio che questa operazione susciterà paura e voglia d’azzerare tutto, accontentandosi di molto meno e dando retta a più miti consigli; tra l’altro, la torsione è anche dolorosa come movimento. È per questo che è importante che il giovane viva tutto questo nella riscoperta d’un nuovo rapporto con Dio, orante e adorante. È solo in questo tipo di preghiera che l’essere umano può aprirsi a questa realtà diversa, impensata e impensabile, poiché la preghiera, a questo punto, è soprattutto azione di Dio in colui che prega: è parola e amore e energia di Dio nell’orante. E l’amore è sempre trasformante, elimina piano piano le paure e infonde la forza d’affrontare rischi, il rischio più grande che il giovane possa mai correre: desiderare con il cuore di Dio. La torsione dei desideri indica, in ultima analisi, questo movimento orante e contemplativo: volgere lo sguardo verso il cuore di Dio, per un incrocio inedito di sguardi. Proprio come ci ricorda la Scrittura: “E volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37)[38].
“Questo tipo di preghiera invocante non s’apprende spontaneamente, ma ha bisogno d’un lungo apprendistato; e non s’impara da soli, ma con l’aiuto di chi ha imparato ad ascoltare i silenzi di Dio. Né chiunque può insegnare tale preghiera, ma solo chi è fedele alla sua vocazione”[39].
La scintilla della decisione vocazionale
A questo punto il desiderio potrebbe e dovrebbe diventare decisione. Abbiamo visto nella prima parte che c’è uno strettissimo rapporto tra desiderio e decisione: l’uno apre all’altra, la seconda conferma il primo. Così è anche nella formazione vocazionale, come pure nell’animazione vocazionale di tanti giovani, ricchi di desideri, ma che non arrivano mai a diventare decisioni.
I nostri campi vocazionali, i nostri ritiri o catechesi vocazionali e varie altre iniziative di tal genere, anche di qualità pregiata, raggiungono e interessano molti giovani, ma senza riuscire a determinare in loro un esito esplicitamente vocazionale. Magari fanno e ripetono l’esperienza per lungo tempo, ma senza decidersi mai.
Senza pretendere di spiegare questo fenomeno (che innervosisce e deprime non pochi animatori vocazionali) potremmo dire che una causa d’esso potrebbe essere una non sufficiente attenzione alla dinamica del desiderare, specie nel rapporto esistente tra lo scavare il desiderio e lo scalare il desiderio. I due movimenti, infatti, dovrebbero, idealmente, far emergere, in buona sostanza, il desiderio dell’uomo e il desiderio di Dio, il primo purificato da tante incrostazioni e interferenze, il secondo come radice e destino del desiderare umano. Normalmente, tali movimenti sono tra loro inversamente proporzionali, più va in profondità l’uno, più sale in altezza l’altro; più si scava, più si scala.
In ogni caso, l’incontro tra i due desideri dovrebbe fare scoccare quella scintilla da cui nasce la decisione vocazionale. Ovvero, il desiderio del giovane coincide con quello di Dio, la chiamata di Dio attrae cuore-mente-volontà del giovane; il quale, a questo punto, può dire di scegliere ciò che gli piace.
E il desiderio umano esprime e manifesta la bellezza e la verità del desiderio divino!
Note
[1] Esattamente a Calambrone (Pisa), dal 14 al 17 aprile 1998.
[2] Così nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica: “Dio stesso, creando l’uomo a propria immagine, ha inscritto nel suo cuore il desiderio di vederlo. Anche se tale desiderio è spesso ignorato, Dio non cessa di attirare l’uomo a sé, perché viva e trovi in lui quella pienezza di verità e felicità che cerca senza posa” (cap 1,2).
[3] Cf B.OLIVERA, Annotazioni antropologiche sul desiderio a servizio della formazione monastica, in “Vita nostra”, 1(2006) 29.
[4] V. ANDREOLI, Hanno ammazzato il desiderio, in “Avvenire”, 25/I/2002, 1.
[5] Ibidem.
[6] G. LEPORI, in U. FOLENA, Il paradosso della felicità, in “Avvenire”, 27/VIII/2003, 12.
[7] Secondo l’ultimo rapporto del satanismo in Italia, del dicembre 2004, l’88% dei giovani è affascinato dal satanismo, mentre il 55% ammette d’aver partecipato a sedute spiritiche (cf T. CANTELMI, C. CACACE, Il libro nero del satanismo, Cinisello B. 2007).
[8] Ibidem.
[9] ANDREOLI, articolo citato.
[10] Cf T. RADCLIFFE, Cantate un canto nuovo, Bologna 2001, p. 128.
[11] E. CANETTI, Il cuore segreto dell’orologio, Di qui la differenza tra gli dèi e Dio: gli dèi ti accontentano subito (e ce n’è uno per ogni “desiderio” nell’Olimpo greco), Dio no!
[12] E. LÉVINAS, La traccia dell’altro, Marietti, Casal Monferrato 1984.
[13] B. OLIVERA, Op. cit., 31.
[14] A. CENCINI, Vita consacrata. Itinerario formativo lungo la via di Emmaus, Cinisello B. 1994, p. 223.
[15] A. MANENTI, Vivere gli ideali. Tra paura e desiderio, Bologna 1988, p. 61.
[16] Cf A. CENCINI, Il cuore del mondo. Accompagnare un giovane al centro della vita, Milano 2006, pp. 10-13.
[17] Cf Ibidem, pp. 14-17.
[18] MANENTI, Vivere, 200.
[19] Velleitario è l’interesse vocazionale di quella giovane in ricerca, come racconta quella simpatica storiella, che domandava con insistenza al Signore che le svelasse il suo progetto. Si diceva disponibile e interessata a una vita di consacrazione, ma era ancora nel dubbio. Spesso s’inginocchiava dinanzi a una statua miracolosa della Madonna col Bambino Gesù in braccio, ripetendo sempre la stessa supplica vocazionale, ma la Vergine taceva. Finché un bel giorno arrivò la risposta. Il Bambino Gesù, forse stufo di sentir sempre la solita lagna, decise di prender lui l’iniziativa e le ingiunse senza mezzi termini: “Ma fatti suora!”. E lei di rimando: “Zitto tu. I bambini devono tacere in presenza dei grandi. E poi io l’avevo chiesto a tua madre, tu non c’entri proprio niente…”. È quanto succede in molti discernimenti vocazionali, teoricamente aperti alla ricerca della volontà di Dio, ma in realtà senza un reale desiderio in tal senso. Insomma, questi tipi “fingono” un interesse vocazionale, ma poi non sono liberi di scegliere. Con aborto vocazionale finale.
[20] S. BENEDETTO, Regola, cap 58, n. 7.
[21] GARELLI, I giovani, 97.
[22] E forse non per colpa di qualcuno in particolare o di qualche operatore della pastorale giovanile, ma perché a livello di pastorale generale ecclesiale il settore della pastorale vocazionale sembra ancora in posizioni di concreta emarginazione. Un paio di riscontri: nel progetto culturale della CEI, così intelligentemente concepito e gestito, quale posto è riservato alla cultura dell’evento vocazionale? E nell’organizzatissimo Convegno Ecclesiale di Verona, quanto si è parlato della realtà e della problematica vocazionale? In quale area? O non sarebbe forse stato il caso di dedicare un’area alla vocazione?
[23] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 35 a.
[24] Cf Ibidem, 33 d.
[25] Ibidem, 11 c.
[26] POSSIDIO, Vita di S. Agostino, 4, 2.
[27] AGOSTINO, Discorso 355,2.
[28] F. LAMBIASI, Agostino, fratello e maestro di formazione, in “Cor unum”, 3(2006), pp. 141-142.
[29] AGOSTINO, Confessioni, VI. 15. 25. Della donna e del figlio che nacque, come pure della fedeltà a questa sua relazione, Agostino parla in Confessioni, IV. 2. 2.
[30] “Da quod iubes et iube quod vis”.
[31] Nuove vocazioni, 37.
[32] Nella stessa linea va un altro tipo che confessa che nel tempo libero disegna paramenti sacerdotali, e sa tutto dei vari abbigliamenti liturgici, con le differenze tra un grado e l’altro.
[33] A. CENCINI, L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, Cinisello B. 2005, p. 78.
[34] Riprendo, pur in una visione d’insieme rinnovata, alcune suggestioni proposte in A. CENCINI, Il mondo dei desideri. Orientamenti per la guida spirituale, Milano 1998, pp. 46-55.
[35] E. BIANCHI, Il monaco, nel deserto di fronte alla città, in “Avvenire”, 28/7/1995, p. 15.
[36] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 35 d.
[37] A. GODIN, Psicologia delle esperienze religiose. Il desiderio e la realtà, Brescia 1983, p.194.
[38] Cf CENCINI, Vita consacrata, 226.
[39] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 35 d.