Accompagnatore… formatore… conosci te stesso!
L’aquila reale vola alta nel cielo, per cercare “frammenti di Amore, frammenti di Infinito”
Nel pensare a come impostare questa proposta di relazione a conclusione del nostro Forum sull’accompagnamento vocazionale nella vita consacrata, la prima e immediata sensazione che mi è venuta alla mente è stata quella di fare riferimento alla conclusione del libro “Itinerario all’Amore”; spero proprio non per un’intuizione narcisistica, ma perché mi sembrava giusto riprendere il “fil rouge” (così si esprime la lingua francese, quando vuole rendere l’idea della continuità), là dove quel libro si concludeva…
L’epilogo riportava la parabola di Leonardo da Vinci sull’aquila reale che, lasciando i suoi figli, punta diritta verso l’altissimo azzurro per incontrare il sole, mentre le sue ali maestose diventano un punto sempre più piccolo nel lontano orizzonte.
Ed essa faceva risuonare per tutti i nostri cuori un invito, una provocazione a vivere la grande e meravigliosa avventura a cui siamo chiamati: volare in alto, avvolti dalla luce e dal calore del sole, per cogliere “frammenti d’Amore… frammenti d’Infinito”[1].
Nel film, per la verità un po’ angosciante, di Luchino Visconti, “La caduta degli dei”, ambientato negli anni in cui l’astro nascente di Hitler nella Germania del nazionalsocialismo da una parte calamitava entusiasmo, dall’altra evocava terribili presagi… in un contesto di borghesia viscida, corrotta e arrivista, uno dei personaggi chiave della vicenda arriva a dire queste parole: “È giunto il momento in cui ogni regola morale viene seppellita; ma ad una élite, che siamo noi, viene data la possibilità di vivere come si vuole… Questo momento comincia adesso!”.
Parole cariche di una tenebrosa suggestione, perché la profezia del vivere come si vuole, di arrivare allo spietato pragmatismo dell’efficientismo, della pulizia etnica, del culto della razza, di un edonismo senza regole e punti di riferimento, non vale solo per gli inizi del nazismo della Germania hitleriana, ma una simile realtà continua ancor oggi ad avere la sua nefasta propaganda e la sua forza suggestiva, sotto altre formule e stili di vita.
Non dimentichiamoci del nostro “contesto di vita”…
Non dico cose assolutamente nuove, ma è sempre utile ricordarcele, per evitare false aspettative ed illusioni: sappiamo sempre con più chiarezza che la “cultura dell’immediato” è una cultura a progettuale, dove si preferisce sostituire il “finito”, cioè la realtà immediatamente sperimentabile, a piste di Infinito che ti pone di fronte orizzonti aperti e sconfinati, ma anche precari e provvisori e che oltretutto portano con sé la fatica ed il coraggio della ricerca[2].
Del resto, lo stile culturale è un po’ come l’aria che si respira: non si vede, non si tocca, eppure riempie il cuore e la mente, come l’aria pura o inquinata riempie i nostri polmoni…
Questa modalità di “vivere”, ma potremmo anche dire di “essere”, porta sulla via di un progressivo accartocciamento su se stessi, in una forma di individualismo esasperato fatto spesso di noia e di apatia (come troviamo nella narrativa di A. Moravia ed E. Morante), o forse di “nausea” della vita , come direbbe J.P. Sartre. Sì, è vero, c’è qualche sprazzo di solidarietà (vedi la “maratona di solidarietà: “Telethon” o altro… in cui RAI/Mediaset sono impegnate soprattutto a ridosso dei giorni natalizi…), ma verrebbe da chiedersi se queste aperture di solidarietà non avvengano più per lenire i propri sensi di colpa che per una reale e continua voglia di interesse per chi soffre…
È una cultura in cui uno dei messaggi più ricorrenti è: “Stai tranquillo, non scomporti; va tutto bene così!”. Come recuperare in questa logica a progettuale il senso e il coraggio del “progetto-amore”, la sfida di una vita vissuta in prima persona con una libertà che si coniuga con la responsabilità, come argutamente suggerisce lo psicologo Victor Frankl?[3]
Come non lasciarsi spersonalizzare da paure e sensi d’inferiorità che paralizzano ogni capacità di scelta e di progettazione, senza lasciarci irretire nella moda sempre più frequente che ti espropria da uno stile di pensare “personale ed originale”?
ACCOMPAGNATORE E FORMATORE …
SENTIERI DI CONVERGENZA
È importante che chi accompagna abbia chiaro il proprio progetto di vita: il confronto con l’“Io Ideale”
Personalmente trovo sempre di grande aiuto riscoprire il senso di una parola, andando a ripescarne le antiche radici etimologiche: la parola “pro-getto” deriva dal verbo latino “proicio” e dal suo participio passato “proiectum”. Tre sono i significati fondamentali di questo verbo, che potremmo poi applicare alla nostra ricerca sulla progettualità dell’amore:
– Il primo significato immediatamente intuibile è “gettare innanzi”. Come dire che tutta la nostra vita, a partire dall’hic et nunc di questo momento si “proietta in avanti” cercando spazi e spiragli di creatività, in un’apertura al futuro costruttiva e non angosciata. Un progetto di vita costruito sull’amore è quindi un antidoto a quella forma “culturale” di ripiegamento su se stessi, a quella ricerca esasperata della propria individualistica privacy. È il coraggio dell’uomo “pellegrino” che nella vita sa di avere una meta da cercare e da raggiungere, capace di camminare sulle orme dell’homo viator, suggestiva icona esistenziale che ci propone il filosofo Gabriel Marcel.
– Una seconda e significativa dimensione della parola “progetto” si rifà al senso del “costruire, dell’edificare qualcosa”. Avere un progetto esistenziale e valoriale significa quindi sentirsi progettisti ed architetti della propria esistenza. In questo senso è davvero singolare trovare un’analogia profonda con una modalità di intendere la “sapienza” biblica, la sapienza del cuore. Il testo del Siracide (38, 31-39, 11), la lega in maniera stupenda alla edificazione di qualcosa, casa o città, che domandi occhio penetrante e lungimirante e insieme capacità di valutazione concreta di necessità e costi, per portare a compimento la costruzione iniziata.
– Da ultimo c’è un significato del verbo “proicio” che si rivela quanto mai utile e interessante per intuire e plasmare una progettualità vissuta nella dimensione vocazionale dell’amore. Esso può anche significare “abbandonare, consegnare la propria esistenza a qualcuno”. Come non rintracciare la dinamica fondamentale di una “relazione amorosa basata radicalmente sulla fiducia”? Quella fiducia che ci viene descritta in Osea 11,1 ss, che ci presenta la rassicurante tenerezza di un guancia a guancia tra il bambino e la sua mamma o l’abbraccio protettivo di un padre verso il figlio, come metafora dell’amore di Dio per il suo popolo.
Del resto questa è anche la dinamica profonda della relazione amorosa: la capacità di consegnarsi senza riserve al cuore della persona amata, sapendo che lì tutto ciò che di più prezioso la nostra vita possiede è al sicuro. Un amore che sa entrare in una spirale di trascendenza quando diviene il sereno e semplice abbandono della propria vita nelle braccia di Dio, accolti dal suo occhio buono perché provvidente, sapendo che ciascuno di noi è prezioso ai suoi occhi (cf Is 43, 4).
La dimensione più profonda dell’amore è il sentirsi accettati e accolti così come siamo in una “tenerezza di reciprocità”, capace di stabilire una situazione rassicurante per il cuore, in cui ansie e paure segrete della vita si placano e si ricompongono in un maggior senso d’armonia.
Impariamo a confrontarci con la nostra capacità d’amare: scopriremo che anche il nostro è un amore ammalato… che cerca aiuto
Oggi più che mai si ha la sensazione di sentire parlare e “sparlare” dell’amore: non è più una parola sussurrata, ma “gridata”, mercificata, data in ostaggio alla audience televisiva…
Non vorremmo cadere in inutili sdolcinature e neppure in pretese poetiche fuori luogo: ma l’amore è una realtà delicata! E allora, perché non la si tratta con delicatezza? Perché è divenuta una realtà gridata, intrisa di chiacchiera banale e vuota, di cui ci è stato dato un continuo esempio nei reality e nei talk show dei salotti televisivi, oltre che nei gossip che quotidianamente imperversano.
Occorre trovare il tempo e forse il coraggio di metterci al capezzale di questo amore fragile, vulnerabile, profondamente ferito. È un amore ammalato perché c’è la paura d’amare.
Chi si prende questo rischio sa che la sua vita ne risulterà profondamente cambiata: sa che egli è chiamato a svuotarsi per fare posto al cuore che ama.
Vorrei qui ricordare una bella e arguta parabola buddista:
«Un guru, nel ricevere il suo ospite, gli versava del the nella tazza e continuava a versarne, finché la tazza fu così colma che il the tracimò oltre la tazza, oltre il piattino e si sparse tutto sulla fine tovaglia di seta…
L’ospite lo guardava allibito e non capiva come mai il guru non si rendesse conto di una così grande stupidaggine. Ad un certo punto, esasperato, sbottò a dire verso il guru: “Basta, non vedi che la tazza è colma e non può contenere neppure una goccia in più del tuo the?”
“Sì, lo vedo – rispose imperturbabile il guru – ma lo sto facendo apposta, perché questa tazza è come il tuo cuore: è troppo pieno di te stesso e delle tue cose; come puoi pretendere di poter accogliere anche una sola parola di quelle che io vorrei consegnarti?”»[4].
Cuori pieni fino al colmo, incapaci di accogliere, attaccati come gramigna a se stessi e alle proprie cose, invaghiti della propria persona o del proprio look… come possono essere disponibili a giocarsi e a perdersi per un altro? Questa è la sfida dell’accompagnatore e del formatore….
L’amore è ammalato perché profonda è la paura dell’intimità, nella quale si è costretti a svelarsi al di là della proprie maschere. Ma forse neppure noi stessi sappiamo veramente chi siamo, sotto la maschera di facciata e di ruolo con cui ci giochiamo nei rapporti con gli altri[5].
Un amore ammalato perché sente il peso della responsabilità in cui si è chiamati a “farsi carico della persona amata”, un peso che oggi crea ansia! È vero, non è facile custodire il cuore dell’altro, ma è una realtà esaltante e carica di stupore; significa imparare a fare delle scelte in prima persona, ad andare oltre la logica dell’onnipotenza infantile, cui tutto è permesso e concesso. Significa impegnarsi in un rapporto che affronta la sfida del tempo.
Un amore ammalato perché non si è disposti a fare dono della propria libertà: libertà di scelte, di tempo, di cuore…
La vera libertà non è vivere come dei “cani perduti senza collare”, parafrasando il titolo di un celebre romanzo dello scrittore francese Gilbert Cesbron.
Imparare a fare dono di se stessi, della propria libertà significa ritrovare un… oceano di libertà. Ma per giungere a questo occorre osare di prendersi il rischio di inoltrarsi in alto mare e abbandonare la moda del costeggiare i bordi della riva, veleggiando nel piccolo cabotaggio.
Un amore ammalato perché viene assorbito dalla noia della “routine” e dalla ripetitività della vita di tutti i giorni.
Eppure chi si ama veramente scopre che una fedeltà quotidiana è creatività e non ritualismo ripetitivo di bassa lega; scopre che l’amore, anche nella sua ferialità, è festa e quindi novità e non apatia e scoraggiamento…
In una parola, scopre che la bellezza del cuore umano, e in particolare del cuore amato, non è mai eguale a se stessa.
Accompagnatore e formatore, testimoni della FEDELTA’ semplice del “servo inutile”…
Questo aspetto contrasta radicalmente con l’incapacità di amare tipica del narcisista, così pervasiva ai nostri giorni….
C’è un’altra immagine che vorrei proporre e che ho sempre trovato significativa per esprimere una reale difficoltà a credere ad una vocazione all’amore come progetto di eternità: la definisco la “barriera del box di cristallo”. Cosa succede quando ci si trova rinchiusi in un box di cristallo? Certamente esso è trasparente, levigato, luccicante; dall’interno, però, tu puoi vedere gli altri, ma non puoi né sentirli né toccarli… In fondo la comunicazione è solo illusoria, si riduce ad un po’ di mimica, ma per il resto non riesci a far passare quello che il tuo cuore vive come sensazione, come sentimento, come affetto.
E così, pian piano, finiamo spesso col costruirci il nostro piccolo o grande box di cristallo dal quale “osserviamo” gli altri, ma nel quale il nostro cuore si raggela in un senso di solitudine e di vuoto sempre più accentuati, incapaci di commuoverci e di partecipare ai sentimenti altrui, sempre più in balia di un’indifferenza ottusa e di un cinismo che spesso rasenta la spietatezza.
Vorrei allora, per un momento, tornare su un aspetto che fa da colonna portante a tutto quello che si potrebbe dire e fare in tema di fedeltà: il fondamento è l’INTIMITÀ[6].
Non sto qui parlando di una forma di intimità sdolcinata, che ci viene proposta a fiumi nelle soap-operas, nelle telenovelas o nelle fiction iper romantiche… Non penso neppure ad un’intimità che sia frutto solamente di una relazione sessuale, ma che abbia drasticamente compresso ogni altra modalità di comunicare in profondità e trasparenza.
Penso a quella forma di intimità nella quale, in qualsiasi relazione, ci si possa sentire a proprio agio, si possa essere veramente se stessi, senza orpelli, frange e maschere…
Un’intimità che permetta di svelare il proprio cuore alla persona cui si vuole bene… Un’intimità che sia la sorgente viva di un’accoglienza totale dell’altro e che insieme permetta all’altro di camminare a piedi nudi nel nostro cuore, senza pungersi e farsi male, parafrasando una stupenda immagine di Henry Nouwen, psicologo e pastoralista americano[7].
La prima e fondamentale legge dell’intimità è quella di imparare a “decentrarsi”: ciò significa smetterla una buona volta di prenderci sempre troppo sul serio, di pensare solo a noi stessi, alla nostra salute, al nostro corpo, alle nostre cose da fare, senza vedere più alcuno spiraglio della realtà vitale che c’è attorno a noi. Si tratta in fondo di non continuare a restare rigidamente legati al proprio schema di relazioni con gli altri, ma di saperlo adattare con flessibilità alle situazioni come ci si propongono e alle persone per quello che sono e non per quello che noi vorremmo esse fossero.
È il coraggio di sciogliere la vela della nostra barca senza lasciarla gonfiare dal vento delle nostalgie passate o dalla brezza delle illusioni future.
La seconda ed essenziale legge dell’intimità è la gioia di “donare” tutto se stessi alla persona amata, la voglia di andare finalmente oltre la propria privacy, oltre lo stretto calcolo del “questo te lo do e questo me lo tengo io…”
È un rivivere la bellissima esperienza che ci raccontano gli Atti degli Apostoli, nel capitolo terzo, quando Pietro e Giovanni, incontrando uno storpio che chiede loro la carità alla porta bella del tempio, gli dicono: “Non abbiamo né oro né argento, ma quello che abbiamo te lo diamo” (cf At 3,6).
E infine la terza legge dell’intimità è il coraggio di “mettere in gioco” la propria esistenza non part-time, non selezionando segmenti di vita o particolari élites di persone, ma con radicalità e totalità; è il rifiuto della moda culturale del “piccolo cabotaggio”, cui già abbiamo fatto riferimento in apertura di articolo.
Solo nella capacità di imparare a fare nostre queste tre piste di vita e di relazione, potremmo essere come i “pescatori di perle” che si tuffano nella profondità dell’oceano e resistono in apnea, per portare alla superficie le perle più belle e preziose, nascoste in qualche anfratto corallino del fondo del mare[8].
Un’icona-sfida per l’animatore ed il formatore: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…” (Lc 10, 30-37)
Anche in questo caso ci aiuta l’etimologia della parola latina “proximus”!
– Prossimo è colui che è vicinissimo: significa un profondo investimento di … fiducia.
– Prossimo è ciò che è conveniente scegliere: ciò comporta imparare a fare opportunamente la nostra… scelta.
– Prossimo è il somigliante: e quindi entrano in gioco tutte le dinamiche della… identificazione.
– Prossimo è il quotidiano: nella ferialità si forgia il vero… impegno fedele.
In tutto questo possiamo veramente imparare molto da Gesù:
– Gesù dà fiducia a coloro che incontra (vedi i suoi discepoli) e parte sempre da essa (per es. nei miracoli).
– Gesù è colui che invita a scegliere la parte migliore: il riferimento a Maria di Betania diventa esplicito e ovvio!
– Gesù è colui che si propone come modello di identificazione: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore”.
– Gesù sa vivere e proporre la ferialità: è interessante notare che il vangelo di Marco, proprio in apertura, ci prospetti una giornata intera di Gesù passata a Cafarnao, con dei criteri precisi: la predicazione e l’incontro con la gente, soprattutto con i malati; il riposo nella casa della suocera di Pietro; lo stare con i suoi, a parte; il momento dell’a tu per tu solitario con il Padre…
Tre sentieri luminosi per l’animatore e il formatore
1. La via dell’accoglienza
Creare la dolce intimità ove si possa camminare a piedi nudi…
Dice Henry Nouwen, psicologo e pastoralista americano, molto conosciuto anche in Italia per le sue opere pubblicate dalla Queriniana: “A volte immagino che il mio cuore sia come un posto irto di aghi e di spilli. Come accogliere qualcuno se non vi può riposare pienamente e dolcemente?”
Un cuore agitato da preoccupazioni, rabbia e gelosia, causa delle ferite a chi vi entra. Devo creare una zona libera in me, per poter invitare altri ad entrarvi e guarire. La compassione richiede un’autocritica minuziosa che conduca ad una dolcezza intima. È un’interiorità dolce, un cuore di carne e non di pietra, uno spazio dove si può camminare a piedi nudi…[9]
Le resistenze del cuore
Anche Gesù aveva puntato con chiarezza e decisione a far vivere ai suoi discepoli questa dimensione del cuore accogliente: se ne fa interprete e guida il vangelo di Marco, con alcune precise annotazioni che vorrei qui brevemente richiamare.
– In Mc 2, 25 si legge: “E voi non avete mai letto quello che fece Davide, un giorno che si trovò in difficoltà perché lui e i suoi avevano fame?” Gesù si trova di fronte al problema del sabato, e il problema dell’ostilità e del rifiuto dei farisei nei suoi confronti diviene ancora più intenso e profondo, perché i loro schemi d’interpretazione della realtà sono rigidi. Viene prima la legge, vengono innanzi tutto le norme e le convenzioni in cui rifugiarsi e non c’è alcun rispetto per la situazione concreta, dolente e sofferente dell’uomo.
– Troviamo un’altra preziosa indicazione, di una possibile resistenza del cuore ad una relazione accogliente, nella parabola del seme e del seminatore (Mc 4, 3-8). In particolare è assai significativa la spiegazione che Gesù stesso dà di questa parabola (Mc 4, 14-20), spiegazione della quale vorrei riprendere un passaggio: quello relativo al seme caduto fra le spine. I semi caduti tra le spine indicano altre persone ancora che ascoltano la Parola, ma poi si lasciano prendere dalle preoccupazioni, dai piaceri della ricchezza e da tante altre passioni: tutto questo soffoca la parola di Dio, e così essa rimane senza frutto (Mc 4, 18-19).
È significativo il passaggio tradotto con “preoccupazioni”; la parola greca utilizzata è “mérimnai”, che tradotta letteralmente significa le angustie del momento presente; ecco, allora, il pericolo di cadere in una frantumazione nel fare e in una logica solo efficientista. Per analogia, potremmo dire che il seme della relazione carica di umanità viene soffocato dai troppi affannosi impegni e dalle molteplici preoccupazioni; non si arriva a superare una certa esteriorità e convenzionalità di rapporti.
– Infine, in Mc 4,24-25 troviamo l’ulteriore indicazione di una resistenza alla relazione accogliente: quella di un cuore mediocre e angusto. “Diceva loro: fate attenzione a quello che udite; con la stessa misura con la quale misurate sarete misurati anche voi, anzi vi sarà dato di più. Poiché a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. È chiaro, allora, il monito per cui chi dà poco riceve poco. Questo avviene quando il minimo si fa regola di vita, quando ci si accontenta e ci si infila nel vicolo cieco della mediocrità: è un cuore asfittico, che soffre davvero di sclerocardia…
Tradotto in termini più esistenziali e psicologici, noi possiamo trovare una profonda sintonia con quanto si è appena visto descritto nella parola di Dio. La personalità inconsistente, dal punto di vista psicologico, cioè disarmonica in se stessa, male integrata nel vivere il mondo dei valori che vengono minati alla radice dalle spinte di bisogni inconsci che cercano gratificazione, quali la dipendenza affettiva o un bisogno di autonomia esagerata che si fa autosufficienza, o l’aggressività o la necessità di una gratificazione sessuale o una profonda disistima di se stessi, questa personalità non è in grado di aprirsi ad una relazione vera, autentica, trasparente, sincera ed accogliente.
I suoi filtri di ricezione degli altri sono… intasati e quindi distorce malamente il senso e la qualità dei rapporti che le vengono offerti; è una personalità chiusa e congelata (“frozen!”) in una forma di individualismo esasperato; al massimo si presta a vivere una vita di relazioni a compartimenti stagni, disunita, poco omogenea e fatta spesso di «facce da circostanza».
È un modo di vivere e di essere in cui ci si sente perennemente minacciati da una relazione che possa diventare intima e profonda; l’intimità spaventa un tipo di personalità di questo genere, perché svela le sue fragilità e le sue insicurezze profonde, che non vuole né vedere né accettare.
La conseguenza di tutto questo è un senso d’inquietudine costante e di lacerazione interiore, segnata da sensi di frustrazione, di ansia e di colpa. “Chi spartisce la solitudine senza timore, considera ogni suolo sacro” (H. Nouwen).
2. La via della gratuità
La gratuità non è impaziente, non vuole dettare i ritmi e i tempi secondo le proprie personali aspettative o cadere nella trappola del “tutto e subito”! (cf la “parabola del fico sterile” in Lc 13, 6-9).
La gratuità non è dominante, nel senso di pensare di diventare per l’altro il… guru illuminato, che a tutto sa rispondere e che tutto può indirizzare…
Gesù, in questo senso, lascia davvero liberi i suoi discepoli, dopo il difficile discorso sul pane di vita: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6, 67).
La gratuità non sempre è reciprocità e “grazie”! Certo, si vorrebbe che ci fosse un segno di riconoscimento di quello che noi possiamo fare per l’altro, ma non sempre avviene così; e tanti genitori lo sperimentano, anche in maniera drammatica, con i propri figli…
Come non ricordare il fatto raccontato nel vangelo della XXVIII domenica (Lc 17, 11-19), in cui dieci lebbrosi sono guariti e uno solo ritorna per un grazie…?
3. La via della comunicazione
Su quest’aspetto avremo occasione di ritornare in maniera più profonda, per cogliere che cosa significhi veramente una comunicazione nell’ambito spirituale. Vorrei solo suggerire qualche flash come spunto di riflessione, ripromettendoci, in seguito, di svilupparlo oltre.
* La vera comunicazione nasce dal silenzio: Gesù la prepara nel silenzio della preghiera (Lc 6, 12)[10].
* La comunicazione che sa scendere in profondità, ha bisogno di tempo: come il segreto messianico in Marco, che viene pian piano svelato e ancora più lentamente compreso…
* In una comunicazione spirituale luci ed ombre si combinano insieme: non tutto può essere chiaro e comprensibile in tempi brevi e senza lo sforzo di una ricerca… È la costante dialettica di manifestazione e di nascondimento che troviamo anche nel vangelo: tra Tabor e Getsemani…
* Nella comunicazione la trasparenza delle realtà e delle scelte, come anche la capacità di sciogliere il nodo dei conflitti e dei problemi, non è mai assoluta: l’aiuto dello Spirito Santo, invocato con perseveranza, aiuta a… cogliere la verità tutta intera! (Gv 16,13).
* La comunicazione che sa veramente “accompagnare”… è coinvolgente; essa quindi è fatta di incontri personali in cui la persona viene svelata a se stessa, ma anche profondamente rispettata e accettata per quella che è! Nel vangelo Nicodemo e la Samaritana, l’adultera e la peccatrice in casa di Simone il lebbroso, Maddalena e Pietro sono trattati da Gesù in un modo e con uno stile profondamente diverso, proprio perché le loro storie e le loro personalità sono profondamente diverse…
ACCOMPAGNATORE E FORMATORE…SENTIERI DIVERSIFICATI
La specificità dell’accompagnatore vocazionale: l’icona del Battista
Credo che le caratteristiche enunciate sopra siano già abbastanza indicative della modalità con cui un accompagnatore vocazionale si colloca nel suo essere simile al Battista, “apripista” di Qualcuno che è più grande di lui…
Ecco, allora, alcune modalità specifiche che lo possono meglio qualificare, rispetto al formatore.
È l’arte della mediazione: è questa che noi troviamo nelle prime chiamate dei discepoli nei vangeli, dove essi si fanno il “passaparola” nel raccontarsi come hanno incontrato Gesù, mediatori di una chiamata che, attraverso ciascuno di loro, rifluisce sugli altri. Ma è soprattutto lui, l’amico dello Sposo, il Battista, il solitario predicatore del deserto, che indica chi si deve veramente seguire (anche rinunciando ai “suoi” discepoli!); che si propone come apripista di un sentiero significativo, anche se ripido e magari faticoso, come quello della chiamata; che si colloca come ponte tra una sponda (se stesso) e l’altra (Gesù). Ciò significa non gestire in maniera individualistica il cammino dell’accompagnamento, non sostituirsi alle scelte che un giovane chiamato deve assumersi lui, in prima persona, senza facili deleghe a chi lo deresponsabilizza. Fondamentale, tuttavia, è la capacità della gratuità del proprio lavoro, del distacco da un interesse personale per il bene di colui che è accompagnato, anche se la scelta può portare su di una strada diversa da quella umanamente desiderata o sognata in proprio… (Tutti noi conosciamo questa dinamica “affettiva”).
«Il ministero dell’accompagnatore vocazionale è ministero umile, di quella umiltà serena e intelligente che nasce dalla libertà dello Spirito, e si esprime con il coraggio dell’ascolto, dell’amore e del dialogo» (NVNE 34/a).
È l’arte di divenire cercatore, scopritore di perle preziose, di quel tesoro che ogni giovane porta nel proprio cuore, nella propria storia, nei propri sogni e desideri. Ciò significa saperlo valorizzare per quello che egli è, nelle sue capacità, nei doni o nelle virtù che possiede, senza guardare ad altri aspetti esteriori ed effimeri… Questo, concretamente, diviene il dono di un’accoglienza totale e globale, un’accoglienza vissuta con tutto il cuore, che rivela al giovane lo stile con cui il Padre, l’Abbà, ci ha creati come persone uniche e originali, ci accompagna e ci “custodisce come la pupilla dei suoi occhi”, come tesori preziosi da tenere con delicatezza nel palmo della mano.
È l’arte di vivere con un cuore orante, capace di pazienza, ma anche di speranza. Ciò significa cogliere e leggere i passi di Dio nella storia di chi viene accompagnato, aiutare una dimestichezza di lettura della Parola stessa di Dio, che aiuta a decodificare i segni di questa presenza silenziosa e discreta, eppure viva in ogni situazione di “chiamata”. È l’arte della pazienza e della speranza, perché sa rispettare la storia del giovane accompagnato, sa incoraggiare i suoi passi spesso dubbiosi e trepidanti; sa interpretare con delicatezza le situazioni diverse di consolazione o di desolazione che egli attraversa, aiutandone una lettura e una decodificazione. Ma ciò richiede di conoscere i segreti del proprio cuore…
La specificità del formatore: l’icona del “vasaio” che plasma il vaso sul tornio (Ger 18)
Il formatore è ovviamente chiamato a distinguersi e a completare, in continuità ma anche in maniera propria, il lavoro iniziato dall’accompagnatore.
Quel giovane e quella giovane che entrano in un cammino specifico di vita consacrata, è importante che sappiano trovare da una parte qualcuno o qualcuna che sia veramente padre/madre, per aiutare con amore e con rispetto il processo di crescita della sua persona, ma che sia anche percepito, pur nella specificità dei ruoli, amico-fratello/sorella, in una vicinanza e sintonia di intenti, che è la dimensione propria della “compagnia”. È la ricerca, non calata dall’alto, di una conoscenza maggiore di se stesso, delle sue motivazioni, delle sue dinamiche fondamentali come persona, e insieme anche di un atteggiamento interiore e spirituale che si traduce in una virtù più robusta, fedele e sicura, anche se il formatore/la formatrice, alla luce della propria esperienza personale, non si sente onnipotente, non possiede risposte per tutto, né chissà quali rivelazioni o suggestioni dello Spirito da offrire, ma aiuta, guida, indica la via di una ricerca di cui anche il formatore/formatrice è protagonista in prima persona, per se stesso e come compagno di cammino.
Sintetizzerei tutto questo in alcune battute semplici, ma spero chiare ed efficaci da sperimentare nel difficile ma indispensabile “servizio della formazione”[11].
* Il formatore è colui che sa mediare la forza e la luce dello Spirito nel “plasmare” con delicatezza e rispetto, il cammino di quel giovane che a lui affida e confida la propria storia di vita. Ciò significa mettere in luce, in prima istanza, la straordinaria forza della “chiamata” del Signore, per verificarla alla luce di una dinamica di “conversione”.
È una piattaforma iniziale che non può mai essere né trascurata né dimenticata, sulla quale si possono confrontare gioie, difficoltà contingenti e disagi relazionali…[12]
* È un cammino di “purificazione” per costruire sul fondamento di “motivazioni vere”, rese più autentiche da una rilettura incisiva e profonda, alla luce della storia personale e spirituale della chiamata vocazionale. Solo motivazioni così purificate possono permettere stili di vita fatti di perseveranza e di partecipazione attiva, nello sforzo anche di tenere sotto controllo gli impulsi disordinati. Permettono, quindi, di spendere la propria vita per gli altri e di donare le proprie energie ad un progetto comune. Nella persona consacrata le motivazioni di perseveranza sono analoghe a chi ha scelto la neppur facile via della vita di coppia e di genitori, che gestiscono lavoro e famiglia, spesso con grande sacrificio personale.
* È l’aiuto per approfondire le linee di un sentiero, non sempre facile da percorrere, tra “verità di sé e idealità”: sappiamo tutti che c’è uno scarto che ha forme di percezione e di modalità diverse di apparire nelle varie età della vita, tra ciò che vorrei essere e ciò che realmente sono, e quindi posso vivere e compiere; questo gap, soprattutto per la persona giovane, se è giusto che ci sia (come nella fase di ogni innamoramento) è altrettanto opportuno che venga interiormente chiarificato. Ciò aiuta a cogliere con maggior chiarezza cosa è possibile fare e donare e soprattutto collegare insieme, in una sinergia feconda, il proprio passato con il presente ed il futuro. Questa è la dinamica della vera crescita umana e spirituale![13]
* È il rispetto profondo per la persona reale che il giovane in formazione è, nella sintesi concreta della sua storia evolutiva e di relazione. Oggi è determinante cogliere e aiutare a rendere consapevoli i giovani della loro “storia relazionale”, frutto di incontri, di mediazioni, di persone per ciascuno assolutamente importanti e significative, anche se talvolta non riconosciute o addirittura represse… È questa storia relazionale che sarà sempre più spesso determinante nelle sue percezioni e nelle sue scelte di vita, favorendo un ritmo di crescita, oppure momenti di fissazione, blocco o regressione. L’esperienza e lo studio della psicologia intersoggettiva e inter-relazionale ci suggeriscono che la gestione dei problemi che s’incontrano nel corso della propria esistenza, ha a che fare parecchio con queste “modalità arcaiche” vissute nell’infanzia o nell’adolescenza. Spesso è proprio la conoscenza della propria storia relazionale che aiuta la liberazione di risorse pulite e spendibili in ogni circostanza, piuttosto che una limitazione di esse, che blocca la crescita e disturba il fluire di queste energie. Tutto questo si traduce anche in un rapporto più libero e profondo di fede e di preghiera, che vive e si nutre essa stessa di una profonda dinamica relazionale con il Signore Gesù[14]
* Il formatore/la formatrice sono chiamati ad essere uomini e donne dal “cuore sapienziale”. Da quello che sin qui abbiamo cercato di evidenziare, possiamo pensare al servizio della formazione come a quello di un “artista” impegnato a plasmare qualcosa di molto prezioso: ecco l’icona del “vasaio” in Ger 18! Un artista dal “cuore sapienziale” capace di proporre…
…direzionalità: cioè la finalizzazione del cammino spirituale.
Esemplificando: per Ignazio di Loyola potrebbe essere la “elezione”, cioè la capacità di discernere e operare scelte in base ai criteri di “principio e fondamento” dei suoi Esercizi Spirituali: la maggior gloria di Dio. Per Giovanni della Croce potrà essere la “contemplazione”, che non è atteggiamento di pura passività, ma la capacità di salire sul Tabor per fermarsi estasiati e stupiti di fronte al Signore e scendere poi per la missione tra la gente.
…una direzionalità intesa come “trasformazione della mente” (Rm 12, 2), una trasformazione globale di mente-cuore-volontà che cerca di rompere le resistenze a percepire la realtà nostra e altrui in termini oggettivi. (Tutti noi conosciamo le distorsioni percettive, cioè la mancanza di obiettività, anche nel nostro rapporto con Dio).
…una capacità di “guardare in alto”, al di là di se stessi, mantenendo il cuore di un giovane aperto verso orizzonti di infinito…
Frankl chiama questa dimensione la riscoperta di una “psicologia delle altezze”, che non si contrappone ma piuttosto integra il contributo prezioso della psicologia del profondo[15]. Infatti, ritornando alla suggestione biblica, in Ezechiele 27,8 troviamo un’immagine estremamente suggestiva: il sapiente è un nocchiero capace di orientare la barca, guardando alla bussola nella bufera e scrutando le stelle nelle notti chiare. Per contrasto, Isaia 3, 3 ci dice che cosa un sapiente non dovrebbe fare: parlando della situazione di anarchia in cui vive Gerusalemme, paragona il falso sapiente a un “mago”, che dai volteggi della sua bacchetta magica estrae un illusionismo fatuo e vuoto…
…un aiuto concreto a far trovare continuità in chi ha perso il senso storico e soffre di amnesia del passato e nel dare speranza in chi non riesce a trovare il senso teologico (e anche teleologico) della vita. Saremo noi in grado di vivere questo impegno?
La nostra fragile fedeltà all’amore-servizio della formazione trova radici in un Dio che è sempre fedele… In questo non trovo parole più delicate e intense di quelle che ci propone Isaia al cap. 43, 1-5:
«Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe,
che ti ha plasmato, o Israele:
“Non temere, perché io ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,
i fiumi non ti sommergeranno;
se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,
la fiamma non ti potrà bruciare;
poiché io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore.
Io do l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto, l’Etiopia e Seba al tuo posto.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo,
do uomini al tuo posto e nazioni in cambio della tua vita.
Non temere, perché io sono con te!”».
«Se vuoi costruire un’imbarcazione, non preoccuparti tanto di radunare uomini forti e robusti per raccogliere legname, preparare attrezzi, affidare incarichi e distribuire il lavoro; vedi, piuttosto, di risvegliare in loro la nostalgia del mare e della sua sconfinata grandezza…»
(A. de Saint-Exupéry)
Note
[1] DAL MOLIN N., Itinerario all’Amore, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994 (7a edizione).
[2] MANENTI A., Vivere gli Ideali/1: tra paura e desiderio, Dehoniane, Bologna 1988; Vivere gli ideali/2: tra senso posto e senso dato, Dehoniane, Bologna 2003.
[3] FRANKL V.E., Alla ricerca di un significato della vita, Mursia, Milano 1982.
[4] VAGLIASINDI L. (a cura di), La morale della favola, Gribaudi, Milano 1983.
[5] DAL MOLIN N., Io, senza maschere, “Se vuoi”, Apostoline-Castelgandolfo 1991, pp. 41-45.
[6] NOUWEN H.J.M., Nella casa della vita: dall’angoscia all’amore, Queriniana, Brescia 1996.
[7] NOUWEN H.J.M., Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia 1980; pp. 59-99.
[8] DACQUINO G., Bisogno d’amore: superare l’immaturità psicoaffettiva, Mondadori, Milano 2002.
[9] NOUWEN H.J.M., La voce dell’amore: itinerario dalle profondità dell’angoscia ad una nuova fiducia, Queriniana, Brescia 1997.
[10] È molto utile, per la comprensione di questo aspetto della vita spirituale, il saggio di SPIDLÌK TOMÀS, Amate il silenzio, Gribaudi, Milano 2003.
[11] Alcune di queste suggestioni qui presentate sono state mutuate da una serie di articoli significativi, pubblicati nella Rivista “Tredimensioni”: CENCINI A., Formazione, parola magica, 1 (2004), pp. 277-295; NARDELLO M.,Uno schema di intervento educativo per la formazione dei seminaristi, 2 (2005), pp. 93-99; TRIANI P., La struttura dinamica della formazione, 2 (2005), pp. 236-248.
[12] FONTANA U., La vita tra realtà e ideale, in “Consacrazione e Servizio”, n. 10/Ottobre 2007, pp. 55-56.
[13]Ibidem, pp. 59-60.
[14] Ibidem, pp. 56-57.
[15] FRANKL V.E., Alla ricerca di un significato della vita, Mursia, Milano 1974, pp. 209-214.