L’animatore vocazionale “anima” della proposta vocazionale
Mi sembra necessario premettere allo sviluppo del tema affidatomi alcune considerazioni essenziali riguardo alla vita[1] che abbiamo ricevuta in dono da Dio nella creazione e nella redenzione, e alla mentalità del nostro tempo, che tocca in modo incisivo la nostra vita di discepoli del Signore. Chiarire questo è una premessa indispensabile per qualsiasi discorso sulla vocazione. Credo che anche per riflettere adeguatamente sulla figura dell’animatore vocazionale occorra partire dalla vita. Ma di quale vita parliamo? Il fondamento del cristiano è la vita ricevuta. Nella Scrittura appare con evidenza indiscussa che la vita è una realtà che appartiene solo ed esclusivamente a Dio: non c’è niente di vivo se non viene vivificato da Dio. E Dio ha una vita totalmente personalizzata: non c’è nessuna energia amorfa ed impersonale al di fuori di Dio, ma tutta la vita è in Dio e tutto ciò che è in Dio è la vita. La vita ha tre volti: quello del Padre, del Figlio e dello Spirito santo: “L’essenza della natura divina è l’amore e l’amore è la vita di Dio” – ci ricorda Gregorio di Nissa – amore personalizzato nella comunione delle tre divine persone. Dio è amore. Mai come in questo tempo abbiamo ripetuto così frequentemente questa parola giovannea e sappiamo che in Dio l’amore è assolutamente personalizzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito. Per noi cristiani non c’è niente di astratto e di impersonale, perché la vita è la comunione della Santissima Trinità. Questo è il fondamento di tutto ciò che esiste e non esiste niente che non abbia sorgente in Dio. E Dio ha creato l’uomo donandogli il soffio della sua vita. Questo comporta l’affermazione di due dati di fatto:
1. Dio, in modo personale, cioè attraverso una sua persona precisa, lo Spirito santo, donatore della vita, crea l’uomo comunicandogli la sua vita, che è l’amore. Nella creazione viene partecipata all’uomo la vita stessa di Dio, il suo soffio vitale.
2. L’uomo non è la sorgente della vita, ma la riceve. Un’affermazione semplice, ma non scontata, perché tutte le deviazioni che il cristianesimo ha registrato nel corso della storia dell’umanità vengono da quest’equivoco sulla vita. Infatti l’uomo vorrebbe appropriarsi della vita, come se ne fosse la fonte, ma non lo è; l’uomo è una persona a cui è stata data la vita e non può darsela da solo. Ma può sperperarla, distruggerla, perderla, pervertirla, manipolarla… e quando lo fa si orienta verso la morte.
Lo verifichiamo ogni volta che trattiamo della vita a qualsiasi livello e, se lo facciamo senza riferimento alla fonte, ci orientiamo alla morte. Anche quando, come cristiani, vogliamo difendere la vita, se lo facciamo senza un chiaro riferimento al Donatore della vita, a Dio nostro Creatore e Padre, facciamo solo dei danni. Questione delicatissima, questa della vita, che tocca profondamente la nostra fede.
Questo per quanto riguarda la vita creata. Ma occorre considerare anche la vita redenta. Se già era grande e meravigliosa la bellezza dell’uomo creato, come ci ricordano i Padri, quanto più sarà la bellezza dell’uomo redento!
La vita redenta la riceviamo in un sacramento: il Battesimo. Perciò la vita che riceviamo è della stessa natura del sacramento con il quale l’abbiamo ricevuta. La vita che riceviamo nel Battesimo è segnata sostanzialmente dal modo con cui l’abbiamo ricevuta e quel modo è anche il contenuto. Riceviamo la vita in una liturgia, nella convocazione dei discepoli del Signore. In questa sinassi liturgica riceviamo la vita in Cristo nell’economia sacramentale, all’interno della Chiesa, che è la comunione delle persone, riflesso della comunione trinitaria nella storia.
La vita redenta, perciò, si realizza in pienezza solo in modo comunionale, ecclesiale, perché la sua origine è nella comunione trinitaria. Lo Spirito santo non ci dà la vita in modo separato, individualistico, ma in modo comunionale, come Chiesa, come Corpo di Cristo.
Il Battesimo attinge alla vita che Cristo ci ha ridonato con la sua Pasqua, è la vita della comunione con Dio. Con l’incarnazione del Figlio di Dio, l’amore è entrato nella storia e si è realizzato nella Pasqua, cioè è passato attraverso la morte per redimere la vita creata, che si era pervertita, separandosi dalla fonte. Dopo il peccato, la nostra vita si realizza nel modo pasquale: per amare veramente passiamo necessariamente attraverso una continua morte. Ma è una morte che genera vita, perché unita alla vita di Cristo, che ha reso filiale la natura umana.
Con il Battesimo, riceviamo il dono di essere figli nel Figlio, partecipiamo alla morte e alla risurrezione di Cristo, che ha riscattato la natura umana dal peccato e l’ha legata indissolubilmente alla vita divina. La vita che riceviamo, perciò, è scandita sul ritmo della Pasqua. La cosa più naturale in questa vita nuova è la Pasqua, il triduo pasquale, perché così la comunione di Dio si è realizzata nella storia. E non esiste nessuna testimonianza di santi che dica possibile una vita senza la Pasqua e senza la comunione. Ogni santo ha passato la sua pasqua e ha collaborato a rendere la Chiesa più trasparente della sua origine trinitaria.
Per conoscere la vita divina che ci è stata donata e afferrarne il mistero, è necessaria un’intelligenza comunionale. Non si può conoscerla da soli: “la conoscenza – dice Solov’ov – è ecclesiale”. Come ricorda san Paolo: “Insieme a tutti i santi possiate conoscere l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità del mistero” (Ef 3,18). Chi non ha quest’esperienza ecclesiale e comunionale non può accedere alla conoscenza della vita, perché rimangono solo due possibili vie: o ci si limiterà a pensarla in modo astratto, impersonale e ideologico, arrivando così allo scontro con la vita concreta, oppure la si scambierà con quella vita che è legata al corpo morto, convincendoci che questa vita che viviamo in carne e ossa è la totalità della nostra vita, e non c’è altro.
La tentazione più grande della vita cristiana è non accettare il percorso pasquale, volerlo mettere tra parentesi e separare così la vita dalla sua fonte. Il nostro corpo è parte di quest’economia pasquale, che nel Battesimo muore e risuscita con Cristo. Il nostro corpo viene salvato per la risurrezione, perciò con il mio corpo vivo la vita nuova in Cristo, che, se amo, si consuma e muore per amore… e risuscita nell’amore. Perché l’amore rimane.
Noi non abbiamo due vite, ma una sola: io sono in Cristo e Cristo è in me. Quando dico io sono, dico io sono in Cristo. Nel Battesimo io rimango nel mio corpo, che ormai è legato alla vita. Per entrare in comunione con Dio abbiamo questa carne, così fragile che morirà, ma in Cristo questo corpo sarà per sempre nella vita e alla fine, nella sinassi totale, questo mio corpo parteciperà definitivamente della vita risorta.
Comprendiamo allora come non sia possibile parlare di vocazione cristiana senza chiarire il fondamento della vita e senza riferirci costantemente ai misteri della nostra fede: dalla vita creata, che ha origine nel mistero trinitario, al rifiuto della vita che è il peccato, all’incarnazione di Cristo e alla sua Pasqua, che ci ha donato la vita nuova, redenta. Dalla vita liturgica e sacramentale della Chiesa fino al compimento escatologico.
La mentalità contemporanea, che si ritiene padrona della vita e rifiuta ogni riferimento al Donatore, esprime, all’opposto della visione cristiana, quella cultura dell’autosalvezza, dell’autoreferenzialità, quel self, così ricorrente nel pensiero e nel linguaggio della new age, che non può generare vocazioni alla vita in Cristo, non può generare vocazioni all’amore e al dono totale di sé.
Perciò non possiamo operare una vera animazione vocazionale senza evangelizzare la vita, senza chiarirne il fondamento, l’origine divina, la fonte trinitaria; senza una conoscenza della vita che attinga alla sapienza ecclesiale dei santi. L’equivoco è pericoloso, proprio perché si può diventare cristiani, o seguire il Signore in una vita di speciale consacrazione, anche continuando a pensare la vita senza riferimento alla fonte e cercando la realizzazione di se stessi, il che ci ha portato sull’orlo del disastro.
Non si può seguire il Signore, che è la pienezza della vita, per inquadrarsi nella sicurezza di uno schema né per provare delle emozioni sentimentali o per esercitarsi in teorie pur interessanti, ma astratte e lontane dalla vita. I giovani non seguiranno una teoria: i più fragili potrebbero seguire una norma di vita, ma non durerebbero a lungo senza snaturarsi. I più sani vanno altrove a cercare la vita, forse senza trovarla. Il nostro compito è testimoniare la bellezza di una relazione vitale con Cristo, che attinge direttamente alla fonte e rende splendida la nostra vita. Ci ricorda Giovanni Paolo II che si può seguire solo una persona viva, di cui ho fatto esperienza vitale proprio nella comunione ecclesiale, non un’idea astratta: “No, non una formula ci salverà, ma una Persona e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi!” (cf NMI 29).
Essere animatori della vita come vocazione significa, perciò, essere fortemente ancorati alla vita che è Cristo, profondamente uniti al suo grande “sì” al Padre nei confronti di questa umanità, in modo da esserne testimoni trasparenti e credibili. «Il “sì” che continuamente e fedelmente Dio pronuncia sull’uomo trova compimento nel “sì” con cui il credente risponde ogni giorno con la fede nella Parola di verità, con la speranza della definitiva sconfitta del male e della morte, con l’amore nei confronti della vita, di ogni persona, del mondo plasmato dalle mani di Dio»[2].
Profilo dell’animatore vocazionale
Dopo aver accennato ai rischi che corre il pensiero cristiano sulla vita, mi pare importante descrivere il profilo dell’animatore vocazionale chiarendo in che cosa consiste l’animazione vocazionale oggi. Lo prendo da una lettera con cui un vecchio monaco risponde ad una lettera di una madre generale, preoccupata perché non ci sono sufficienti vocazioni per mantenere le opere apostoliche dell’Istituto e nemmeno per la sopravvivenza stessa dell’Istituto nel tempo. Ecco qualche stralcio della lettera:
“Il problema delle vocazioni è gravissimo e affligge tutti, non solo lei.(…) Ma, le dico sinceramente, non penso che sia spirituale e che giovi preoccuparsi troppo. Il Signore ci ha raccomandato di pregare, ma non ci ha detto di agitarci e di intraprendere troppe iniziative per trovare le vocazioni. Sa, non sono molto convinto che sia davvero buono e che produca frutto tutto questo attivismo per una sorta di pastorale vocazionale. È la vita ad attirare. Le vocazioni possono essere suscitate da tante realtà eterogenee: povertà, guerre, filantropia, utopia sociologica, voglia e bisogno di sicurezza in un’istituzione… Ma nel senso stretto, spirituale, è la vita religiosa che deve attirare, far innamorare e suscitare il desiderio di vivere così. Ogni altro motivo da cui può prendere le mosse una vocazione deve essere verificato su questo metro. Si tratta dello stile di vita, o piuttosto del contenuto, cioè della qualità della vita. A noi tocca vivere pienamente, realizzare la bellezza della vita con Dio, con quelli che condividono la stessa chiamata ad attirare sulla porta nuove vocazioni (…) Se le persone non hanno ancora incontrato Cristo, se il nostro annuncio di lui è troppo astratto, superficiale, troppo nostro e non fa veramente entrare Cristo in mezzo alla gente, come possono sentirsi chiamati se ancora non hanno visto il Signore, non l’hanno sentito? (…) Sono sempre più convinto che una certa inculturazione della nostra fede è arrivata al capolinea, si è esaurita e con essa uno stile, un modo della vita religiosa e sacerdotale. Ma le soluzioni – quelle che gioveranno alla salvezza delle persone – non le troveremo semplicemente reagendo. Le soluzioni, quelle vere, saranno ispirate dallo Spirito santo, e chi le ascolta ed è in grado di leggere i segni dei tempi, potrà rispondere e trovare vie nuove. (…) Occorre cercare come scaldare il cuore dei giovani di oggi, come comunicare loro l’amore di Dio, Padre della misericordia, in modo che in questa generazione si risvegli l’amore, quello profondo, quello che costituisce l’uomo come tale e che in loro cova sotto la cenere. È la carità di Dio che ci spinge ad amare questa generazione, affinché in loro si accenda il fuoco. (…) ma non bisogna dimenticare che l’amore automaticamente non suscita amore. Perché Caino ha ucciso Abele? Anziché suscitare l’amore, amando si possono sollevare reazioni imprevedibili, si può dare fastidio al male e alle potenze oscure. Perciò illudersi di suscitare nuove vocazioni senza passare una qualche forma di martirio, di sofferenza è già pensare in modo non spirituale. Non scordiamoci che tutto ciò che riguarda l’amore tocca la dinamica del mistero pasquale. (…) In un certo senso, la vocazione, così come l’abbiamo vissuta negli ultimi decenni prima della crisi, è stata intesa in modo troppo funzionale. E questo ha comportato un grave riduzionismo di ciò che è veramente una vocazione da un punto di vista spirituale. Tant’è vero che la mancanza di vocazioni si è cominciata a sentire sul versante di questo funzionalismo operativo: si constatava che ci mancavano le vocazioni perché non avevamo più personale per le nostre opere… E alla mancanza di queste vocazioni sacerdotali e religiose si è supplito con i laici”[3].
E qui sta l’equivoco. Perché il prete, il religioso, la religiosa, non esistono per fare delle opere, ma per rendere visibile l’amore di Cristo nella sua assolutezza e la bellezza della vocazione battesimale di cui diventano icona vivente e appassionati cultori. I laici possono sostituirci per le cose da fare, ma non possono sostituire la vocazione in se stessa. E allora è evidente che per recuperare la coscienza vocazionale nella vita della Chiesa, bisogna ripartire da come era pensata la vocazione agli inizi della Chiesa, prima di questa deriva funzionalistica. Non è un caso che Papa Benedetto stia dedicando le catechesi del mercoledì alla conoscenza dei Padri, e spieghi alla folla delle cose che noi non abbiamo il coraggio di dire nei nostri noviziati e forse nemmeno nei nostri seminari, in cui i Padri sono, sì, una materia di studio, ma non incidono sulla mentalità dei nostri giovani[4].
L’animatore vocazionale si può definire un teoforo dello Spirito, cioè una persona penetrata dallo splendore di Dio. Ascoltiamo un padre della Chiesa siro-orientale dell’VIII secolo, poco conosciuto, Giuseppe Hazzaya, detto il Visionario, che ci parla di come è possibile riconoscere i segni dell’azione dello Spirito in una persona:
“Il primo segno dell’azione efficace dello Spirito è quando l’amore di Dio brucia come un fuoco nel cuore di una persona. Il secondo segno attraverso il quale sentirai che lo Spirito che hai ricevuto nel Battesimo sta operando in te consiste nella vera umiltà che nasce nella tua anima. Ai tuoi occhi tutti diventano grandi e santi e non c’è nessuno nella tua mente che sia buono o cattivo, giusto o ingiusto. È dall’umiltà che la pace, la mansuetudine e la sopportazione delle tribolazioni nascono nell’anima. Il terzo segno consiste nella benevolenza, che fa presente in te l’immagine di Dio, attraverso cui i tuoi pensieri si estendono a tutti, come se tutti dimorassero nel tuo cuore e tu affettuosamente li abbracciassi e li baciassi mentre riversi la tua benevolenza su tutti: quando li ricordi il tuo cuore è infiammato dallo Spirito e da questo nascono bontà e benevolenza nel tuo cuore, così che non esprimi niente di cattivo contro nessuno, né il tuo pensiero pensa male di qualcuno, ma fa del bene a tutti, sia nel tuo pensiero che nelle tue azioni. Il quarto segno consiste nel vero amore, che non lascia nel tuo pensiero nessun ricordo se non il ricordo di Dio solo, che è la chiave spirituale con cui si apre la porta interiore del cuore: perché lì è nascosto Cristo nostro Signore. Da questo amore nasce la fede che vede le cose nascoste agli occhi carnali, ma conosciute chiaramente agli occhi della mente abitata da Cristo” .[5]
Alla luce di queste parole comprendiamo, allora, come tante nostre iniziative per l’animazione vocazionale siano povere di efficacia. Finché non ci saranno persone infuocate dall’amore di Cristo e per Cristo, possiamo rischiare di dedicare molto tempo a ciò che è secondario, senza riferirci a quella vita battesimale, che è bella ed attraente (cf 1Pt 2,12), ma ha bisogno di essere curata con un’adeguata pedagogia spirituale. Quando leggiamo i Padri dei primi secoli avvertiamo tutto il fascino della loro testimonianza, perché è vitale, attinge alla fonte e sentiamo che nutre la nostra vita, la infiamma e la spinge a vivere allo stesso modo. Leggiamo le vite dei santi, le loro opere e autobiografie.
Essere “anima” nei confronti della comunità cristiana
Il cammino della vocazione cristiana si può comprendere solo nel contesto della radicale novità della vita in Cristo, ricevuta nel Battesimo. Quando parliamo di vocazione di speciale consacrazione, ne parliamo sempre nel contesto delle vocazioni ecclesiali, che sono interne l’una all’altra, perché tutte provengono dalla stessa radice battesimale. Il senso della vocazione cristiana è l’amore e quindi le differenti vocazioni ecclesiali, sono sempre innestate su questa vocazione all’amore.
Perciò possiamo dire che la vocazione precede la mia vita, nel senso che Dio prima dà la vocazione e poi dà la vita: mi crea con quella particolare vocazione che per me sarà il modo più adeguato di vivere l’amore. Così la vocazione coincide con la mia autentica personalità e aderire ad essa significa realizzare pienamente me stessa secondo l’amore. Nessuna forzatura e nessuna violazione della mia libertà, perché Dio mi chiama alla pienezza della mia identità di figlia nel Figlio. Posso anche non rispondere a questa vocazione, ma se non rispondo, in un certo senso, tradisco me stessa. Tuttavia Dio troverà comunque il modo di ricondurmi al disegno originario, che è sempre l’amore.
“Il fondamento e il compimento, e dunque anche l’ultimo significato di tutto ciò che l’uomo può fare, si trova nell’amore. Possiamo essere eroi, permettere che brucino il nostro corpo, fare opere miracolose, ma, se tutto ciò non è fatto nell’amore, è per la distruzione della nostra identità e non lascerà nessuna traccia. (…) Mentre l’amore dura in eterno, e ciò che è compiuto nell’amore è custodito per sempre. Vivere nell’amore, creare nell’amore: solo così la persona umana crea se stessa, custodisce se stessa all’interno di un’identità che cresce fino a raggiungere la misura di Cristo, l’amore perfetto. (…) Oggi tutto questo ci sfugge, perché nel nostro contesto culturale siamo giunti ad un punto in cui spesso diventa un vanto ciò di cui dovremmo vergognarci (cf Fil 3,19). Ma anche questa è la prova che siamo creati nell’amore. Proprio perché è creato nell’amore, ognuno è libero di aderire o di non aderire alla verità della sua vita”[6].
Nella comunità cristiana allora occorre imparare a pensare secondo la vita, lasciarci rieducare alla vita, che ha la sua origine in Dio. La grande ascesi oggi consiste nell’imparare a pensare in Cristo, uniti a lui. Quale fallimento per la nostra pastorale, se non partiamo da questo fondamento! “L’approccio alla vita con categorie astratte ha distrutto il cristianesimo” (Vladimir Solov’ov). Secondo Gregorio di Nissa, chi ama le nozioni astratte quando parla di Cristo è un idolatra. Come discepoli di Cristo siamo portatori di un pensiero organico, un’intelligenza capace di tenere insieme tutte le componenti della vita: il nostro corpo, la nostra psiche, il pane, il vino, l’acqua, l’olio, lo Spirito Santo, il cosmo intero.
I padri della Chiesa vivevano Cristo. Poi, a partire dalla vita in Cristo, hanno cercato le categorie adatte a dire la vita nuova: una vita integra che include il cielo e la terra. I cristiani dei primi secoli hanno sviluppato un’intelligenza cristologica, un’intelligenza ecclesiale, liturgica, simbolica e sacramentale ed hanno portato una novità culturale totale, anche nel campo artistico. Ed erano sempre più creativi nel linguaggio e nei simboli. Un pensiero organico che narra la vita e non le idee, che esprime creatività intorno alla vita, alla sua origine in Dio, al mistero pasquale di Cristo che l’ha rigenerata dopo il rifiuto del peccato. I bellissimi inni liturgici delle diverse tradizioni, inni di forte intensità teologica, sono l’incessante poesia di chi racconta la vita vissuta e non le astrazioni[7].
La prima elaborazione culturale dei cristiani è la testimonianza di una vita integra e per questo piena e gioiosa; di uno stile di vita comunionale che affascinava e mostrava la bellezza di Cristo, del suo amore che univa ed irrompeva nella cultura pagana come una totale novità. Una novità così radicale che suscitava anche opposizione, sino al martirio dei credenti in Cristo. Ma anche nel martirio i cristiani mostravano Cristo e morivano seminando, con il loro sangue, nuovi discepoli. Anche i cosiddetti barbari, o popoli del Nord, che irrompevano nell’ormai moribondo impero romano, rimanevano affascinati dalla bellezza del mistero celebrato nella liturgia cristiana e si convertivano in massa.
Oggi abbiamo popoli di tutti i continenti che vengono a contatto con i cristiani e con la Chiesa d’Occidente, ma non ne sono affascinati; anzi, più spesso sono catturati dal luccichio artificiale della vita opulenta delle nostre città e il Vangelo rimane invisibile e nascosto ai loro occhi. Tra questi popoli ci sono anche tanti giovani e i nostri giovani entrano in relazione con loro. Ma che cosa portano? Una vita stanca o tutta giocata in superficie, che può attrarre per un momento, come i fuochi d’artificio, ma poi non dura; quando non accade che i giovani battezzati siano affascinati dalla identità forte e persino aggressiva di giovani appartenenti ad altre culture o religioni vecchie e nuove ideologie.
Teniamo conto che tra gli immigrati ci sono anche molti giovani che provengono dalla tradizione cristiana orientale, ma, vedendo noi, rischiano di perdersi e di adeguarsi ad una vita senza Dio.
Essere “anima” nei confronti dei giovani
Comprendere la mentalità dei giovani e comprendere il loro mondo significa superare i luoghi comuni sulla condizione giovanile oggi. Inoltre, mi pare che, quando facciamo animazione vocazionale, non possiamo pensare a giovani che sono ordinariamente lontani dalla comunità cristiana, perché, pur rimanendo vero che il Signore chiama chi vuole e dove vuole, in genere l’animazione vocazionale si fa tra i giovani credenti.
A me viene sempre il dubbio che molti nostri depliant, canzoni, siti vocazionali o quant’altro si fermino ai margini della vita cristiana: o si rivolgono agli adolescenti e quindi rimangono nel linguaggio e nei pensieri adolescenziali, o si rivolgono a dei giovani che comunque non parteciperanno mai alle nostre iniziative; forse pensiamo ai giovani così come li presentano i sondaggi, la TV o Internet. Ma, grazie a Dio, non tutti i giovani sono così. Anzi, sono convinta che la maggioranza di loro, più spiritualmente sensibili, gradirebbe uno stile più maturo nell’animazione vocazionale; credo che vorrebbe ricevere un cibo più solido, qualcosa che aiuti a far venir fuori la vera sete che abita il loro cuore e che possa essere orientata a Dio.
Mi sono trovata a partecipare ad un momento di preghiera preparato per aiutare i giovani a scoprire la vocazione. È stato per me un momento penoso, perché non si è iniziato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo: il sacerdote che presiedeva aveva solo una funzione decorativa e chi guidava la preghiera sembrava avesse paura di nominare il Dio di Gesù Cristo. Quelle introduzioni potevano andare bene per qualunque religione e per qualunque idea di Dio. Pur leggendo testi della Parola e di qualche santo, erano accuratamente selezionati perché non si parlasse mai né di peccato né di salvezza né della Pasqua. Tutto un po’ light, leggero, vago. Per cui, anche quando si parlava dell’amore, poteva benissimo essere inteso come un amore generico, tra il sociologico ed il sentimentale, che in sostanza non disturbava nessuno.
Purtroppo, talvolta, parliamo delle cose di Dio come si parla di qualunque altra cosa e il più delle volte lo facciamo con una mentalità “mondana”, per cui chi ascolta o si annoia o potrebbe dire: ma chissà se esiste questo Dio! Per favore, abbiate il coraggio di chiarire a voi stessi, e poi ai nostri giovani, i fondamenti della nostra fede; date del cibo forte, che nutre la mente, non solo le emozioni.
Non so se gli animatori vocazionali fanno ogni giorno la lettura spirituale dei Padri, che sono anche i migliori commentatori della Parola di Dio; non so che tipo di letture fanno, che cosa vedono, quali persone frequentano, quanto tempo dedicano al silenzio e alla preghiera, quanto allo studio, al lavoro manuale, alla fatica del corpo e della mente, all’ascolto profondo del cuore umano.
Se la vita cristiana non è impostata così, ma anzi ci sentiamo in dovere di rincorrere l’ultimo film o l’ultimo libro, nel timore di non saper parlare ai giovani, rischiamo non di fare pastorale vocazionale, ma solo un po’ di pubblicità progresso, che può al massimo solleticare la curiosità o, se si è molto bravi, suscitare qualche forte emozione. E poi, tutto finisce lì! Capite che, in un mondo come il nostro, che richiede il martirio per Cristo, molte delle nostre iniziative vocazionali sono tempo, energie e risorse sprecate. C’è da rifare il tessuto vitale della nostra fede, con una trama robusta ed un ordito che non si spezza, perché nulla ci possa separare dall’amore di Cristo.
Se proprio bisogna destinare qualcuno per questo servizio ecclesiale, allora non possono essere persone che della fede non hanno sperimentato nemmeno l’abc! Forse avranno studiato teologia, ma la loro vita non si è mossa di un millimetro dalle loro idee e abitudini, perciò, al primo colpo di vento, sono a terra. Chi non ha consegnato la propria volontà, attraverso un’ascesi sostenuta da un amore folle per Cristo, non può nemmeno evangelizzare; figurarsi animare la vocazione cristiana!
Vorrei ora leggere con voi un testo evangelico – il racconto della guarigione del cieco di Gerico in Marco 10, 46-52 – che ha molti connotati che possiamo definire battesimali od anche vocazionali. In particolare vorrei riferirmi al ruolo dei discepoli del Signore, che nell’intenzione di Luca, probabilmente, si riferisce alla comunità cristiana. Con qualche forzatura, ho pensato che quei discepoli che prima impediscono e poi sollecitano il cieco ad incontrare Gesù, potrebbero rappresentare gli animatori vocazionali.
Si potrebbe dire che Gesù chiama attraverso altri, o nonostante altri, che rischiano di spegnere il grido più vero che nasce dal cuore dell’uomo, che si accorge di essere cieco di fronte al mistero di Dio e lo vuole incontrare, vuole entrare in relazione con questo mistero.
Allora mi pare che il primo compito dell’animatore vocazionale nei confronti dei giovani sia proprio quello di fare un lavoro preliminare: aiutare i giovani a rendersi conto della loro sete più profonda che è la sete di Dio e della loro condizione di cecità nei confronti della fede in Cristo, in Colui che è la luce del mondo, la luce vera che illumina ogni uomo, e che, solo, può aprire i nostri occhi sul mistero della vita. Solo quando la persona prende coscienza della propria cecità di fronte alle realtà spirituali e comincia a gridare verso Cristo, allora è il momento non di ostacolare, ma di condurre a Cristo e di aiutare la persona ad abbandonare ogni cosa per gettarsi nella relazione d’amore con lui.
Va da sé che l’animatore deve aver fatto per primo l’esperienza salvifica dell’incontro personale con Cristo e perciò conoscere anche, non per sentito dire, la luce che inonda la vita quando si cammina con Cristo e in Cristo. Deve anche aver sperimentato nella sua vita i tagli necessari per entrare sempre più profondamente in questa relazione. Deve sapere che cosa comporta aver gettato via il mantello e aver fatto quel balzo che si lascia tutto alle spalle. Anzi, proprio perché la relazione con Cristo è già matura, il nostro animatore conosce anche le vere gioie di un totale amore, le profondità di un’amicizia con Cristo, che giunge sino alla conformazione a lui.
Se l’animatore vocazionale non conosce sulla sua pelle questo percorso straordinario di vita piena, ma addirittura nella sua memoria è persino sbiadito il primo incontro con Cristo, è meglio che prima ravvivi la memoria dell’innamoramento. E se non c’è stata quest’esperienza, che sta a fondamento, vada a vedere perché. L’affidamento di questo compito di animatore vocazionale da parte dei superiori potrebbe, allora, essere l’occasione per ravvivare il dono ricevuto con il Battesimo e la Professione religiosa o con l’Ordinazione sacerdotale.
Tre padri avevano costume di andare ogni anno dal beato Antonio; due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell’anima; il terzo invece sempre taceva e non chiedeva nulla. Dopo lungo tempo, il padre Antonio gli dice: “È tanto tempo che vieni qui e non mi chiedi nulla”. Gli rispose: “A me, padre, basta solo il vederti”[8].
(Dai detti dei Padri del deserto)
Che sia così anche per ogni animatore vocazionale.
Note
[1] In Marco 8, 36-37 e Matteo 16, 25–26, la parola “anima” è usata nella Vulgata Clementina del NT e traduce il greco “psichè”, che la Bibbia Cei ha tradotto alle volte con vita, alle volte con anima. Userei anch’io al posto di anima il vocabolo “vita”. “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero e poi perdere la propria anima”, traduceva l’antica versione della Bibbia; ora la Bibbia Cei traduce: la propria “vita” nel testo di Matteo 16, 26 e Marco 8,36-37, e si intende la propria vita intesa come l’espressione più profonda della persona. Ma la vita in senso pieno, quella che appartiene a Dio ed è comunicata all’uomo nella creazione e nella redenzione, si chiama “Zoin”. Così Gn 1 e 2, il prologo di Giovanni, ed altri testi giovannei, Gv 10, 10; o quando si parla della vita eterna Gv 10, 28 “zoin eònion”; Gv 11, 25 “egò eimi i anastasis kei i zoì”; Gv 14, 6 “Egò eimi i odòs kei i aletheia kei i zoì”, e Ap 22,2 l’Albero di vita, “xilon zoìs” che riprende la stessa espressione di Gn 2,9 : xilon this zoìs” nella traduzione greca dei LXX.
[2] CEI, Rigenerati per una speranza viva, testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo, 29 giugno 2007, n. 10.
[3] Cf M. I. RUPNIK, Il cammino della vocazione cristiana: di risurrezione in risurrezione, Lipa, Roma, 2007, pp. 70-71.
[4] Cf CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Lo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale, 1989.
[5] Cf SEBASTIAN P. BROCK, La spiritualità nella tradizione siriaca, Roma, 2006, pp. 108-109.
[6] Cf M. I. RUPNIK, op. cit., pp. 30-31.
[7] Secoli più tardi i cristiani si sono innamorati di un sistema astratto, rigido, chiuso, staccato dall’esperienza viva di Cristo.
[8] Cf LUCIANA MORTARI (a cura di ), Vita e detti dei padri del deserto, Città nuova, 4a ed. minima, 2005, pp. 88-89, n. 27.