L’animazione vocazionale… “in rete”
VINCENZO BARONE- EMANUELA MACCOTTA- LUCIO SCALIA – LUIGI (seminarista)
Obiettivo: mettere a fuoco o sviluppare l’identikit, i requisiti, le prerogative di un consacrato/a animatore vocazionale.
DON VINCENZO BARONE
Non da solo ma in uno stile di comunione, dove ogni membro del Centro Diocesano Vocazioni si sentisse pienamente corresponsabile del Centro.
Quello che conta è vivere in perfetta sintonia ed unità; lo slogan che ci accompagna nel nostro lavoro è questo: è meglio il meno perfetto in unità, che la perfezione nella disunità, per cui ogni iniziativa viene condivisa e accolta da ogni componente, perché la senta “sua” e non si senta solo un esecutore.
Per mettere a fuoco dalla nostra esperienza la figura del consacrato/a animatore/trice vocazionale ci siamo trovati tra membri del CDV. Dopo una vivace condivisione, che ha riletto l’esperienza vissuta in questi anni, in cui soprattutto sono emersi anche i nostri sogni e desideri, ci è sembrato bene cominciare a comunicare ciò che è emerso alla fine: cioè che, prima di tutto, questa persona è semplicemente una mediazione, un canale attraverso cui è Dio stesso che chiama gli uomini e le donne alla sequela; è un canale che si rende disponibile come terreno d’incontro tra Dio che chiama e l’uomo che risponde.
Ci ha affascinato la descrizione che M. Delbrel fa del cristiano, come qualcuno che porta e dona una “corrente” che non genera da se stesso, ma che comunque lo attraversa e in qualche modo lo modifica.
I cristiani sono “conduttori” – nel senso di un filo elettrico – di ciò che il mondo non genera da sé, non può cavar fuori da sé. E quanto più i cristiani hanno una forte “carica” per il mondo, tanto più sono predestinati al mondo. La loro croce normale è una tensione spinta al massimo tra la loro intima appartenenza al mondo e la loro funzione; che li situa nel cuore del mondo, ma da “stranieri” nel mondo. (M. Delbrel, Indivisibile amore, p. 21).
Una volta detto ciò, possiamo affermare che C.A.V. (Consacrato/a Animatore/trice Vocazionale) è una persona che raccoglie in sé diverse sfaccettature. Abbiamo tentato di distinguere due piani, relativamente alla sua identità: un piano del “saper essere” e un piano del “saper fare”.
Infatti, per il suo compito particolare, il C.A.V. si pone come una persona di confine, che sa parlare il linguaggio di Dio, ma deve conoscere altrettanto bene il linguaggio dell’uomo.
Proviamo a delinearne alcuni tratti, che ci sembrano importanti:
SAPER ESSERE:
– È fondamentale che possieda una chiara identità carismatica. Dall’esperienza di questi anni, ci sembra che attraverso la collaborazione all’interno della Diocesi, il possedere un’identità carismatica abbastanza chiara ci abbia aiutato ad aprirci senza timore a tutte le altre vocazioni presenti nella Chiesa, sia quelle di speciale consacrazione che quelle matrimoniali. La collaborazione ci ha inoltre permesso di riconoscere sempre meglio il carisma di ciascuno, ci ha portate a scoprire la bellezza di ogni vocazione e la ricchezza dello Spirito, e ci ha permesso di sentirci Chiesa. Per questo ci sembra che ciascuno di noi abbia potuto coltivare in sé una vera e propria passione per il cammino vocazionale di ciascuno: non ci sembra così importante “cercare vocazioni per il proprio Istituto”, dal momento che non siamo noi che chiamiamo, ma è Dio che chiama, quanto invece lavorare al servizio del chiamato, affinché scopra e segua la propria vocazione specifica.
– Questo richiede una certa apertura e fiducia in Dio, ma anche una buona disponibilità ad entrare in relazione con se stessi e con gli altri in serenità e trasparenza, in spirito di collaborazione. Nello specifico, il C.A.V. deve essere disposto a dialogare con i giovani, con i sacerdoti e con i membri del proprio Istituto.
Non sempre questa è un’impresa semplice, dal momento che il ruolo non è un ruolo “ufficialmente riconosciuto”. Sebbene ciascuno abbia ricevuto un incarico da un proprio superiore, non andiamo a parlare per questo, ma perché sentiamo dentro la bellezza della nostra vocazione ed il desiderio di “contagiare”, di comunicare ad altri la gioia che è dentro di noi; perché la nostra paternità e maternità sta nel “generare” nel cuore dei giovani il desiderio di seguire Gesù. È la stessa gioia di una mamma e di un papà quando vedono nascere il proprio bambino; consapevoli che è dono di Dio, ma che è anche passato attraverso il loro amore. Così è di ogni vocazione: è dono di Dio, perché è lui che chiama, ma ha bisogno di un grembo che lo accolga con amore e lo nutra con la passione per la sua scelta vocazionale. Ogni animatore vocazionale dovrebbe essere capace di fare questo; invece tante volte, con la nostra mancanza di gioia, chiusi nei nostri schemi, non aperti alla novità, preoccupati troppo del mantenimento dei nostri Istituti e dei nostri Seminari, ci rendiamo responsabili di tanti “aborti vocazionali”.
* Ci vuole libertà interiore.
– Altro elemento essenziale è la capacità di accettare le SFIDE. Insieme alle sfide del “per sempre” o della “fedeltà”, a volte è necessario accettare la sfida (più banale, se vogliamo, ma non così scontata) della preghiera intercongregazionale per le vocazioni.
– Un altro requisito che ci sembra fondamentale e che ciascuno dovrebbe impegnarsi a coltivare, è l’apertura alla novità. Lo Spirito non è mai statico, richiede continuamente l’apertura al nuovo, la capacità di riconoscere le sue tracce anche in situazioni impensate. Per questo ciascuno rimane aperto alla novità anche all’interno del proprio cammino vocazionale. Per fare questo ci sembra importante coltivare la capacità di ASCOLTO: di Dio, della gente, della storia.
Un aspetto che in questi anni c’interroga è appunto riconoscere le orme dello Spirito in quelle persone che non si sentono “a casa” nella Chiesa e che ne vivono lontani: quanti giovani etichettati da noi perché non entrano nei nostri parametri, perché abbiamo paura del confronto! Ma anche su di loro il Signore ha un sogno, un desiderio, un progetto… chi siamo noi per mettere un freno allo Spirito Santo?
* Ci vuole coraggio. Un’esperienza vissuta al Gruppo Ricerca (omosessuali): molti di loro sono disposti a fare un percorso cristiano e desiderano vivamente scoprire quale chiamata, quale progetto Dio ha sulle loro vite. Anche queste persone hanno diritto ad avere accanto qualcuno che faccia “da mediatore” tra Dio e la loro realtà quotidiana. A nostro avviso, questo richiede una grande passione per la vita.
Chiamati a creare una cultura vocazionale
L’esperienza di questi anni ci ha anche permesso di sperimentare come il C.A.V. non sia solo testimone efficace per le vocazioni di speciale consacrazione, ma può essere un valido testimone anche per le vocazioni matrimoniali. Dai Gruppi Ricerca della Diocesi sono usciti giovani religiosi e religiose, sacerdoti, ma anche coppie che vogliono vivere cristianamente, impegnandosi nella Chiesa. Alcune di queste coppie hanno deciso di impegnarsi nel C.D.V, per mettersi a loro volta a servizio di altri giovani che intendono riflettere sulla loro vocazione a 360°. Una delle esperienze più belle che viviamo nel C.D.V. è la disponibilità ad imparare da tutti: non esiste una gerarchia, ma una relazione paritaria in cui ciascuno può portare la propria esperienza e questa può essere di stimolo agli altri nella propria crescita vocazionale.
L’animazione vocazionale è trasversale a tutte le età: di conseguenza un consacrato, una consacrata è di per sé animatore vocazionale anche vivendo con serenità e radicalità la propria risposta d’amore ad un Dio che interpella. La disponibilità ad essere vicini ad ogni persona, anche quelle apparentemente lontane dalla Chiesa, o a chi sta soffrendo per situazioni particolari di malattia o altro, come compagni di cammino, ci sembra un’altra caratteristica importante del C.A.V. I diversi “sì” detti nella propria vita possono essere di stimolo anche per altri, nell’accettare le diverse situazioni che il Signore ci chiama ad affrontare.
Dal momento che il C.A.V. si trova a dover fare da “mediatore” tra l’uomo e Dio, ci sembra importante anche una certa disponibilità ad acquisire alcune competenze più “concrete”, legate al SAPER FARE.
Ad esempio:
– Una conoscenza almeno basilare delle dinamiche psicologiche che sottostanno ai comportamenti religiosi, delle dinamiche motivazionali e del processo decisionale, e anche di quelle dinamiche che sottostanno alla ricerca ed acquisizione della propria identità. Spesso è necessario distinguere bene il desiderio sincero di rispondere ad una chiamata di Dio dal desiderio di seguire un proprio progetto ad ogni costo. I meccanismi che intervengono sono a volte così sottili che possono trarre in inganno chi è troppo preoccupato del calo di vocazioni ed è poco o per nulla esperto di dinamiche psicologiche.
– Una conoscenza delle dinamiche dello Spirito: come lo Spirito si è manifestato nella Bibbia, come si è manifestato in diversi personaggi della storia della Chiesa o anche nella nostra storia contemporanea (i santi, i fondatori delle Congregazioni, ecc.). Nel percorso del Gruppo Ricerca Diocesano abbiamo fatto la scelta di proporre il metodo di discernimento ignaziano.
Non è detto che tutti i giovani si riconoscano in questo metodo, ma ci sembra importante che almeno comprendano che un “metodo” è necessario e che il cammino di discernimento non può essere lasciato al caso. In Diocesi, inoltre, abbiamo fatto la scelta di proporre cammini “vocazionali” anche ai bambini della scuola primaria. Momento forte di questo cammino sono i Campi Scuola Vocazionali, che intendono far sperimentare anche ai più piccoli la bellezza dello stare insieme in modo cristiano, che comprende anche la preghiera e la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, il tutto in un clima di festa. Il Signore chiama, attraverso le diverse esperienze della vita, in ogni età e per poter rispondere bisogna avere in qualche modo sperimentato la bellezza dell’amore di Dio. L’annuncio ai più piccoli è finalizzato a creare un “terreno fertile”, in cui la chiamata possa trovare spazio e attecchire.
– Avere una conoscenza basilare di antropologia teologica (oltre che della Sacra Scrittura), per avere e trasmettere un’immagine più corretta possibile del progetto che Dio ha su ogni uomo, e di conseguenza della paternità di Dio e del suo amore per ciascuno. In questi anni abbiamo toccato con mano quanto siano pochi i giovani che hanno un’idea corretta del rapporto d’amore che Dio instaura con l’uomo. Anche i giovani che già si prestano per la catechesi o l’animazione, intendono spesso il rapporto con Dio come un rapporto regolato da un rigido codice stradale, dove prendi una multa quando sbagli: non è importante fare bene le cose, l’importante è che nessuno ti veda. Questi giovani sono lontanissimi dall’idea di un Dio che osserva l’orizzonte, sperando che prima o poi quel figlio che si è allontanato da lui ritorni, anche senza una richiesta esplicita di scuse, anche dopo un fallimento… Come possono questi giovani innamorarsi di un Dio “vigile urbano”? Tutto ciò richiede non solo una conoscenza teorica, ma un continuo sforzo di mettere alla base della propria vita il mistero dell’Incarnazione.
EMANUELA MACCOTTA
Cosa mi aspetto da un animatore vocazionale? Prima di esprimere i tratti fondamentali che, secondo me, dovrebbero appartenere ad un animatore vocazionale, volevo ringraziarvi per avermi posto davanti un quesito così importante. È, infatti, essenziale per ogni uomo fermarsi a riflettere sul proprio cammino. E quanto più lo è per voi, che siete impegnati in una missione così delicata: aiutare il giovane a scoprire il sogno di Dio su di sé! Inoltre, questa domanda mi fa senz’altro piacere, perché mi rivela la vostra consapevolezza del fatto che noi giovani ci aspettiamo realmente qualcosa da voi.
La nostra aspettativa non è un pretendere, né un voler giudicare, ma piuttosto un’attesa che nasce direttamente dalla promessa fatta, nel momento in cui avete donato a Dio la vostra vita.
– L’animatore vocazionale deve essere per me una persona coerente. Coerente con la sua scelta di vita e soprattutto con il suo essere adulto. Ormai di frequente i giovani sono abituati ad avere a che fare con adulti “mollicci” e senza spina dorsale, che vivono immersi in un giovanilismo artificioso e riempiono il loro tempo solo di emozioni prive di “senso”. Come potrò io, giovane in discernimento, credere in una vita che si fa dono totale, se chi mi parla è ancora troppo ancorato all’idea di una realizzazione che sa di “terra”? Come potrò cercare il mio posto, quello preparato per me dall’eternità, se chi mi parla non è lì, dove Dio gli ha chiesto di essere, a testimoniare la gioia del dire “sì” per sempre?
– L’animatore vocazionale deve essere per me una persona disponibile all’incontro vero, capace di andare oltre i suoi pregiudizi o i suoi progetti sulla mia vita, per farsi veramente strumento dei desideri e dei progetti di Dio su di me. L’educatore sa lasciare le sue posizioni per farsi più vicino al mio mondo, sa camminare al mio fianco e, soprattutto, dentro di me. Un incontro, quello tra il giovane in ricerca e l’animatore, che mi fa pensare all’incontro tra due persone che si conoscono appena; infatti, esse non decidono certo di darsi appuntamento nelle loro rispettive abitazioni, ma scelgono un luogo comune, più familiare. Così l’educatore incontra il giovane là dove quest’ultimo non si sente a disagio, né spaesato; lo incontra là dov’è, per cominciare a costruire una fiducia reciproca.
Quello spazio è, inoltre, il primo piccolo spiraglio in cui l’educando dà il permesso di entrare, di stare e di provocare: ricordo, infatti, che all’inizio del mio cammino, pur essendo affascinata da una vita così radicale come quella religiosa, non ero disposta a lasciarmi provocare fino in fondo dalle proposte della mia animatrice, ma ho lasciato sul mio muro una piccola crepa, alla quale lei ha saputo con pazienza abituarsi.
È venuto il tempo, in seguito, in cui mi è stato richiesto di lasciare il mio posto per avvicinarmi a quello che non poteva essere solo un ideale, ma una scelta di vita. Certo, è stato uno dei passaggi più faticosi della mia vita, ma ringrazio immensamente il Signore per questa salita, perché se avessi rifiutato di scegliere, sarei diventata una persona mediocre.
– L’animatore vocazionale non deve essere per me un “passante”, ma una figura che lascia le tracce del suo passaggio; che non ha paura di essere rifiutato, perché ciò che conta non è costruire un rapporto interpersonale, ma la ricerca della volontà di Dio. Il passante attraversa la strada quasi per caso, si ferma a guardare le vetrine distratto e poi scappa a passo veloce verso altre vie, contribuendo, anche lui, al frastuono della vita di ogni giorno. L’educatore, invece, si ferma, spostando i soprammobili impolverati della persona, scuotendo e “disturbando” le stasi, a volte troppo prolungate, del giovane.
Il mio animatore vocazionale ha saputo propormi vette alte, mi ha parlato di fedeltà, impegno, sofferenza e amore eterno, senza usare mezzi termini, né giri di parole e senza lasciarmi mai sola nell’affrontare le difficoltà di crescere nel rapporto con Dio. Il mio animatore vocazionale mi ha insegnato a vedermi come un essere speciale perché amato da Dio, senza concetti alti o frasi complicate, ma semplicemente mettendosi in atteggiamento contemplativo nei confronti della mia vita.
LUCIO SCALIA
Mi chiamo Lucio, sono un religioso rogazionista, ho trentaquattro anni e sono di Giardini Naxos, un paese della provincia di Messina. Fino a non molto tempo fa ero impegnato nella mia parrocchia di appartenenza come animatore liturgico e come ministro straordinario; d’estate lavoravo in un villaggio turistico di Giardini Naxos come animatore. Anche al villaggio ero impegnato nell’animazione liturgica, specialmente la domenica. Il teatro diventava un luogo in cui tutti ci riunivamo per essere confortati dalla Parola di Dio. Tutto questo sembra normale per quanto riguarda una probabile vocazione, vero?
Ma non è tutto come sembra, perché prima della mia conversione ero un ragazzo a cui piaceva la bella vita. Studiavo all’ISEF ed ero pieno di ambizioni: infatti volevo diventare un grande pallavolista oppure una stella della musica rock. Suonavo in una heavy metal band e da buon “metallaro” ero capellone, indossavo i jeans strappati e le magliette degli Iron Maiden e dei Kiss con il classico “chiodo” (giacca in pelle). Da tutto ciò si può capire che non pensavo minimamente né alla Chiesa e né a farmi prete.
In seguito mi resi conto che tutto questo, prima o poi, poteva finire e mi domandai: «Lucio cosa vuoi “essere” nella tua vita?». Ecco il classico momento di crisi. Durante questo periodo conobbi dei giovani che avevano un complesso musicale e che suonavano le canzoni del Gen Rosso. Suonando con loro cominciò la mia conversione.
Dopo qualche anno conobbi P. Angelo Sardone, in occasione dell’ordinazione sacerdotale di P. Vincenzo D’Angelo, con il quale mi confrontai su ciò che sentivo nel mio cuore: la voglia di donarmi a Dio e al prossimo. Confortato dai suoi consigli, mi sono avvicinato ai Padri Rogazionisti del Cuore di Gesù e così ebbe inizio il mio cammino di discernimento vocazionale.
Ecco che entra in gioco la figura dell’animatore vocazionale, molto importante sia per il futuro della Chiesa che per la felicità del ragazzo o del giovane. Io ho avuto l’opportunità, come dicevo prima, di conoscere un sacerdote che mi ha ascoltato e che in un certo senso mi ha anche spronato, rispettando la mia libertà senza opprimermi. Ho notato, invece, in alcuni animatori vocazionali l’atteggiamento di voler portare l’acqua al proprio mulino senza aver cura dello spirito e della libertà del giovane. Questo succede quando l’animatore pensa solo alla propria congregazione senza curarsi della spiritualità della persona che ha di fronte. Il giovane, oggi, non vuole qualcuno che gli dica cosa fare, bensì un amico che gli stia vicino. L’animatore vocazionale deve essere un “uomo” che sa leggere il cuore del ragazzo o del giovane.
Lungo il mio cammino di discernimento ho potuto costatare che il lavoro di équipe è molto importante. Mentre ero prenovizio, a Napoli, ho notato la reciprocità dei nostri giovani sacerdoti delle varie comunità della Provincia Centro-Sud. Reciprocità che ha fatto rinascere i nostri seminari di Messina e di Oria. Questa è la prova che da soli non possiamo far nulla. Perché non osare, proponendo questa reciprocità anche a livello intercongregazionale e interecclesiale? Un asso nella manica può essere il coinvolgimento dei giovani in discernimento alle attività di animazione vocazionale. Io stesso venivo coinvolto in quest’animazione e posso dire che pur non essendo un sacerdote ho potuto ascoltare tanti ragazzi, osservare i loro sguardi e dare anche qualche consiglio.
Ancora oggi collaboro nei campi scuola estivi e mi occupo dei momenti ludici e d’introduzione alla preghiera, cercando di far divertire e riflettere i ragazzi che vi partecipano con canti e animazione varia. L’animatore vocazionale deve conoscere i vari linguaggi che colpiscono la mente e il cuore; deve essere “furbo” e “scaltro”, nel senso che deve essere realmente convinto che tutto ciò che fa è per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime. Vi invito a meditare la parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16,8) nella quale si legge che il padrone ammira la furbizia dell’amministratore e che si conclude con la considerazione di Gesù, che tutti conosciamo: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più furbi dei figli della luce».
Un compito dell’animatore, che io personalmente non ho tanto riscontrato, è quello di accompagnare la persona nel suo discernimento almeno per un certo periodo. Di solito l’animatore contatta il giovane o il ragazzo coinvolgendolo in varie esperienze, e poi lo avvia in un cammino con altri formatori per poi dileguarsi. Egli non solo deve avvicinare i ragazzi o i giovani, ma deve accompagnarli, stando loro vicino come un fratello, o meglio come un amico. Gesù, dopo aver chiamato Pietro, non lo ha lasciato solo, o lo ha “scaricato” ad altri perché aveva altro da fare.
Ultimamente, sempre nei nostri seminari, si è capito il valore dell’accompagnamento anche da parte dell’animatore. Infatti molti dei nostri sacerdoti impegnati nell’animazione vocazionale sono pienamente coinvolti nella vita dei nostri seminari minori; ciò serve a dare continuità tra il primo contatto con il ragazzo e la vita da seminarista. L’animatore vocazionale – ripeto – è un ruolo importantissimo che deve essere ancor più valorizzato. Spesso gli vengono date altre responsabilità che hanno delle caratteristiche e dei fini intrinsecamente ed essenzialmente diversi: l’animatore non può fare anche l’economo, il superiore di una comunità o il responsabile di una casa alloggio per minori. Umanamente tutto ciò è impossibile. Importantissimo è l’aiuto dei Superiori, i quali devono sostenere l’animatore concretamente, standogli vicino, interessandosi delle attività che con amore e con sacrificio egli svolge.
Concludo dicendo che l’uomo è sempre alla ricerca della propria felicità. E la felicità è la Vocazione di ogni vocazione.
LUIGI (seminarista)
Mi chiamo Luigi, ho venticinque anni e provengo dalla diocesi di Vicenza. Sono cresciuto in una piccola parrocchia della provincia di Vicenza, dove all’età di diciotto anni ho iniziato ad essere animatore, prima dei ragazzi e poi dei giovanissimi, nell’Azione Cattolica parrocchiale. Attualmente frequento il primo anno nel Seminario teologico della diocesi.
Alla fine delle scuole superiori, per paura di non farcela con lo studio e per molta insicurezza, non ho deciso di proseguire gli studi all’Università. Questa non-scelta è rimasta dentro di me come un’inquietudine, un interrogativo che di tanto in tanto affiorava con più o meno forza: che cosa sarei stato nella mia vita? Così, senza aver ancora scelto, ho vissuto i mesi del servizio civile presso una casa di riposo e poi ho iniziato a lavorare in una cooperativa sociale per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Qui ho lavorato per tre anni fino alla mia entrata nella comunità preteologica del Seminario, denominata “il Mandorlo”, giusto un anno fa. Dentro di me c’è sempre stato il desiderio di spendere la vita per ideali alti e al servizio degli altri.
Per me l’esperienza nell’Azione Cattolica è stata molto importante. Da un lato per la formazione specifica proposta dall’associazione stessa, dall’altro come mezzo fondamentale per vivere e conoscere l’intera realtà della Chiesa diocesana e non solo.
Molti sono stati gli “animatori vocazionali” che, magari a loro insaputa, hanno contribuito a far fiorire in me la libertà interiore e la disponibilità a donare la mia vita al Signore.
Ricordo i cappellani del mio vicariato, che guidavano le uscite formative, soprattutto per l’autenticità del loro essere e per la disponibilità che lasciavano trasparire: erano persone che si sarebbero fatte trovare con facilità, e mi avrebbero accolto anche per un confronto personale. Le parole scambiate e il racconto della loro vocazione hanno sempre suscitato in me domande importanti.
Lo stesso vale per i preti con cui ho condiviso week-end di spiritualità e campi-scuola diocesani. Ricordo, in particolare, quelli che si sono lasciati incontrare e hanno avuto il tempo di raccontarsi, non limitandosi ad organizzare e a proporre alcune cose da fare e nemmeno presentandosi solo come figure “giovaniliste” ed estroverse. Molte volte i loro pensieri ed i loro sogni hanno permesso anche ai miei pensieri e sogni di trovare un nome.
Nelle esperienze a cui ho partecipato, oltre a preti diocesani, ho potuto accostare e conoscere piccole sorelle del Vangelo, suore Orsoline e altre religiose e consacrate che collaborano con la pastorale giovanile e le commissioni diocesane di Azione Cattolica. Quando, durante i ritiri, partecipavano con noi giovani ai gruppi di condivisione, e quando ci si incontrava nei vari appuntamenti e celebrazioni della Chiesa diocesana, ho sempre potuto nutrirmi della loro gioiosa testimonianza. Tutte queste presenze mi hanno aiutato a vedere la vocazione al celibato non solo come una scelta possibile, ma anche estremamente significativa per la vita di un giovane.
All’inizio del 2005, le domande e le contraddizioni che mi abitavano erano divenute quasi angoscianti e insostenibili: avevo paura della mediocrità, avevo paura di non mettere a frutto i doni che possedevo, di non scegliere una “vita grande”. Così mi sono rivolto alla canonica della parrocchia centrale del nostro vicariato, dove sapevo di trovare un giovane prete che avrebbe saputo sostenere e indirizzare la mia ricerca. Durante i primissimi incontri io parlavo molto, sfogavo ogni paura e lui si limitava ad ascoltare con attenzione e ad infondermi serenità e fiducia. Mi ha aiutato a non avere paura e a mettere le mie preoccupazioni nelle mani del Signore. È stato per me un momento di grande rinascita: avevo abbandonato le mie preoccupazioni, il mio futuro, la mia vita nelle mani di qualcun’Altro. Ho iniziato a pregare con costanza. Mi sono sentito amato.
La Parola di Dio parlava a me e ogni mattina aveva qualcosa da dirmi. Scoprivo la fede con occhi nuovi e sentivo che finalmente avevo iniziato a cercare davvero. E non ero solo!Alla fine dell’estate 2005 ho scelto di iniziare il cammino di discernimento vocazionale per i giovani della Diocesi: il “gruppo Sichem”. È un cammino di un anno, di ricerca a 360 gradi, che si compone di vari momenti: l’incontro una domenica al mese con la lectio sulla Parola di Dio; la condivisione del cammino in piccoli gruppi con altri giovani; la preghiera e la meditazione personali; i colloqui mensili con la guida spirituale. Una delle dimensioni che ho sentito particolarmente significativa nel “gruppo Sichem” è stata proprio la presenza forte dell’équipe degli animatori. Essa era formata non solo da preti, ma anche da religiose e laici delle varie realtà della nostra Diocesi.
Ogni fascicolo per la meditazione mensile si concludeva con alcune brevi e sincere parole, con cui gli animatori assicuravano la loro presenza nell’amicizia e nella preghiera fraterna. Si sentiva che il cammino si faceva davvero insieme e ho sempre percepito forte questa vicinanza, soprattutto nei momenti di difficoltà. Vedevo diverse vocazioni e ministeri impegnarsi insieme con fatica, ma anche con gioia, perché noi giovani potessimo vivere bene la ricerca: è stato un vero anno di grazia!
Il Signore mi chiamava ad essere uomo di relazioni, amandolo nella Chiesa. Così, alla fine del cammino di discernimento, ho scelto assieme alla mia guida spirituale di entrare nella comunità preteologica “il Mandorlo”. Nell’accompagnamento vocazionale al “Sichem” e nei successivi passi ho sempre trovato delle presenze capaci di attento ascolto, in un dialogo delicato e paziente, ma quando necessario anche chiaro e concreto. La loro disponibilità mi ha aiutato ad aprirmi con sempre maggiore confidenza. Il sostegno maggiore che ho ricevuto è stato quello di imparare ad amare la mia storia e ad avere maggiore fiducia nei doni che possiedo. L’incontro con l’animatore vocazionale diveniva un momento in cui guardarmi allo specchio: uno specchio nitido in cui leggere me stesso con verità e con più oggettività. Le parole, ma prima di tutto la testimonianza, di chi ha animato il mio cammino, sono state finora un dono prezioso; sono divenute per me la possibilità di dare un volto a quel Giovanni Battista che prepara la strada ad una vita con Gesù.
A partire dai semplici incontri, passando per gli animatori del gruppo vocazionale diocesano, fino alla guida spirituale e all’animatore della comunità preteologica, penso di aver trovato in loro alcuni atteggiamenti importanti per un animatore vocazionale:
– la testimonianza di una vita gioiosa e di una fede autentica e sincera, non solo vissuta nel fare;
– la disponibilità a farsi trovare e a raccontarsi;
– la passione per la vita della Chiesa, tradotta in fraternità vissuta e sinergia tra le varie componenti della pastorale diocesana.
Sono grato verso ognuna delle persone incontrate in questi anni, e queste restano per me un esempio cui guardare per continuare con coraggio il cammino di crescita nella mia personale vocazione. Sono grato al Signore, che le ha poste sulla mia strada e si è fatto presente attraverso i loro volti.