Giovane, dove abiti?
In ascolto dei giovani tra vocazione e missione. Quali sfide?
Come sempre, nelle nostre ricerche pastorali il primo momento è dedicato all’ascolto – in questo caso del mondo giovanile – da un preciso punto di vista: quello della risposta ad una missione nella vita. Inizio con una sorta di peana, che in questi ultimi anni ho utilizzato spesso per dialogare con i giovani, con alcuni aggiustamenti, ma soprattutto con alcune osservazioni che mi vengono dai molteplici confronti con loro.
È bello essere giovani
– Essere giovani è avere un’età che ti permette di essere al massimo della salute, al massimo della voglia di vivere, al massimo dei sogni.
– Essere giovani è sentirsi liberi da ricordi, è alzarti una mattina deciso a conquistare il mondo e il giorno dopo stare a letto fino a quando vuoi, perché tanto c’è qualcuno che farà per te.
– Essere giovani è sapere di stare a cuore a qualcuno, magari anche solo papà e mamma, che ti rimproverano continuamente, ma che alla fine ti lasciano fare quel che vuoi e di fronte agli altri ti difendono sempre.
– Essere giovani è sballare e sapere di avere energie per uscirne sempre, anche se un po’ acciaccati.
– Essere giovani è sbagliare e far pagare agli altri.
– Essere giovani è trovare pronti i calzini, le camicie ben stirate e i jeans lavati e profumati.
– Essere giovani è parlare con i vestiti, perché ti mancano parole per dire chi sei.
– Essere giovani è passare per “fuori di testa” e accorgerti che gli adulti spesso sono più fuori di te.
– Essere giovani è portare i pantaloni bassi e vedere tua madre che ti imita e fa pietà.
– Essere giovani è sognare che oggi ci divertiremo al massimo, anche se qualche volta, quando torni e chiudi la porta dietro le spalle, ti sale una noia insopportabile.
– Essere giovani è trovare sempre in piazza qualcuno con cui stare a “tirare sera” sparando idiozie, senza problemi.
– Essere giovani è sgommare e sorpassare sperando che ti vada sempre bene.
– Essere giovani è avere il cuore a mille perché ti ha guardato negli occhi e ti senti desiderata.
– Essere giovani è avere un bel corpo, anche se qualche volta non hai il coraggio di guardarti allo specchio e stai con il fiato sospeso a sentire come ti dipingono gli altri.
– Essere giovani è il desiderio di vita piena che il giovane ricco ha espresso a Gesù e la sua debolezza nel non riuscire a distaccarsi da sé.
– Essere giovani è sentirsi fatti per cose grandi e trovarsi a fare una vita da polli.
– Essere giovani è sentirsi precari: oggi qui, domani là, un po’ soddisfatto e subito dopo scaricato.
– Essere giovani è aprire la mente, incuriosirsi delle cose belle del mondo, della scienza, della poesia, della bellezza.
– Essere giovani è affrontare la vita giocando, sicuri che c’è sempre una qualche rete di protezione.
– Essere giovani è sentirsi addosso un corpo di cui si vuol fare quel che si vuole, perché è tuo e nessuno deve dirti niente.
– Essere giovani è sentirsi dalla parte fortunata della vita e avere un papà che, tutte le volte che ti vede, gli ricordi che lui non è mai stato così spensierato, si commuove e stacca un assegno; allora non c’è più bisogno di niente e di nessuno.
– Essere giovani è sentire che nel pieno dello star bene ti assale una voglia di oltre, di completezza, di pienezza che non riesci a sperimentare. Hai un cuore che si allarga sempre più, le esperienze fatte non sono capaci di colmarlo.
– Essere giovani è sentirsi dentro un desiderio di altro cui non riesci a dare un volto; anche il ragazzo più bello che sognavi, ti comincia a deludere e la ragazza del cuore ti accorgi che ti sta usando.
– Essere giovani è alzarti un giorno e domandarti: ma dove sto andando, che faccio della mia vita, chi mi può riempire il cuore? Posso realizzare questi quattro sogni che ho dentro, c’è qualcuno lassù che mi ama? Che futuro ho davanti?
– Essere giovani è capire che divertirmi oggi per raccontare domani agli amici non mi basta più. È avere una sete che non ti passa con la birra; aver rotto tutti i tabù di ogni tipo – spinello, coca, ragazzo – ma sentire ancora un vuoto.
La consapevolezza di essere privilegiati nella vita è evidente. Rasenta quasi uno stato di superiorità nei confronti delle generazioni più adulte, anche giovanili. È una sorta di diritto acquisito e non messo mai in discussione. Nessuno mi deve dire niente. La vita è mia.
La consapevolezza che da questo modo di vivere si deve ogni tanto uscire, sballare, perché, così com’è, la vita non è soddisfacente, è esperienza normale. Ma lo sballo ti porta una serie di conseguenze negative: le lagne dei genitori, restare intronati per molto tempo, perdere qualità espressive, ritorno deludente alla normalità… ma ne valeva la pena! Si sacrifica la tranquillità a un buco da cui vedere un altro orizzonte, anche se è falso.
I giovani hanno consapevolezza di essere serviti e sono soddisfatti di godere di questo stato di gratuità, senza tante domande, verso la convinzione di avere una sorta di diritto.
Alta è la necessità di stare in compagnia, che ancora non è amicizia, ma è dire, parlare, sparare idiozie, sentirsi, vedersi, oltre ogni momento virtuale che pure aiuta in questa direzione. Contenti di stare gratis a viversi. Con tutti gli strumenti che condiscono lo stare assieme: la sigaretta, lo spinello, il cellulare con qualche foto non troppo castigata, le sonerie e la raccolta di mpeg o l’ipod.
La vita è bella e non è vero che sei solo: qualcuno ti protegge sempre. I genitori, basta toccarli sul loro orgoglio e sul confronto con gli altri che te li conquisti a tutte le tue cause o paranoie.
Le domande di senso hanno sempre un sopravvento indiscusso: non c’è un ragazzo che non se le senta addosso e che faccia fatica ad ammettere di essere sempre al punto di partenza; hanno domande alle quali nessuno li aiuta a rispondere.
Occorre riempire la vita; questo lo fa la scuola, come riempitivo: e qui però rischi di essere frustrato e umiliato; lo fa lo sport; per molti, lo fa lo “spaccetto” di droga, per garantirsene il fabbisogno senza dipendere da nessuno, ma creando dipendenti sicuri e piccole disponibilità per muoversi; lo fa il lavoro, anche se precario.
È in atto un forte anticipo dei tempi di indipendenza o, meglio, di solitudine nell’affrontare la vita; già nell’età della preadolescenza sei lasciato solo con un bagaglio di informazioni che non vengono interiorizzate e valutate sotto un aspetto etico, c’è consumo di esperienze senza guida. Ognuno si deve fare un giudizio da solo, senza riferimenti e senza poter inquadrare le informazioni in una sequenza vitale di rapporti e di confronti.
Oggi i giovani hanno molta disponibilità ad ascoltare la verità, un rifiuto assoluto di qualsiasi imposizione ideologica, sono sempre in attesa di qualche novità, godono di grande libertà di movimento, che spesso usano come fuga dalla realtà…
Precarietà
Se c’è una caratteristica che permette di dare una visione diffusa del mondo giovanile di oggi è proprio la provvisorietà di tutto: abitano in tenda, molto confortevole, ben servita, ma sempre solo un punto di appoggio per ricamare il territorio dei propri spostamenti.
Precarietà è ricerca, è mettere alla prova le proprie qualità e la capacità di adattamento; precarietà è cambiare ambienti e poter fare utili confronti; precarietà è farsi un’esperienza di rapporti con varie persone, con il datore di lavoro, con i compagni di lavoro che cambiano continuamente; precarietà è dare corpo a progetti e non pagare eccessivamente se risultano sbagliati o deboli: si può ricominciare di nuovo in altri contesti e con altre condizioni; precarietà è star sospesi nella vita e continuamente rimandare le decisioni che già si fa fatica a prendere.
Precarietà, però, è anche sentirsi di nessuno, essere usato con finanziamenti promozionali per una migliore qualificazione e non vederne nemmeno l’ombra. Precarietà è anche non riuscire a mettere radici, è non poter avere uno stipendio fisso e quindi il mutuo per affrontare le spese necessarie per mettere su casa. Precarietà è essersi preparati e qualificati a fare qualcosa di bello che ti piace e adattarsi per troppo tempo a vivere di rimedi.
Ti sei impegnato al massimo negli studi per ottenere un’identità professionale e, quando hai finito, quell’identità non è più spendibile sul mercato. Ti chiedi, allora, se valeva la pena fare tanti sacrifici o se forse non sarebbe stato meglio imparare a navigare a vista o avere avuto indicazioni che ti aiutavano a cambiare quando capivi che la strada era sbagliata. Non ti azzardare più a chiedere a un giovane che lavoro fa per farti un’idea della sua personalità, del suo giro di persone, dei suoi interessi, delle sue aspirazioni, perché il suo lavoro non lo identifica e domani, se non stasera stessa, sarà già cambiato.
E dentro, come ci si sente?
Per molti è crisi nera. È continuare a rimandare le scelte fondamentali della vita o per lo meno avere una copertura ufficiale per camuffare l’incapacità di scegliere la propria strada. Chi ha puntato su un’identità da immagine si sente frustrato, perché non sempre le immagini che gli vengono appiccicate gli vanno bene. In un rapporto di coppia i problemi sono moltiplicati per due e sicuramente non sono risolti contemporaneamente. Noi italiani soprattutto, siamo un popolo di mammoni; noi non siamo americani, che stanno a mille miglia dalla mamma già a diciotto anni e sperano di non tornarci più; dove gli amici non sono quelli della contrada o della confraternita o della piazza, ma del college, presi a prestito oggi e mollati domani, come quando si faceva la naia. Io, dai miei amici, ci voglio tornare ogni sabato notte, altrimenti non mi pare di esistere. Non mi interessa se domenica pomeriggio sono già in treno o in aeroporto per tornare al lavoro con la borsa piena di vestiti lavati, stirati e profumati e il dolce fatto in casa per gli amici.
Una “precarietà” diffusa
Ieri si decideva a diciott’anni: “È finita l’età della stupidera, è ora di mettere la testa a posto. Se non vuoi lavorare, va’ all’università e decidi da che parte stare; se vuoi lavorare, sappi che sarai sempre come hai cominciato. Non fare come me, cercati un futuro più arioso. Hai una ragazza? Mettiti a posto intanto che ti possiamo dare una mano anche noi. Hai il ragazzo? Tienitelo stretto, altrimenti farai la zia”. E si andava a studiare decisi: ingegnere, medico, avvocato, insegnante, ricercatore… oppure ci si fermava in un buon lavoro e cominciavano ad arrivare soldi e soddisfazioni. Ci si poteva anche sposare. Una fatica boia a trovare la casa, ma prima o poi si riusciva. Oggi a diciott’anni non decidi un bel niente e se per caso ti sei buttato su una strada con un po’ di ingenuità, a 25 anni rimetti tutto in discussione, affetti compresi, ragazzo
o ragazza compresi. Oggi i giovani decidono della loro vita almeno in due tempi: durante la fine dell’adolescenza, come prima, con tante sospensioni, tanti “vediamo”, tanti “per adesso” e soprattutto, dicono le statistiche, a 25 anni. Non occorre essere così categorici, anche se i dati statistici definiscono un termine preciso (cf indagine Iard, Giovani del nuovo secolo). È tutto però molto verosimile. Infatti, verso i 24-25 anni terminano i corsi universitari e si delinea una sorta di prospettiva professionale più chiara; soprattutto si ha in mano qualcosa cui da tempo si pensava e si sperimenta se è solo carta o concreta possibilità di definire una rotta per la vita; mentre, per chi lavora, si delinea all’orizzonte un’occupazione che pone termine al massimo di precarietà degli anni precedenti.
Precario vuol dire “oggi sì, domani no”, ma anche delicato, prezioso, facilmente distruttibile e manipolabile. Significa non credere che alle impressioni, ma anche orientare sentimenti ed emozioni verso un progetto da definire sempre meglio. Significa che cerchi una sicurezza interiore che ti dia forza, come quando fai una scalata in free climbing o salti sul trapezio senza rete di protezione. Può essere l’atteggiamento di chi vuol tenere i piedi in due scarpe oppure di chi vuol camminare su due gambe, cioè di uno che decide di fare una strada e la percorre assieme con tenacia, con pazienza, senza fretta.
Che cosa i giovani chiedono?
Punti solidi di confronto e noi stiamo sempre a cambiare e a vivere di tentativi
Quando si parla a dei giovani e ci si sporge dalla parte delle domande di senso, di felicità, di futuro, di decisioni per la vita si trova sempre una grande attenzione. Esiste una sete di qualcuno che si affianchi in questa ricerca difficile, che non gode di una grande continuità, ma che affiora sempre per tenere desta la loro umanità. Pur nella vivacità e nella voglia di novità, i giovani hanno bisogno di riferimenti sicuri e stabili, distribuiti nella vita sempre, non a ore. Un quadro di attività anche programmato, ma innervato di grande afflato comunicativo, è necessario. Il nostro modo di stare con loro invece spesso è mutevole: sembra rinnovarsi, ma disperde le energie e frustra le attese. È dimostrato in ogni comunità o diocesi che deve esistere una sorta di tradizione che offre momenti stabili di incontro, di approfondimento, di dialogo, di comunicazione capaci di rinnovarsi e di riscriversi, ma entro un quadro di stabilità.
Orizzonti più ampi verso i quali c’è un’inerzia sempre più grande
Sembrano adattarsi alla legge del branco, che un po’ alla volta percepiscono come schiavitù, in cui vige la legge dell’amore tra carnefice e vittima. Non si sanno staccare da una banda, da una compagnia al ribasso. Percepiscono che è una schiavitù, vorrebbero respirare aria fresca, ma l’inerzia che li tiene legati alla piazzetta, al pub, alla compagnia, alle abitudini, ai rituali del sabato e della domenica, dello sport e delle scorribande è troppo alta e ha bisogno di pazienza educativa, condivisione, intersezione di vite, piccoli e calibrati interventi di bonifica antropologica per essere superata. Poi, quando meno te l’aspetti, scatta una sorta di liberazione e di adesione a momenti di apertura.
Spazi di riconoscimento tra amici e di grande comunicazione
Il giovane cerca comunicazione, il massimo possibile di ascolto e di espressività, perché si porta dentro troppi bisogni, desideri, sogni, paure, cattiverie e generosità che debbono esplodere. I nostri ambienti spesso sono selettivi a questo riguardo e non permettono ai ragazzi di dirsi senza essere subito giudicati. È sempre importante creare reti di relazioni di ogni tipo, occasioni di scambio il più ampio possibile, senza legami troppo stretti che fermano l’evoluzione del giovane, come per esempio a una sorta di clima che s’è creato nel gruppo. Non possono vivere senza l’approvazione e la compagnia di amici. Se la proposta di fede non è raccontabile nelle appartenenze di base, è come se non esistesse.
Ragioni di vita culturali e non solo sentimentali
Non è vero che i giovani non ragionano, che non hanno bisogno di motivazioni vere. Spesso purtroppo sono lasciati soli nelle loro riflessioni, si vergognano di dire quello che pensano sui fatti della vita e lo tengono per sé. I mass media impongono le immagini della realtà, che spesso li permeano acriticamente. Hanno invece bisogno di rappresentazioni culturali trovate da loro, offerte e acquisite in una ricerca di libertà e creatività. Con la musica comunicano di più che con altri mezzi espressivi: potrebbe essere un punto di partenza per allargare ed approfondire culturalmente la ragioni del vivere e del credere. L’esperienza di fede è carica di molte domande che non trovano mai risposta, se non sentimentale. È utile il sentimento, ma non regge se non è accompagnato dalle motivazioni razionali. In questo il Papa ci stimola sempre ad allargare lo spazio razionale della fede.
Impiego di energie per qualcosa che vale
Hanno energie a non finire. Purtroppo non sono impiegate in nessun campo e l’educatore ha una scusante: non vogliono impegnarsi in niente. Il problema è di trovarne una canalizzazione che li interpreta, altrimenti le energie vanno nella composizione di bande e di piccole criminalità, di scatenamento cieco, fin dalla preadolescenza. La forza che hanno gli adolescenti nel condurre esperienze educative come le settimane estive, dà l’idea delle grandi capacità. Vogliono essere utili, impiegati a costruire qualcosa di bello, ma sono purtroppo spesso lasciati a se stessi, senza obiettivi. Dire che non accettano niente vuol dire solo che non abbiamo trovato la strada giusta.
Compagnia continuata e a prova di tradimento
Non possono vivere soli, hanno bisogno di una spalla su cui piangere o gioire, appoggiarsi e dire, ritornare dopo le sbandate e le carognate che fanno. La compagnia di un educatore o di un adulto deve essere a prova di tradimento. Non t’aspettare da un giovane la fedeltà. La sua precarietà lo porta a girovagare, a tentare; il mondo in cui vive è molto variegato, insospettabile, le esperienze che incontra non sono tutte raccontabili; ti tradisce, ma non bisogna mollarlo per questo. I piccoli e grandi tradimenti sono la prova per vedere se nel trapezio della vita tu resisti come rete di protezione. Non t’aspettare subito e sempre la sincerità: la verità che ti dice è sempre quella che gli serve per proteggersi.
Percorsi di decisione
Dentro questa continua mutazione occorre, però, avviare e sostenere percorsi di decisione, piccole e grandi esperienze che lo aiutino a conquistare consapevolezza di sé, forza di scegliere, dubbi da mettere al vaglio dell’esperienza. I percorsi hanno bisogno sempre di esperienze concrete, alcune con il paracadute, altre senza. Alcune con un’assistenza a vista, altre nel massimo della libertà e dell’ambiente. Molti non si sentono liberi se non possono decidere senza il controllo di nessuno. Qui l’educazione affronta il rischio più arduo, ma occorre correrlo anche per dare al giovane il senso della sua libertà. È lui che deve cercare poi il confronto. Ogni percorso va calcolato, ha bisogno di essere progettato, di incontrare persone libere e responsabili.
La gratuità massima
I percorsi di formazione, le esperienze di vita cristiana devono essere sempre nel massimo della gratuità. La proposta della messa festiva, che è per la maggioranza l’unica proposta che fa la Chiesa, non è per loro nel genere del gratuito, ma del far piacere a qualcuno o del sottostare a qualcosa che non fa parte delle scelte personali. È vista come un pedaggio da pagare. È un’abitudine che va riconquistata entro un riferimento amicale, con scelte anche graduali.
Ha bisogno di esperienze anche straordinarie, soprattutto se la famiglia non le apprezza o le usa come grimaldello per far passare le proprie visioni di mondo e di fede, o come ricatto per ampliare spazi di gestione libera di sé.
La missione dove sta?
Annunciamo la fede che abbiamo o abbiamo la fede che annunciamo? Per loro l’unica fede che interessa è quella che può reggere il confronto con gli amici, con tutti; quella che riescono a conquistare nel rischio di una esposizione, senza rete di protezione.
La dimensione missionaria non è esterna alla decisione vocazionale, quasi che uno dica: prima mi faccio prete, prima mi ritiro in convento, mi preparo e poi vado all’attacco. È invece la prima prova da affrontare, la prima conferma da avere. Se decidono di dedicarsi a Dio nella verginità o nel celibato, il primo scoglio da superare è: come farlo capire ai miei compagni? Come può risuonare in loro come scelta vera della vita, come messaggio che esprime dignità, anche se non lo condividono. Non è che cerchino l’approvazione o il permesso: sanno che molti non la pensano come loro, ma vogliono lasciare nei compagni un segno di amicizia, una scelta che non condanna né disprezza, ma che può essere solo rispettata. Da loro gli amici, infatti, vanno a prendere consiglio quando sono “incasinati”, magari senza farlo vedere a tutti. Questa è già missionarietà. Lui o lei vogliono solo che gli altri abbiano in cuore quella nostalgia del bene che essi avvertono e vogliono che la scelta sia letta in sintonia con questo bene profondo dell’anima che tutti hanno. Essere missionari è anche questo. Nelle discussioni scolastiche si sono spesso tenuti nascosti, hanno ritenuto inutile confrontarsi, ma sapranno decidere, e lo sanno, solo quando avranno il coraggio di sostenere il dibattito, di rischiare di uscire perdenti, di sentirsi deboli, magari non apprezzati.
Poi vengono i momenti dei saluti, della conclusione degli studi, dei piccoli amarcord e quando la vita, magari sotto il tiro degli esami, cerca di fare sintesi, allora tutto si colloca nella dimensione vera della vita che non è un’accozzaglia di fatti, di scontri, di furbate, ma una collana sensata, una storia. Se le nostre vite non diventano una storia, non val la pena di viverle, dice un romanziere canadese.
Missionarietà è anche capacità di farsi pellegrini, di staccarsi dalle proprie comodità. Ma questa qualità sta diventando una necessità per tutti i giovani che cercano lavoro, che vogliono avviarsi ad una professione soddisfacente.
Insomma la missione è scritta già nella vita dei giovani: ha bisogno solo di avere un nome, di approfondire la sua sorgente, di orientarsi alla fede, di configurare la vita cristiana, che purtroppo è sempre e solo proposta di sopravvivenza, di placebo contro le difficoltà della vita.
Nessun ragazzo, oggi, crede che fare il cristiano sia star comodo nel proprio piccolo mondo parrocchiale. Tutti sanno che andare in chiesa, passare all’oratorio, frequentare la Messa è esporsi al giudizio di tutti. Per la maggioranza dei giovani, la difficoltà più grossa per la partecipazione alla vita cristiana è la timidezza nel sostenere la propria visione di vita, i gesti che si fanno di fronte agli amici, alla cultura egemone della scuola, che disprezza, se non il cristianesimo, sicuramente la Chiesa.
Per questo, come educatori, abbiamo una grossa responsabilità, non offriamo tirocini di coraggio, di capacità di esserci, con tutta l’umiltà che i nostri peccati ci impongono, ma con la parresìa di Stefano e di tutti i giovani che hanno dato la vita per Gesù.
Vi leggo una testimonianza di un giovane presidente di Azione Cattolica nel Sud Tirolo, Joseph Mayr – Nusser:
Io, l’Azione Cattolica la sogno così: selettiva, se volete, non nel senso che scarta, ma nel senso che alza il tiro e la qualità della proposta; qualificata per una testimonianza vera, audace, controcorrente, con un progetto missionario scritto nel DNA di ogni momento di vita. Che cosa dicono i ragazzi che fanno i cristiani in parrocchia se quando si va a scuola hanno vergogna a trovarsi in una chiesetta vicina a dire le lodi, a pregare? C’è qualcuno però che in questi contesti li sostiene? O i nostri stessi cristiani adulti si mimetizzano, insegnanti compresi?
La nostra proposta è spesso acqua tiepida, se resta nella cerchia dei nostri turbamenti interiori soltanto; se continua ad arrovellarsi sui rapporti con il gruppo, sulle sue dinamiche, sulle riunioni che sembrano più trasmissioni come “amici” che confronti con il tempo che viviamo, i problemi che affrontiamo.
Bastano due o tre professori atei o contrari alla Chiesa per cancellare tutte le tracce culturali dell’esperienza cristiana nella scuola e noi alla sera andiamo a fare la riunione in parrocchia, a litigare perché non siamo puntuali e perché c’è sempre qualcuno che è lasciato solo a fare le pulizie nella stanza…
Moltissimi si fanno gli spinelli e tirano di coca a scuola, facendo come vogliono, e noi ci ritiriamo a consolarci tra di noi, senza mettere in piedi un laicissimo senso di responsabilità con tutti quelli che vogliono una scuola pulita.
Così è anche il mondo del lavoro, anche se l’abilità professionale, i rapporti più umani e veri aiutano di più a far emergere il carattere, le idee, le tensioni e le visioni di vita. Qui, forse, diventa drammatico il ricatto del posto, della carriera, dell’adattamento al volere del capo. In parrocchia c’è spazio per parlarne, per crescere in dignità, per interpretare il lavoro come percorso di formazione e missione?
Insomma: non c’è possibilità di risposta a nessuna chiamata cristiana, se non dentro un atteggiamento che si porta dentro l’ardore della missione.