Per una pastorale della interiorità e della fraternità
Ringrazio moltissimo don Nico per avermi invitato a questo momento di riflessione e don Sergio Nicolli per la sua relazione; non vi è alcun dubbio che la pastorale giovanile, familiare e vocazionale debbano camminare insieme. Il tono del mio breve intervento sarà per lo più pastorale. Dal punto di vista teologico vorrei ricordare a me stesso e a voi, per quanto riguarda le vocazioni di speciale consacrazione, la chiarezza del Vangelo: Gesù chiamò a sé quelli che volle; la vocazione alla vita consacrata quindi non potrà mai essere indotta, né suggerita; potrà soltanto essere riconosciuta ed accolta. Il nostro compito di animatori vocazionali e di educatori sarà quindi quello di aiutare il giovane a creare le condizioni perché la chiamata sia davvero riconosciuta.
A questo proposito desidero quindi parlare della necessità di una pastorale dell’interiorità. La voce di Dio risuona nel profondo del cuore di ogni persona ed in particolare di ogni giovane; per ascoltarla è necessario silenzio interiore e ascolto del proprio cuore. È necessario scendere dentro noi stessi con coraggio. Questo pellegrinaggio interiore necessita di luoghi, tempi e guide capaci.
Risulta pastoralmente necessario far conoscere e promuovere nelle nostre diocesi e nella comunità cristiana i luoghi di silenzio e di preghiera. Questi luoghi di silenzio e di preghiera nelle nostre diocesi esistono già; molte case religiose possono essere vere scuole di preghiera ed oasi spirituali.
Ai giovani va proposto con coraggio uno stile di vita raccolta, mistica; una misura di vita spirituale alta, molto alta, come suggeriva Giovanni Paolo II. Una pastorale dell’interiorità necessita di maestri che aiutino i giovani a conoscere i movimenti dello Spirito. Il sacramento della Riconciliazione e la direzione spirituale sono passaggi sempre presenti nella vita di qualunque consacrato.
A fianco dell’interiorità, che è la risposta alla superficialità dilagante, che coinvolge anche il mondo giovanile, suggerirei di percorrere con coraggio una pastorale della fraternità: è importante che il giovane chiamato alla vita consacrata veda che la chiamata alla verginità e al celibato non è una scelta di solitudine bensì un’occasione di vivere una fraternità ancora più grande.
Le case religiose sono un esempio chiaro di fraternità vissuta e questo dono è quanto mai attraente per il mondo giovanile che, al contrario, spesso vive esperienze di solitudine. Il carisma della singola famiglia consacrata, se vissuta nel più ampio carisma della vita fraterna, risulta essere una grande testimonianza vocazionale. Così pure i seminari e i presbiteri: le relazioni fra consacrati devono far trasparire una gioia fraterna.
Rispondo infine ad alcune domande che mi sono state rivolte.
– La prima riguarda il rapporto tra la pastorale giovanile diocesana e la pastorale giovanile degli istituti di vita consacrata, o meglio tra parrocchia e comunità di vita consacrata. Ritengo che le due realtà ecclesiali non possano essere in contrasto perché ambedue sono suscitate dallo stesso Spirito; è bene che gli istituti di vita consacrata partecipino alla vita diocesana e parrocchiale e contemporaneamente abbiano la possibilità di fare proposte pastorali nelle proprie comunità; questa è ovviamente una mia opinione.
– La seconda domanda riguarda le proposte da fare ai giovani e il loro linguaggio. Mi permetto di dire – ed anche queste sono opinioni del tutto personali – che non dobbiamo preoccuparci troppo dei linguaggi, perché dove c’è l’amore questo è sufficiente: una nonna non ha bisogno di corsi speciali per stare vicino al proprio nipotino. Una certa attenzione la rivolgerei piuttosto allo stile educativo ed al protagonismo dei giovani: spesso la nostra pastorale è troppo centrata sugli adulti. Ritengo che questa questione sia veramente centrale, anche dal punto di vista vocazionale: dobbiamo aiutare i giovani a prendere in mano la loro vita, cominciando dalle piccole cose, tenendo conto della realtà dei loro gusti, dei loro bisogni.
Vorrei spiegarmi con un esempio. Se un ragazzo ci chiede un cartoccio di patatine fritte l’educatore può rispondere in vari modi: fingendo indifferenza, proponendo patatine al forno, comprando un pacchetto di patatine fritte, cucinandole lui oppure affiancando il ragazzo, insegnandogli a pelare le patate, a maneggiare un coltello ed una padella, spiegandogli come accendere un fuoco, come dosare l’olio ed il sale ed infine mangiandole con lui: saranno le più buone patatine del mondo perché le ha fatte lui… forse ci avrà messo due ore in più di quelle che avrebbe speso andando al Mc Donald sotto casa, però quel ragazzo ha scoperto che ce la poteva fare, che poteva tenere in mano una padella piena di olio bollente… piano piano prenderà in mano una giornata di gioco, un gruppo giovanile, la propria fede e poi la propria vita, la propria vocazione, la propria felicità.
– La terza domanda riguarda la missionarietà vocazionale; credo sia vero il fatto che la proposta vocazionale vada fatta a tutti, anche al di fuori dei cosiddetti nostri ambienti; questi ambienti vengono raggiunti con grande difficoltà e sospetto dai sacerdoti e dai consacrati in genere; sono invece abitati quotidianamente dai nostri giovani: l’università, la scuola, il lavoro. Il Vangelo, ed in particolare la vocazione, si è diffusa da persona a persona; spetta anche ai giovani rendersi missionari presso i propri amici.
– Un’ultima domanda è piuttosto una precisazione: la pastorale dell’interiorità deve avere un volto, il volto di Gesù; oggi la proposta spirituale è molto abbondante, ma è una proposta anonima, vuota, in molti casi addirittura “atea”.