Una gioia vissuta… una gioia donata
La proposta di questo numero della rivista «Vocazioni» si articola attorno alla straordinaria espressione di Paolo in 2Cor 1,24, quando egli afferma:
«Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi».
Oramai l’evento di grazia rappresentato dall’Anno Sacerdotale si avvia verso la sua conclusione e credo che questa espressione paolina rappresenti una delle consegne testimoniali più efficaci e feconde per il ministero del presbitero, ma anche per ogni scelta vocazionale che viva il dono del ministero della consolazione attraverso l’accompagnamento spirituale e vocazionale.
Questo numero di «Vocazioni» ha la fortuna di sintetizzare due cammini che si sono incrociati insieme in maniera non casuale e comunque significativa: la riflessione articolata attorno all’espressione paolina dell’essere collaboratori della gioia e il Seminario di studio, organizzato insieme dal Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile, dal Centro Nazionale Vocazioni e dalla Commissione Presbiterale Italiana, che si è svolto a Roma dal 10 all’11 febbraio u.s. sul tema: “Collaboratori della vostra gioia”: il sacramento della riconciliazione e la direzione spirituale.
Per annunciare la gioia, per seminarla nei cuori, per farla crescere, per renderla una realtà più visibile nella nostra epoca delle “passioni tristi”, occorre viverla dentro di sé; quantomeno, è importante essere noi per primi pellegrini e cercatori di gioia.
Talvolta pensiamo che le nostre imperfezioni, le nostre resistenze, le nostre paure andrebbero totalmente cancellate e annullate, per poterci dire veramente felici. Pensiamo che solo se imbocchiamo la via della perfezione umana, o psicologica e spirituale, solo allora saremo in grado di giungere alla meta della serenità interiore.
Nulla di più sbagliato! La gioia del cuore non è l’Himalaya dei perfetti, ma il sentiero rischioso eppure affascinante, perché sempre in divenire, di coloro che vedono la povertà delle proprie mani vuote, che avvertono la stanchezza del proprio andare e che vivono, anche con sofferenza, le aridità e le incertezze del proprio cuore.
C’è un aneddoto molto bello che può ridare fiato e speranza a questa nostra ricerca, quando essa corre il rischio di lasciarsi ipnotizzare da queste fatue illusioni della vita: è la storia di un’Anfora imperfetta.
«Ogni giorno, un contadino portava l’acqua dalla sorgente al villaggio in due grosse anfore che legava sulla groppa dell’asino, che gli trotterellava accanto. Una delle anfore, vecchia e piena di crepe e fessure, durante il viaggio perdeva acqua. L’altra, nuova e perfetta, conservava tutto il contenuto senza perderne neppure una goccia. L’anfora vecchia e screpolata si sentiva umiliata e inutile, tanto più che l’anfora nuova non perdeva l’occasione di far notare la sua perfezione: “Non perdo neanche una stilla d’acqua, io!”.
Un mattino, la vecchia anfora si confidò con il padrone: “Lo sai, sono cosciente dei miei limiti. Sprechi tempo, fatica e soldi per colpa mia. Quando arriviamo al villaggio io sono mezza vuota. Perdona la mia debolezza e le mie ferite”.
Il giorno dopo, durante il viaggio, il padrone si rivolse all’anfora screpolata e le disse: “Guarda il bordo della strada”. “È bellissimo, pieno di fiori”.
“Solo grazie a te – disse il padrone – sei tu che ogni giorno innaffi il bordo della strada; io ho comperato un pacchetto di semi di fiori e li ho seminati lungo la strada e, senza saperlo e senza volerlo, tu li innaffi ogni giorno”».
Credo siano tre gli atteggiamenti fondamentali da poter assumere nella nostra vita che cerca felicità: il pessimismo come ritorno al passato, il puro godimento nell’attimo fuggente del presente, lo slancio verso l’avvenire. Sono tre modalità diverse di cercare la gioia lasciandoci coinvolgere dalle intuizioni di P. Teilhard De Chardin.
La prima è una gioia nel segno della quiete, senza preoccupazioni, senza rischi, senza sforzi. L’uomo felice è colui che meno pensa, meno sente e meno desidera.
Oppure, ci può essere la gioia conseguenza del piacere: ma è un piacere immobile, dove lo scopo della nostra esistenza non è agire o creare, ma semplicemente… godere. Lo sforzo è minimo, appena lo stretto necessario che ci viene richiesto per cogliere come una foglia il più possibile dei raggi di sole, per provare più intensamente la felicità. Manca la consapevolezza, per questi uomini e donne del nostro tempo, che l’attimo che viene assaporato intensamente sfugge loro di mano senza che se ne rendano conto.
La terza via, o meglio la terza meta, è la gioia frutto del divenire e della ricerca. In questa prospettiva la felicità interiore non è più un fine in se stesso da cercare quasi con angoscia, ma una conseguenza, un effetto di un modo di essere e di vivere. È la ricompensa di un’azione finalizzata ai grandi e sacri valori della vita. Non ci può essere felicità senza sofferenza e senza la fatica della salita.
Allora, la persona felice nel profondo del proprio essere è colei che, senza cercare direttamente la felicità, incontra la gioia quando, ricercando la beatitudine interiore, dona se stessa agli altri con gratuità e tutta la sua vita viene proiettata in avanti, proiettata in alto e verso l’Altro.
Da questa terra sfortunata, o Bontà infinita, allontana tutte le paure inutili:
la paura degli uomini, la paura dei padroni, la paura della morte;
il peso della mole di un animo vile e debole,
la continua decadenza dentro la polvere, ogni momento, istante per istante;
l’avvilimento dentro e fuori, le catene della schiavitù,
l’umiliazione paurosa del continuo ed eterno abbandono
della suprema dignità umana, sotto mille piedi spregevoli.
Con i colpi dei tuoi piedi fa’ in mille pezzi questo cumulo di vergogne.
E in un’aurora serena, fa’ che possa alzare la testa nel cielo infinito,
in mezzo alla luce piena, all’aria libera.
(Robindronath Tagore)