Una comunità cristiana vocazionale …è possibile?
Una comunità cristiana vocazionale… è possibile?
E’ sempre difficile offrire una riflessione che tenga conto contemporaneamente degli elementi teologici e delle componenti socio-culturali del tempo: servono la fatica e il rigore del concetto, facendo un poco gli equilibristi sul filo teso della ragione, insieme ad un ascolto attento della tradizione e della Scrittura, e occhi e orecchi aperti al tempo e agli uomini e alle donne di questo tempo…
Eppure ci è più che mai necessario oggi tentare di tradurre il tesoro che ci è affidato non solo in un linguaggio comprensibile, ma ben di più in una matera viva che innazi tutto interroga noi stessi, coloro che credono, di fronte al tempo che ci è dato da vivere, tempo che crediamo appunto essere per noi il tempo della salvezza.
Dunque, forse, alla fine di questa riflessione che vorrei condividere con voi, avremo raccolto più domande che non risposte: non lo considero un risultato negativo, tutt’altro! Davvero ci è necessario ricominciare a domandarci come diventare trasarenti della verità che ci possiede.
Come premessa generale, vorrei dire, perciò, che userò colori un po’ accesi, con poche sfumature, a rischio di mettere in campo affermazioni dure: a voi il compito di ammorbidire, di sfumare. E lo farò perché l’occasione di condivisione di una riflessione non è il luogo per gratificarci semplicemente con quanto è già chiaro, ma piuttosto quella di farci provocare da un punto di vista forse non abituale e dai contributi degli altri per compiere un passo in avanti e superare il “già stabilito”. Forse il tono vi risuonerà anche un po’ provocatorio, abbiate pazienza. Mi piacerebbe davvero che alla fine di questo percorso avessimo scoperto qualcosa che ci metta in movimento, che ci interroghi e ci inquieti un poco.
- Premessa: questione di parole?
Per tutto questo vorrei iniziare ponendo in discussione immediatamente una questione, forse irrituale, che è la seguente: questo titolo che mi è stato assegnato (“una comunità cristiana vocazionale” e ancora di più con la domanda che segue “è possibile?”) è un titolo immenso, solo per essere commentato (e non svolto!) richiederebbe due o tre relazioni. Infatti, una dei miei punti di partenza è proprio la convinzione che abbiamo perso di vista e sottovalutiamo la delicatezza e la forza di alcune parole-chiave della nostra esperienza, che non sono però parole qualsiasi, e che invece rischiamo di usare come parole qualsiasi, quasi slogan, come se fossero autoevidenti..
Ad esempio: quando diciamo “comunità cristiana”, cosa diciamo veramente? Ci vengono in mente immediatamente alcune immagini in modo automatico, la comunità parrocchiale, la diocesi, la chiesa universale…, ma se facessimo insieme l’esercizio di dire cosa ciascuno di noi intende come immediatezza per comunità cristiana, avremmo, credo, molto da discutere.
Voglio dire che non si può (più) dare per scontata la comprensibilità e il riferimento simbolico condiviso neppure dei concetti basilari, delle nozioni iniziali, dell’esperienza credente: la comunità cristiana è là dove due o tre sono uniti nel nome di Gesù? Certo; uniti dalla preghiera? Certo; ma anche se sono solo uniti dalla carità? Beh, si, certo; anche se non sono esplicitamente uniti dalla preghiera? Beh, se c’è la carità… la carità viene da Dio! Anche uniti da una dimensione istituzionale? Beh, non in senso burocratico, ma nel senso della presenza del ministero in successione apostolica si, perché altrimenti non c’è Eucaristia. Vedete che quando proviamo a dire cosa è una comunità cristiana, al di là delle immagini che a ciascuno di noi vengono in mente, che in genere corrispondono alle nostre comunità cristiane di riferimento, il problema si presenta e cominciano a sorgere distinzioni, distinguo, accenti.
Poi si dice “vocazionale”; che significa? Non devo certo spiegarlo a voi… La vocazione ha una dimensione intima? Certo, ognuno deve decidere nel suo cuore il santo viaggio, altrimenti non è vero e sincero… Ma ha una dimensione pubblica, storica, corporea, delle forme riconosciute? Certo, non basta che si abbia “l’intenzione” di seguire Gesù, bisogna convertire il proprio cuore e poi mettersi concretamente in moto. Ma, per esempio: fare la teologa o la biblista essendo laiche, è una vocazione? Sì, certo. Ma è una vocazione che ha oggi una forma storica, istituzionale, economica e professionale stabilita? No, certo che no. Siamo free lance che devono tenere insieme molte cose. C’è una dimensione ecclesiale nell’essere teologo? Sì. C’è un mandato istituzionale? In questo momento no, se non attraverso gli incarichi di insegnamento, che però sempre meno esprimono la totalità del servizio che la teologia può offrire alle comunità cristiane e ricoprono solo una parte della vocazione del teologo.
Vi inviterei dunque a compiere un primo lavoro (quasi) di “igiene” concettuale e linguistica, e cioè ricominciare ad usare la parole sottovoce e senza punti esclamativi. Vi inviterei ad abbassare cioè il tono eccessivamente sloganistico che, per generosità e per entusiasmo, ogni tanto ci domina, tono in cui tutto sembra chiaro, tutto sembra autoevidente e diciamo frasi del tipo “occorre seguire Gesù” come se questa espressione fosse in sé comprensibile senza sforzo e si trattasse solo di decidere.
Mi piacerebbe invece che imparassimo di nuovo a prendere le mosse da un altro principio: poiché Dio ci ha creati e in fondo al cuore di ogni uomo e di ogni donna c’è lo Spirito che Dio vi ha posto, a priori, ogni essere umano seguirebbe la vie di Dio se gli fossero evidenti, se potesse riconoscernene il valore di benedizione e sapesse come fare. Invece proprio qui sta il problema, non sapere e potere riconoscere e non sapere il “come”. E come per ciascuno di noi non è stato banale, né breve, né facile, e non lo sarà nei giorni che ancora Dio ci darà da vivere, scoprire il “come” seguire il Signore, e certi giorni lo sappiamo meglio, e certi giorni peggio, così per nessun uomo, per nessuna donna su questa terra, è banale o autoevidente scoprire, acccogliere e attuare il “come” del seguire le vie di Dio.
Forse dovremmo ripartire davvero da qui, dal non dare nulla per scontato.
- Una transizione epocale
E dovremmo farlo anche (o soprattutto) perché siamo in un tempo di transizione, quanto alle forme e alle parole del cristianesimo vissuto, assolutamente epocale. La transizione in cui siamo è paragonabile solo, nella storia del cristianesimo, a quella vissuta tra il II e il V secolo; non abbiamo un altro antecedente storico meno impegnativo di questo: è paragonabile al passaggio dall’epoca delle persecuzioni al cristianesimo imperiale, e come tutti abbiamo studiato a scuola si è trattato di un passaggio decisamente enorme e significativo. Anche perché nel frattempo ci sono stati i grandi Concili della Chiesa unita, Nicea, Caldedonia, ecc.: esattamente, il passaggio era talmente grande e trasformativo che è stato necessario inventare un linguaggio, dei pensieri, delle parole, una filosofia, strumenti e un modo di conformare una cultura per dire “come ogni giorno nuova” la notizia di Gesù. E questa ricerca è stata un travaglio di conflitti, di tentativi, di consensi e dissensi, di idee, di strutture, di simboliche e immagini mentali; ma anche di lotte e di fatica, e sono serviti secoli per trovare un equilibrio.
Siamo anche noi in un transito epocale di cui mi sembra siamo pochissimo consapevoli: ci rendiamo davvero conto di cosa sta succedendo? Di come la questione non sia semplicemente quello che ogni generazione deve fare, cioè un po’ di “manutenzione” delle forme di vita cristina, con qualche correzione e qualche aggiustamento, ma piuttosto la necessità di una radicale ristrutturazione del modi di dire, di fare e di pensare che stanno diventando opachi di ciò che dovrebbero trasmettere, e a volte addirittura controproducenti. Mi pare che anche in questo caso, il parlare molto della crisi ha logorato la realtà e non siamo consapevoli di quello che andiamo dicendo.
Rimando, per l’approfondimento e lo studio specifico delle dinamiche di questa svolta epocale, a due testi di Ghislain Lafont, che si intitolano rispettivamente Storia teologica della chiesa e Immaginare la chiesa cattolica che vi possono offrire tutte gli approfondimenti e le notizie storiche e documentarie che non posso illustrare in questo breve spazio circa la questione della crisi epocale.
Ma vorrei comunque prendere le mosse da qui, dalla comprensione della crisi, perché se non capiamo il luogo e la svolta in cui siamo (e in cui siamo chiamati come il tempo per noi della salvezza!), rischiamo di mettere toppe nuove su un vestito vecchio, con l’unico risultato di incamerare tutti delusione e frustrazione: ho fatto del mio meglio, ma il vestito si è di nuovo strappato!
Una nota tra parentesi: le descrizioni socio-culturali dello stato della esperienza del cristianesimo oggi nei paesi di antica cristianità come il nostro (si veda ad esempio Michel de Certeau, Cristianesimo in frantumi, editrice Effeta, 2010), dicono tutte la stessa cosa: che siamo ammalati di quella che si chiama anomia; questo significa che facciamo del nostro meglio, e che le persone hanno grandi domande e attese per la loro vita, ma il risultato è che non si incrociano i desideri e la presentazione dell’Evangelo. Così finiamo per frustrarci, noi e la gente; e quando ci incrociamo è più o meno per caso, per grazia di Dio. E’ come se avendo per le mani un grande tesoro e facendo del nostro meglio alla fine non riuscissimo a offrire nulla, al contrario di quello che vorremmo. E la gente ha grandi domande, grande interesse, ma lo esprime in modo tale che per noi diventa irriconoscibile e il risultato è che noi pensiamo che la gente non si vuole impegnare, la gente pensa che preti e suore hanno solo fantasie per la testa, e tutti stiamo senza cibo! Ma questo è solo uno degli elementi legati alla grande transizione in cui siamo…
Cosa vuol dire che siamo in una grande transizione? Usiamo come riferimento lo schema del disegno allegato.
- Origini cristiane: II. Cristianità:
chiesa anima del mondo monaci anima della chiesa/mondo
III. Post-modernità:
singolo unico punto di transizione
dov’è l’anima?
Una delle nostre idee implicite è che il cristianesimo sarebbe cominciato in una specie di vuoto culturale, nel “nulla”, come se il Vangelo viene annunciato e il mondo si costruisce!
Ma il mondo c’era anche prima. Non solo, c’era anche una cultura prima, un’idea di bene e di male, abitudini, usi, cose considerate accettabili oppure no. I cristiani hanno impiegato secoli a distinguere, nelle cose considerate come normali (anche da loro) quali erano un forma che testimoniava il Vangelo e quelle che non lo erano, cosa andava a conflitto con il Vangelo oppure no. Noi siamo al capo opposto della parabola, siamo arrivati al punto in cui alcune cose, considerate normali ai tempi di Gesù, che i cristiani hanno progressivamente purificato, oggi sono considerate “valori umani” di tutti, (come ad esempio esporre i bambini che nelle società antiche era considerato normale, che i cristiani progressivamente rifiutano in nome di un Dio Padre e creatore di tutti, e che oggi, scandalizzarebbe non solo i cristiani). Sono doni che abbiamo condiviso con le culture in cui abbiamo vissuto, stiamo in e siamo cultura. E alla fine la cultura a volte ci supera… e meno male! E’ un ottimo risultato.
Riferiamoci dunque al I disegno dello schema: quando il cristianesimo nasce è un’esperienza marginale, molto qualificata, in un mondo che è già costituito secondo se stesso, il mondo dell’ebraismo e il più ampio ambito del meditterraneo, greco-romano, in cui lo stesso giudaismo era abbastanza marginale.
L’esperienza della comunità evangelica, ma anche di quella di tutto il primo secolo, minoritaria, è un’esperienza paradossalmente abbastanza chiara: il cristianesimo capisce se stesso come l’anima del mondo, si tratta di diventare la vera anima del mondo.
E questa operazione (pensate ai Padri della chiesa, ai grandi concili, ecc.) ha talmente successo che il mondo, nel suo insieme, progressivamente, si articola intorno a quest’anima, diventa il corpo che incarna questa anima. Siamo così al II disegno: tra il X-XI secolo e fino grosso modo al XV, si parla tradizionalmente di “cristianità”, che indicherebbe che i due cerchi coincidono; si fa esperienza di cosa vuol dire annunciare in ciò che si compie, prima che nelle parole, nei miracoli della vita quotidiana. E si annuncia che il Regno è qui, e questo si articola totalmente nella cultura del tempo, al punto che finisce per non esserci più niente che non sia cristiano o almeno cristianamente mediato.
Anche qui una nota a margine: siamo tutti un po’ tentati di avere nostalgia di questo tempo, che era un tempo (ci sembra) riposante per i discepoli di Cristo, perché si era demandato alle strutture culturali tutto il lavoro, di mediazione e interpretazione, che è necessario per incarnare lo Spirito di Gesù: che bello quando il venerdì santo i cinema erano chiusi e la radio trasmetteva solo musica classica! Era impossibile dimenticare o non accorgersi che era venerdì santo.
Saremmo tentati di desiderare un ritorno a questo: ma è una tentazione appunto, un serpente un po’ demoniaco; innanzi tutto perché non è vero e chi voleva ignorare il venerdì santo lo poteva ignorare anche allora, magari un po’ in segreto per non scandalizzare il paese. E inotre perché sarebbe un modo per far fare ad altri (strutture, istituzioni, ecc.) quello che spetta soprattutto oggi a noi, che è trovare il luogo, il modo e il tempo per cui ancora una volta, anche quest’anno e anche qui, il venerdì santo sia la celebrazione liturgica della salvezza che ci è donata.
C’è una tentazione, che oggi mi sembra più forte che mai, di avere nostalgia di questo tempo come se fosse una specie di età dell’oro dove tutto funzionava. Oltre che sbagliato, questa nostalgia è anche inutile: ammesso che fosse giusto, infatti, non si può comunque tornare all’XI secolo. Occorre rassegnarsi.
Questo equilibrio dura tre o quattro secoli e il 1500 finirà per segnare ciò che è stato chiamato in tanti modi, inizio della modernità, impatto della secolarizzazione, e così via; ma segna, nella sostanza, la rottura di questo equilibrio. E, come sempre, il punto più alto è anche il punto in cui comincia la discesa. Le cattedrali gotiche, che pure sono bellissime, non è detto che siano anche per noi oggi il luogo migliore che possiamo immaginare per pregare. Le visitiamo, facciamo memoria della fede che le ha costruite, ma se dobbiamo fare un incontro di preghiera con un gruppo giovanile forse li sediamo semplicemente in cerchio per terra. Perché l’idea, ad esempio, tipica della cattedrale gotica, che segnala l’unica direzione verso l’alto, è per noi un’idea importantissima, ma che non possiamo più accettare se non completata con l’idea della comunità, della comunione, che è anche un’altra dimensione, orizzontale e circolare.
La crisi comincia per molti motivi, storici, culturali, politici e anche religiosi. Fatto sta che le culture, una volta cresciute, non diminuiscono a comando, e quindi i due cerchi che erano perfettamente sovrapposti, la vita, la realtà, le cose da un lato, e la loro mediazione cristiana dall’altro, cominciano a slittare e a disassiarsi, non sono più perfettamente sovrapposti.
Alcuni pezzi della vita chiedono una loro autonomia, vogliono esprimersi e regolarsi senza una mediazione cristiana: il primo ambito è ovviamente la scienza, pensiamo al caso Galileo; è la necessità di dire che esiste un punto di vista “scientifico” che non necessità né di ulteriore giustificazione, né di ulteriore autorizzazione. Per noi oggi questo è pacifico, ma nel suo sorgere è stato un grande trauma.
E dopo la scienza la politica, la filosofia, l’economia, e così via cominciano a chiedere una mediazione linguistica e metodologica non cristiana, ma autonoma e propria, senza autorizzazione esterna.
E fin qui si tratta di una descrizione del processo che conosciamo come secolarizzazione. Ma dobbiamo ricordarci che questo fenomeno implica che succede la stessa cosa anche dall’altra parte: e cioè che mentre alcune realtà della vita non vogliono più una mediazione religiosa, dall’altra parte mediazioni religiose diventano autoreferenziali e non hanno più sotto una realtà da mediare, una vita come oggetto.
Da una parte c’è una vita che non si dice più in modo religioso, dall’altra ci sono comportamenti, gesti, consuetudini, simboliche religiose, stili, che non hanno più la vita sotto e non si capisce più cosa esprimano. Ciò raggiungerà il suo acme nel 1800 con il fenomeno detto del devozionismo, che rasenterà la magia, gesti e riti che, facendo salva la buona fede di chi li compiva, alla fine non si sapeva più a cosa si riferissero.
In fondo abbiamo ancora almeno un po’ questo atteggiamento ad esempio nella implicita valutazione “quantitativa” dei comportamenti religiosi (3 rosari sono meglio di 2?). Ma attenzione che questa logica ci conduce a molteplici paradossi: dalla preghiera assegnata come penitenza della confessione (la preghiera dunque è una “penitenza”?) alla mamma di famiglia che ha tre figli, il lavoro, la casa da mandare avanti e che non ha né un’ora né mezz’ora per pregare in senso “classico”, e dice a voi “Sorella, beata lei che ha tempo per pregare! Invece io ho la famiglia che mi distrae”. Come sarebbe che la vita mi distrae? C’è qualcosa che non funziona in questo ragionamento: prendersi un riposo e mandare i figli dai nonni, fa bene a tutti, ma per motivi psichici e non spirituali! Ma i nostri figli e la loro vita sono la nostra lode a Dio o no?
Fatichiamo dunque, e molto, perché al di là delle chiacchere non troviamo più la vita e se la troviamo sembra diventata la concorrente di una fede che rischia di essere solo l’ennesimo impegno di una lista già lunga di cose da fare. Concorrente non perché nemica, ma perché chiede tempo e spazio che nessuno di noi sembra più avere.
Per comprendere un po’ meglio questo punto, possiamo prendere come caso tipologico unacerta evoluzione della parola “spirituale”, che fino al 1500 era un aggettivo, e solo dopo diventa un sostantivo, la spiritualità. Prima c’erano, da San Paolo in poi, la vita spirituale, l’uomo/la donna spirituale, le vie spirituali; ma spirituale si capiva: c’erano delle realtà (la vita, la persona, gli itinerari) che potevano essere secondo lo spirito di Gesù oppure essere secondo la carne. Ma quando nasce la spiritualità, non c’è più una res, di cosa si sta parlando? Diventa il territorio della mediazione religiosa senza una vita sotto, pratiche devote, più o meno intelligentemente interpretate. Finiamo per rendere, senza volerlo, assai ambigua la faccenda (e so che tocco un tema delicato e ribadisco che credo all’importanza della spiritualità): è come se ci fossero delle cose che sono in sé religiose, indipendentemente dalla relazione che hanno con la vita, e altre (quasi tutte quelle della vita come è, ormai) che sarebbero neutre o solo oggetto e luogo di congruenza morale. Ma l’Evangelo è davvero questo?.
Noi siamo oggi nel III disegno, nel punto clou di questa evoluzione e di questo slittamento: i due cerchi sono ormai solo più tangenti in un unico punto, e quel punto è la coscienza di ognuno di noi, laico, prete, suora, religioso, non importa, perché siamo tutti messi così. Come un orso con le zampe su due lastroni di ghiaccio che si allontanano, stiamo un po’ scomodi! E siamo molto stanchi: non è un fatto né personale, né psicologico, è una caratteristica dei cristiani di questo tempo.
Che non aiuta, perché se il Vangelo è benedizione sull’esistenza, questa comunità di persone stanche e un po’ stressate rischia di non essere particolarmente significativa. Ma attenzione, non è un problema che si possa risolvere solo con l’impegno, tantomeno personale, che sarebbe l’ennesimo impegno di una vita già collassata di impegni. E’ un dato strutturale, siamo stanchi perché siamo in una posizione che non si può reggere a lungo.
Di questa situazione di transizione si potrebbe (e si dovrebbe!) prendere atto in modo molto profondo e consapevole, perché se c’è una cosa necessaria, a tutti, ma ai cristiani a maggior ragione, nei tempi di transizione, è la vigilanza! Che è virtù evangelica e ci dice che non si può essere ciechi o sciocchi, nemmeno per generosità. Bisogna essere avvertiti, attenti…, vigilanti appunti
- Alcune conseguenze
Da questo abbozzo di descrizione della svolta epocale, pur appena accennato, ricavo solo tre (parziali) conseguenze che mi paiono particolarmente interpellanti per noi..
La prima conseguenza: dovremmo cambiare radicalmente la figura con cui comprendiamo la fede. La figura che conosciamo nasce in un tempo in cui tutta la società era cristiana e la necessità della fede era, fino a Vaticano II, quella di spostarsi da una figura di adesione sociale a una figura di movimento responsabile di coscienza; infatti nel momento in cui tutta la cultura è cristiana, essere cristiani è una sorta di abitudine sociale, e dunque la fede deve annunciare e conquistare la verità (personale) di coscienza di questa abitudine sociale. Ma ora non è più un dato sociale l’appartenenza religiosa, anzi quasi il suo contrario. E continuare ad insistere sul dato personale e di scelta di coscienza sovraccarica e rende individualisti.
Dovremmo invece oggi cominciare a partire dal presupposto che se uno viene a cercarci (in parrocchia, all’oratorio, ad un incontro), solo per questo movimento del venire, bisognerebbe dare per scontata la sua sincera e profonda ricerca (anche se non sa dircela), perché nessuna pressione sociale lo spinge. Qualsiasi cosa dica, esprima, sappia di sé… è già un miracolo della fede, comunque e prima di ogni scelta.
In una situazione di pressione sociale, la fede si qualifica per il lavoro di verità che fa sulla coscienza; ma in una situazione di sovraccarico di coscienza, come oggi, se continuiamo, come stiamo facendo, a lavorare sulla coscienza, quello che otteniamo sono esaurimenti nervosi. Siamo già, culturalmente e religiosamente, in un sovraccarico di coscienza. Quello di cui abbiamo bisogno sono corpi, scioltezza, gesti, “miracoli”, luoghi. Se sapessimo “come fare” lo avremmo già fatto, se sapessimo come essere più fedeli al Signore lo avremmo già fatto. Non ci manca la generosità, ma piuttosto le strade per poterla concretizzare in modo umano e sciolto e realistico oggi. Dovremmo reinterrogarci dunque sulla figura della fede, che non può più essere solo un’istanza di coscienza e che per di più ci auguriamo sempre radicale, con al centro la questione della scelta; l’esperienza finisce per essere che la vita è già complicata e la fede la complica di più! Mettere al centro la vita, invece: cosa significherebbe ricucire una relazione con una vita fiorita, benedetta, in una comunicazione e appropriazione comune, che rompe il silenzio e la solitudine?
La seconda conseguenza: dovremmo cercare di immaginare una figura di chiesa che, dentro ma anche oltre i luoghi costituiti, metta in circolazione parola e carità; infatti se continuiamo a dire che prima si sceglie in coscienza la fede e poi ci si impegna o si risponde alla vocazione, ecc., la dimensione di popolo e comunità rimane sempre seconda e non originaria, al limite un optional, di nuovo una “scelta”.
Continuiamo così a strutturare dei solitari, che si sentono degli eroi, e che finiscono per non trovare quasi mai il luogo giusto per spendere la meraviglia assoluta della propria decisione di coscienza. Perché non c’è comunità cristiana, ordine religioso, seminario che possa mai essere all’altezza dell’aspettativa e della profondità di elaborazione interiore che hanno fatto scaturire la mia scelta. E’ il caso abbastanza tipico di molti percorsi vocazionali in cui le persone stanno anni a macerarsi per partorire le proprie scelte di una epocalità radicale, per poi non trovare mai il luogo concreto in cui si possano spendere.
E’ il parallelo di quello che succede con un eccesso di insistenza sulla paternità/maternità responsabile, per cui impiegano dieci anni a “scegliere” di fare un unico figlio, che poi ha l’obbligo di essere perfetto, dato che è frutto della mia scelta e rappresenta la mia identità; e dunque in genere finisce dallo psicologo, perché è insopportabile dover essere perfetti per definire l’identità di un altro! E’ la stessa cosa in ambito vocazionale!
Ci serve dunque una figura di chiesa che assicuri invece un percorso circolatorio e comunicativo di parole e di carità (non in senso morale, ma nel senso di prassi realistiche e reali), sperimentabili come co-originarie rispetto alla fede e non scelte seconde.
La terza conseguenza: serve anche una nuova figura di vocazione che metta al centro la forma del sé definito dal bisogno dell’altro, al di là e oltre ogni tentazione di funzionalismo. E anche qui si aprirebbe una enorme necessità di riflessione, pur lasciando agli psicologi di fare il loro mestiere. Il sé definito dal bisogno dell’altro ha, infatti, necessariamente una connotazione e dimensione di ordine psicologico, della maturazione di un sé equilibrato e maturo, e così via. Ma in questo contesto vorrei usare questa espressione come una riflessione di ordine teologico (e non si tratta né di due aspetti contrapposti, né scollegati, evidentemente): il sé definito dal bisogno dell’altro, cioè dalla eccedenza escatologica, da quella verità di me che non governo io e che è in mano a Dio. Ma “non governo io” vuol dire anche che non è governato semplicemente dalle forme già consuete e assodate, e contemporaneamente non può essere senza un rapporto realistico e corretto con l’istituzione. E anche qui si potrebbe continuare a lungo la riflessione.
- Immagini per continuare a pensare
Ma qui la nostra riflessione per ora si ferma. Non come una conclusione che ritiene di aver raggiunto chissà quale stabilità, quanto piuttosto come una finestra aperta su uno scenario che forse non ci è così consueto; o, meglio, di cui forse non ci è così consueto parlare a voce alta.
E vorrei dunque affidare alla vostra riflessione e alle vostre esperienze questo panorama, questo scenario; e dunque invece di trarre conclusioni speculative vorrei regalarvi due brevi testi, che mi sembrano esprimere bene, se pure in forma poetica e letteraria, la svolta necessaria almeno per cominciare ad affrontare il tornante di cambiamento epocale in cui ci troviamo.
Il primo è una poesia del premio Nobel per la letteratura Derek Walcott, dalla raccolta Amore dopo amore:
“Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro
e dirà: siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E’ festa: la tua vita è in tavola.”
Nelle nostre orecchie di cristiani non può non essere evidente il suono eucaristico di questa breve poesia, e anche la sua collocazione come di “premessa necessaria”: se la nostra vita non è in tavola nessun appello ci raggiungerà, nessuna risposta sincera e vera potrà nascere dal nostro cuore e dalla nostra mente, nessuna vita potrà essere donata alla sequela e alla conformazione a Cristo. Abbiamo tutti bisogno di imparare ad amare lo straniero che era il nostro io e di rendere il cuore a se stesso per poter riconoscere la nostra vita imbandita per la nostra e l’altrui gioia e nutrimento. Il secondo testo è il breve passaggio con cui comincia e termina il romanzo di Christa Wolf Il cielo diviso, romanzo che non ha nulla di religioso, non sta dalla parte della mediazione religiosa senza la vita sotto. Sta tutto dalla parte della vita come è, e della vita che dice se stessa. Ma, almeno ai miei occhi, rappresenta uno dei modi migliori che io abbia fino a qui trovato, in cui potremmo davvero cercare di spiegare cosa significa la buona notizia del cristianesimo in questo tempo. E potremmo spiegarlo non in termini di scelta e di sovraccarico di coscienza, ma piuttosto nei termini della necessaria e buona sovrabbondanza di benedizione sulla e nella vita.
Il romanzo narra la storia della giornata di una certa Rita che ha trascorso un lungo periodo di ricovero in un ospedale psichiatrico. Si racconta la sua prima giornata fuori da quelle mura (ed è chiaro quante e quali metafore politiche stanno sotto questa immagine, essendo Christa Wolf nata e vissuta a lungo nella ex Germania Est ed essendo questo romanzo dell’anno 1963), di come lei rivede il mondo con altri occhi, e non è un caso che il romanzo inizi e finisca con questo stesso intenso brano.
“La giornata, la prima giornata della sua nuova libertà, è quasi finita. Il crepuscolo sta sospeso, basso, sulle vie. La gente torna a casa dal lavoro. Tra le buie pareti della case scattano i quadrilateri di luce. Ora, hanno inizio le cerimonie private e ufficiali della sera – mille gesti vengono compiuti, anche se alla fine non producono altro se non un piatto di minestra, una stufa calda, una canzoncina per i bimbi. A volte, un uomo segue con lo sguardo la sua donna, che esce dalla stanza con il vasellame, e lei non si accorge di com’è sorpreso e grato lo sguardo di lui. A volte, una donna accarezza la spalla di un uomo. E’ molto tempo che non lo ha fatto, ma al momento giusto sente che lui ne ha bisogno.
Rita fa un lungo giro vizioso per le vie e guarda dentro molte finestre. Vede come, ogni sera, un cumulo infinito di benevolenza, consumata durante il giorno, si sia rigenerata e riprodotta a nuovo. Non teme di restare a mani vuote nella ripartizione di quella benevolenza. Sa che talvolta sarà stanca, talvolta irritata e rabbiosa. Ma non ha paura.
Pareggia tutto il fatto che ci abituiamo a dormire tranquilli. Che viviamo senza risparmiarci, come se ce ne fosse anche troppo di questa strana sostanza che è la vita. Come se non dovesse avere mai fine”.
La prima lunga frase mi sembra ben descrivere la fenomenologia dell’esietnza, per dirla con una parola colta, come ci capita di vivere, noi che siamo nel tempo, le giornate che iniziano e che finiscono, sono delle “prime giornate”, perché sono sempre in qualche modo un primo risveglio al mondo di ognuno di noi, anche quando sono delle seconde, delle terze, delle centomillesime giornate… E hanno però tutte una sera, un crepuscolo. La figura di chi cammina per le strade, che sarà subito dopo ripresa negli altri due periodi successivi, che sono quelli che secondo me descrivono il cristianesimo e la sua buona notizia, mi fa sempre pensare, ogni volta che la leggo, all’espressione evangelica che dice che siamo nel mondo, ma non siamo del mondo. Su questa frase abbiamo certo molto riflettuto, ma mi sembra bella la figura: camminiamo per delle strade, ma non siamo padroni di casa, guardiamo la verità della vita dal luogo povero e non padrone di un homeless.
Così iniza la seconda parte della citazione: siamo, tutti, gente che gira per le strade e guarda dentro alle finestre del mistero delle vite nostre e altrui. Contenti che ci siano uomini e donne viventi, contenti che la vita umana sia fiorita, bella, guarita, sana; non aspettando (e quasi sperando!) il disastro perché così prima o poi a tutti un pensiero di fede viene, quando non si hanno più parole sensate! Perché il cristianesimo non aspetta il cadavere come un avvoltoio, la gloria di Dio è l’uomo vivente e noi siamo gente che ha scelto il luogo povero di non essere padroni né della nostra né dell’altrui casa, abbiamo scelto di non rimanere ad abitare al calduccio aspettando che gli altri vengano. Invece abbiamo scelto di fare lunghi giri viziosi per le strade (e sono giri improduttivi), gioendo con Dio che quadrilateri di luce si accendano e mille gesti vengano compiti.
E vediamo come la benevolenza si consuma e si rigenera: i cristiani sanno che la benevolenza non si accumula, non si vive tenendola per sé, facendone dei mucchi; è il contrario: vivere ci porta a spendere benevolenza, ogni giorno la consumiamo, e come la manna se la accantoniamo finirà per marcire. Ma insieme sappiamo che c’è un modo per rigenerarla, riprodurla: siamo lieti che la vita faccia spendere benevolenza, chiunque la spenda e per qualsiasi motivo. Quante volte ci comportiamo da avari di vita: se c’è un bene deve essere nostro, deve avere la nostra ettichetta, dobbiamo averlo detto noi, inegnato noi e così via. Ma chi vive, chiunque vive, spende benevolenza!
Questo fa la differenza: non abbiamo bisogno di avere una casa nostra perché sappiamo che non rimarremo senza il bene che ci serve; possiamo spendere come gente dalle mani bucate, siamo ricchi di famiglia!, tutta la nostra benevolenza, perché abbiamo un luogo, che è l’Eucaristia, in cui ogni volta le benevolenza viene riprodotta e Dio non ci lascerà morire di fame. Per questo noi possiamo spendere di ciò che non abbiamo.
Non ha paura: avete un modo migliore per descrivere cosa dovrebbe essere un cristiano oggi? Uno che sa che talvolta sarà stanco, talvolta irritato e perfino rabbioso, ma uno che non ha paura.
Abituarci a dormire tranquilli e vivere senza risparmiarci: in questa espressione c’è la traduzione del paradosso cristiano; uno che vive (e dorme!) tranquillo è uno che sembra insensibile ai problemi… con tutto quello che c’è da fare, come si fa a vivere tranquilli? Uno che vive senza risparmiarsi sembra un agitato un po’ isterico. Ecco: un cristiano è uno che si abitua a dormire tranquillo e contemporaneamente vive senza risparmiarsi (mai!).
E come e perché questo è possibile? “Come se ce ne fosse anche troppa di questa strana sostanza che è la vita. Come se non dovesse avere mai fine”. Certo che sì, ce n’è anche troppa di questa strana sostanza che è la vita, e non ha mai fine, e non solo “in lungo” (l’allungamento della vita rischia di farci pensare che se la vita eterna è solo una questione di durata allora è davvero angosciante!), ma “in largo”, come se potessimo avere tutta la benevolenza e l’energia che ci servono e anche di più. Per cui possiamo dormire tranquilli e vivere senza risparmiarci. C’è altro che possa essere detto come benedizione? C’è altro che chiederemmo per la nostra vita?