Una risposta libera e profonda alla chiamata dell’Amore
Per questo itinerario impegnativo in un tema molto variegato e complesso, assumeremo come emblema di riferimento un passo biblico che rappresenta una di quelle frasi scritturistiche che difficilmente si vorrebbe commentare, tanto sono folgoranti: «Ecco, io sto alla porta e busso, se qualcuno ode la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui, e cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Pierre Prigent, nel suo commento all’Apocalisse di San Giovanni, giunto a questo versetto, scrive: «Si vede l’impotenza dell’attrezzatura esegetica quando il fulgore delle immagini parla da sé». Vorrei rileggere questo testo come guida per lo sviluppo del nostro tema, dividendolo in tre parti, che costituiranno i movimenti della mia riflessione.
Primo movimento – «ecco, sto alla porta e busso»: la rappresentazione del primato della Grazia, della precedenza di Dio nella vocazione. Se Egli non passasse per le nostre strade e non bussasse alle nostre porte, noi resteremmo chiusi nella nostra stanza, nel nostro limite, nel nostro orizzonte.
Secondo movimento – «se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta…»: Allusione alla libertà della risposta umana alla proposta alla Grazia. L’immagine è significativa: ascoltare (adesione interiore), aprire la porta (azione).
Terzo movimento – «io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me»: l’esito finale, la meta è l’amore. Infatti, la condivisione della mensa, presso tutte le culture, è un simbolo di comunione, tanto è vero che non esistono soltanto i pranzi nuziali, ma anche, in molte culture, come in alcune regioni del nostro paese, le cene funebri, il “consòlo”. Dolore e gioia vengono condivisi e, così, possono fondersi in unità profonda.
- Primo movimento
In principio c’è la teofania. Infatti, in ogni vocazione bisogna riconoscere il primato assoluto di Dio e della sua Parola, altrimenti si tratta un’esperienza umana diversa, pur legittima. La Bibbia è retta idealmente da questa espressione: «In principio la Parola». Essa è l’asse portante della Rivelazione. «In principio Dio disse»: l’Antico Testamento si apre con questa Parola che genera l’essere. La creazione è frutto di una Parola divina, non di una lotta tra gli dei. Non si tratta di una fatica di Dio, ma della sua Parola che appare e squarcia il silenzio del nulla. È un “a priori” assoluto.
Il Nuovo Testamento si inaugura alla stessa maniera. Prendiamo il Prologo di Giovanni che è la sintesi dell’Incarnazione: «In principio era il Logos», il Verbo. Questa Parola divina è principio non solo dell’essere, ma anche della storia, cioè delle vicende umane e, a maggior ragione, dell’avventura fondamentale dello Spirito che è la vocazione. Per illustrare questo orizzonte scegliamo un versetto, forse poco noto, ma molto bello, del Deuteronomio, tra i mille che possono dimostrare il primato della Parola, della teofania. In esso Mosè riassume l’esperienza del Sinai: «Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura; vi era soltanto una voce» (4,12). Tutta l’esperienza del Sinai è in una Parola che scende dal monte, cioè dall’Infinito, dall’Eterno, crea un popolo e gli apre la frontiera verso la libertà. All’origine della vocazione, dunque, vi è la Parola trascendente, la Teofania.
A questo proposito, emblematico risulta Paolo. Suggerisco un versetto per ribadire che la vocazione non è frutto di volontarismo, né è il risultato del suscitare dentro se stessi il desiderio di servire Dio, ma risulta, prima di tutto, un’esperienza di Dio (genitivo soggettivo, non genitivo oggettivo): la vocazione non è una nostra esperienza su Dio, ma è Dio che fa un’esperienza su di noi. Rimandiamo alla Lettera ai Filippesi 3,12. Ecco il verbo greco con cui Paolo descrive la propria vocazione: katelémphthen, «Io fui afferrato (letteralmente fui preso dal basso verso l’alto), conquistato» da Cristo. Senza indugiare in questioni di natura filologica, è suggestivo notare che quando Michelangelo, nella Cappella Paolina in Vaticano, dipinge la conversione di Paolo, la rappresenta proprio in questa maniera, rompendo persino la prospettiva e introducendo qualcosa che quasi ferisce la stessa angolazione della scena: Dio scende con la sua mano dall’alto e Paolo è afferrato dal basso, quasi strappato via dalla terra.
Il primato ancora una volta è di Dio, per mezzo di Cristo «nostra speranza» (cf 1Tm 1,1). Aggiungo un altro passo di Paolo – Rm 10,20 – in cui l’Apostolo cita il Profeta Isaia. L’Apostolo stesso si stupisce di quello che scrive Isaia. Scrive: «Isaia osa dire: Io – [dice il Signore] – mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano. Io ho risposto anche a quelli che non mi invocavano». Si tratta, dunque, di una questione di Grazia. Infatti, Dio bussa alle porte di molte anime, ma la distrazione impedisce l’ascolto e Dio non è riconosciuto. Eppure Dio non cessa di inseguire la sua creatura libera. In questo contesto, dopo una breve premessa di carattere storico, quasi a sintetizzare il primo movimento, citerò una frase emblematica di un grande teologo protestante del secolo scorso, Karl Barth (1886-1968).
La modernità è di solito fatta coincidere col Seicento e con due grandi eventi simbolici: da una parte Galileo e Newton, cioè la scienza che acquista il suo statuto autonomo di ricerca, indipendentemente dalle altre discipline, soprattutto dalla teologia e dalla filosofia; dall’altra parte Cartesio e l’affermazione del soggetto con il celebre Cogito ergo sum. Cartesio era convinto di rendere un grande servizio alla religione, in realtà contribuiva a creare il fronte moderno “laico”, di cui il cogito ergo sum è la sintesi più ricorrente nell’immaginario collettivo popolare. In questa visione l’Io, infatti, è colui che afferma il dato, l’essere e l’esistere con gli annessi corollari positivi: l’importanza del soggetto, della libertà dell’individuo, la dignità della persona; ma anche con tutte le degenerazioni come il relativismo, il situazionismo, il soggettivismo esasperato. Ebbene, Barth afferma: se vogliamo tornare alla matrice autenticamente cristiana, prendiamo la frase che ha segnato la modernità aggiungendovi una sola lettera e trasformandola in Cogitor, ergo sum: “Io sono uno pensato, quindi esisto”.
Concludo questo primo movimento con un episodio personale. Ero a Zurigo per un congresso, e avevo chiesto di essere accompagnato a visitare a Küsnacht la casa natale di Jung (1875-1961), uno dei padri della psicanalisi, figlio di un pastore protestante. Arrivatovi, scorgo sulla facciata una scritta che aveva fatto apporre Jung stesso: Vocatus atque non vocatus, Deus aderit («Dio, chiamato o non chiamato, sarà sempre presente»). Ritornando al nostro tema possiamo affermare sulla scia di questa frase: la vocazione non è innanzitutto un’opera nostra, la vocazione è un impegno di Dio, cioè è Dio che chiama e agisce in noi.
- Secondo movimento
«Le stelle brillano nella notte ed esprimono la loro gioia. Dio le chiama ed esse rispondono: “Eccoci!”», dice il profeta Baruc (3,3435). Le leggi meccaniche che Dio ha imposto al creato sono fisse, mentre ha voluto costituire l’uomo e la donna come interlocutori liberi. Perciò, a questo secondo momento di riflessione pongo un fondale antropologico, filosofico e teologico, che disegnerò con l’ausilio di due testi biblici. Ecco l’uomo all’ombra dell’albero della conoscenza del bene e del male (Gen 2,16ss.). Questa è una delle intuizioni più felici dell’antropologia biblica, che non troviamo nelle culture circostanti. Nella cultura mesopotamica, ad esempio, il dio creatore Marduk sconfigge la divinità negativa Tiamat e crea l’uomo col sangue del dio sconfitto e col fango; perciò l’uomo ha nelle sue vene il sangue del dio ribelle e, quindi, non può che fare il male. Per la Bibbia, invece, l’uomo e la donna sono posti di fronte all’albero simbolico della conoscenza del bene e del male, della scelta morale. Essi possono ricevere da Dio il frutto di quell’albero, cioè la norma morale, oppure strapparlo di propria iniziativa e decidere arbitrariamente cosa è bene e cosa è male.
Nel cap. 2 della Genesi, dunque, viene presentato il progetto, il “sogno” di Dio, l’uomo perfetto come Egli lo immaginava. Egli è, però, dotato di libertà, per cui la sua pienezza non è da intendere alla maniera di una stella che obbedisce a una legge meccanica, immutabile. Si tratta di un altro tipo di perfezione, descritto nelle tre relazioni umane fondamentali: verso Dio (l’alto), verso il mondo materiale e gli animali (il basso), verso il proprio simile, la donna (con il tipico atteggiamento degli occhi negli occhi, come si suppone nell’originale ebraico della formula “un aiuto che sia simile”, letteralmente “un aiuto che gli stia di fronte”). Nel cap. 3 della Genesi viene, invece, descritto ciò che l’uomo ha fatto scardinando, attraverso l’esercizio della libertà, questa triplice relazione. Leggiamo, perciò, Gen 2 e 3 alla luce del dono della libertà di cui l’essere umano è dotato e in forza della quale può accogliere o rifiutare il disegno del Creatore. Questo è il primo testo biblico capitale a cui volevamo rimandare.
Ce n’è, però, un altro significativo. Ci viene ancora in aiuto il libro del Deuteronomio: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male. Ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita» (30,15.19). Ci è proposto un caloroso e affettuoso appello di Dio, nel momento in cui egli pone l’uomo di fronte alla scelta, alla libera responsabilità di una decisione. L’uomo non è solo, perché Dio è presente e non abbandona la sua creatura nell’abisso della solitudine e dell’angoscia. Anzi, fa brillare la luce della Grazia, pur rispettando anche l’eventuale “no” della persona, con tutte le tragiche conseguenze che ne derivano. Noi ora, sullo sfondo della libertà appena descritto, affrontiamo il tema della vocazione nella quale la libertà viene esercitata positivamente allo scopo di accogliere la chiamata divina.
Propongo cinque modelli che hanno come protagoniste persone diverse che, pur nell’identità dell’unico Dio che le chiama, rispondono in modo del tutto originale, sulla scia di quanto recita un proverbio giudaico: «Gli uomini coniano con lo stesso stampo le monete e le monete sono tutte uguali. Dio conia con lo stesso stampo [tutti sono o uomini o donne, l’umanità “adamica”] tutti gli uomini, eppure sono tutti diversi l’uno dall’altro». A conferma che la libertà è uguale in tutti, ma è articolata diversamente nelle singole persone.
1) modello imperativo. La vocazione si sviluppa in questo caso secondo il paradigma: Parola / Teofania e ascolto / obbedienza. Possiamo definirla come la via più lineare: pur essendo richiesti l’ascolto e la risposta nella libertà, domina l’ordine divino. Come esempio, tratto dalla Bibbia, indichiamo la vocazione di Abramo (Gen 12,1.4): «Esci dalla tua terra e va’» (Gen 12,1); «Abramo uscì come il Signore gli aveva ordinato» (12,4). La scelta di Abramo è immediata, convinta, radicale. Questo paradigma lo possiamo riscontrare in alcune persone che si donano in maniera completa, totale e assoluta, immediata, una volta sperimentata quella Teofania, e sentito il suono di quella voce, secondo uno schema quasi “militare” di ordine-esecuzione.
2) modello dell’obiezione. La vocazione può essere oggetto di tormento e di crisi prima di approdare alla scelta. In questa tipologia collochiamo Mosè, colui che, in un certo senso, si presenta senza il vessillo di un’esperienza immediata e radicale, eppure diventa la grande guida dell’Esodo. In Es 4,10-16 incontriamo Mosè che cerca in tutti i modi di sottrarsi alla chiamata, al punto da scatenare la collera di Dio, che però non cessa di chiamarlo. Gli trova persino un aiuto per risolvere il suo problema, purché accetti (Mosè, infatti, non è dotato di arte oratoria e allora Dio gli mette accanto Aronne che può fargli da portavoce). Una vocazione tormentata, quindi, come possiamo ulteriormente verificare nel racconto dei libri dell’Esodo, dei Numeri e del Deuteronomio, nei quali spesso Mosè, nella sua preghiera, si lamenta della missione che Dio gli ha affidato.
Un altro personaggio da inserire in questo secondo paradigma è Geremia, che racconta la propria vocazione in prima persona. Il primo capitolo del libro di Geremia, dal versetto 4 in avanti, riporta le incertezze, i dubbi, le resistenze del profeta: «Non so parlare… sono giovane…». Dio si manifesta paziente e comprensivo di fronte al tormento della persona, però insiste, come si può vedere nella scena del mandorlo. La sceneggiatura viene costruita su due termini ebraici assonanti “mandorlo” (šâqed) e “il vegliante” [Dio che veglia] (šôqed): «Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Che cosa vedi, Geremia?”. Risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. Il Signore soggiunse: “Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla”».
Tuttavia, Geremia, dopo aver accettato, non sarà tranquillo. Come prova è sufficiente leggere il cap. 20, in cui viene riportata una confessione terribile del profeta, ormai sprofondato nell’abisso fisico della cisterna fangosa e in quello spirituale della disperazione e grida la sua ribellione: «Mi dicevo: Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (20,9). La chiamata di Dio è come un fuoco, una lava ardente che brucia le ossa e non si ferma neanche di fronte alla ribellione dell’uomo. Si tratta di un paradigma da non dimenticare, perché abbastanza frequente. Anzi, per certi aspetti, è simile persino a quello della vocazione di Maria: «Come avverrà questo? Perché?…». Anche la Madre del Signore presenta la sua obiezione (cf Lc 1,34) perché possa assumere con coscienza e coerenza la grande missione che le è assegnata.
3) modello della progressione o pedagogico. Il testo fondamentale è nel Primo Libro di Samuele cap. 3. Il protagonista è Samuele, un ragazzo, non ancora profeta, che dorme nel tempio di Silo accanto al sacerdote Eli. Viene chiamato per tre volte e tutte le volte va dal sacerdote Eli credendo si tratti di una sollecitazione da inscriversi nell’orizzonte quotidiano. In ebraico risalta un particolare curioso: le prime due volte Samuele, chiamato, “corre” da Eli, mentre la terza volta si cambia il verbo e si dice semplicemente che “va”, quasi stanco della delusione di non aver trovato un senso a quella voce.
Alla fine – ecco perché uso i termini “progressione” e “pedagogico” – attraverso tre tappe successive, con l’aiuto di un maestro, di una guida, di un educatore, il ragazzo riesce a capire il senso e da chi proviene quella voce. Per questo l’episodio è anche un modello pedagogico vocazionale nel quale si è guidati, condotti per mano. Eli – che capisce cosa sta accadendo a quel ragazzo – alla fine gli dice: «Quando ancora sentirai quella voce rispondi: Parla Signore – il tuo servo ti ascolta» (3,10). Sotto la guida saggia di Eli, vero e proprio “direttore spirituale”, la notte di Samuele si apre all’alba di una chiamata limpida e tersa che farà di quel fanciullo il primo grande profeta di Israele.
4) modello della prova. Mi riferisco alla chiamata alla fede di Giobbe, a cui possiamo accostare tutti coloro che sono stati chiamati su strade lontane, che apparentemente sembravano senza ritorno. Aggiungo che il libro di Giobbe si presenta, talvolta, oscuro, non sempre del tutto decifrabile, tanto che San Gerolamo, all’inizio del prologo del suo Commento al libro di Giobbe, dice che spiegare questo libro biblico è come «tentare di catturare un’anguilla o una piccola murena: quanto più la stringi, tanto più ti sguscia di mano». Infatti, non si riesce facilmente a individuare il punto nodale che tiene insieme questo libro dalla struttura redazionale molto complessa. Comunque, possiamo pensare che il Libro di Giobbe voglia dimostrare la presenza di Dio che chiama su un territorio dove di solito si celebra la sua assenza, si consumano le apostasie e anche il cielo sembra spoglio di presenze divine.
In questa atmosfera livida e tragica Giobbe si erge palesemente contro Dio. Troviamo pagine di una durezza estrema che, talvolta, un redattore finale ha cercato di attenuare, quando non addirittura di tagliare, perché troppo blasfeme. Giobbe diventa quasi l’avversario di Dio, simile a «un leopardo che affila gli occhi su di me per dilaniarmi la carne», un Dio divenuto come un arciere sadico che punta le sue frecce sulla sua vittima, «come un generale trionfatore che sfonda il cranio» (cf 16,7-14).
Eppure, Dio non cessa di chiamarlo. Giobbe si pone contro le teorie dei suoi amici “teologi” – Elifaz che incarna la teologia profetica, Bildad che rappresenta il diritto sacrale, Zofar che riflette la sapienza, Eliu che evoca la nuova teologia – fermamente convinti che Giobbe sia stato abbandonato da Dio perché peccatore e quindi debba convertirsi a lui. Giobbe si rifiuta e, alla fine, Dio gli si presenta non per condannarlo, ma per chiamarlo definitivamente. Abbiamo in questo personaggio un modello di vocazione travagliata che ha come suggello l’incontro finale con l’estrema confessione di Giobbe: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). La vocazione, dunque, volendo usare un’immagine sintetica, non è una vaga risposta, ma un incontro e una visione che nascono da un itinerario travagliato. E l’ultimo verbo della fede non è ascoltare, ma vedere, è l’incontro personale.
5) modello della consapevolezza. È di scena in questo caso una vocazione che viene accolta attraverso un’analisi, con una scelta cosciente e coerente, e una decisione frutto di riflessione. Propongo come riferimento la vocazione di Isaia (cap. 6). Quella di Abramo era un’adesione immediata, radicale e piena, mentre quella di Isaia è un assenso totale ma ragionato, un’opzione motivata. Il testo ci introduce in un orizzonte teofanico. Isaia sente la voce divina dire esplicitamente «Chi manderò e andrà per noi?» (6,8), come se la proposta venisse avanzata direttamente a tutti e a ciascuno di noi al tempo stesso. In un contesto solenne liturgico (siamo nel tempio di Sion) Isaia si alza, consapevole e cosciente di tutti i pericoli e le difficoltà insiti in una tale chiamata, cioè di dover parlare a un popolo di dura cervice che non ascolterà, e risponde: «Eccomi, manda me». Siamo alla vocazione “ideale”, alla scelta motivata, che nasce dal profondo della libertà personale, la quale risponde alla libertà della chiamata divina.
- Terzo movimento
Al termine di questa rapida rassegna di testimoni, tra i tanti possibili, racchiudo il nostro itinerario entro due termini conclusivi che incarnano l’approdo dell’incontro d’amore tra Dio e il chiamato, un incontro che è creato dalla vocazione. Essi sono la cháris/amore-carità, che avevo evocato in chiusura del primo movimento, e pístis/fede, in quanto l’accoglienza della vocazione è un atto di fede.
Nel rispondere affermativamente a una vocazione entrano in gioco, come accade nell’atto di fede in piena consapevolezza e libertà, componenti razionali (Isaia), aspetti sentimentali (Geremia) ed esperienziali (Giobbe). Perciò, il punto di partenza è l’amore di Dio che chiama e la risposta, in una sorta di dinamismo teandrico, è costituita dall’amore umano che ha come meta l’accoglienza dell’amore divino.
Concludiamo la riflessione sintetica che abbiamo proposto con una sorta di anticlimax: dopo essere arrivati a completare il nostro itinerario ponendolo sotto l’emblema dell’amore, ora lo metto in connessione attraverso due testimonianze contemporanee differenti, che affrontano la temperie culturale dei nostri giorni, con un problema negativo particolarmente acuto nella nostra società. La grande malattia dei nostri tempi, infatti, non è la negazione ostinata di Dio e neppure l’inarrestabile ondata di violenza che sembra travolgerci (quando sono nato io, ad esempio, il mondo, squassato dalla furia e dall’odio della seconda guerra mondiale, era un lavacro di sangue peggiore dell’odierna situazione planetaria). La vera sindrome grave spirituale attuale è, invece, l’indifferenza, il grigiore, la nebbia, la superficialità, la banalità.
In questo orizzonte, vorrei evocare, come prima testimonianza, Georges Bernanos (1888-1948), scrittore francese a me molto caro, il quale, da credente, in uno dei suoi primi romanzi, non molto noto, L’impostura, narra la storia di un prete, l’abbé Cenabre, che diventa in una progressione discendente radicalmente ateo. Lo scrittore, nel narrare la vicenda, fa una distinzione tra due vocaboli sovente usati come sinonimi, anche se in realtà non lo sono: “assenza” e “vuoto”. L’assenza di Dio – Dio non chiama, Dio è muto – l’abbiamo incontrata nell’esperienza di Giobbe. L’assenza non è il nulla. Ora, il dramma dell’abbé Cenabre, messo in risalto da Bernanos, non è l’assenza di Dio, ma il “vuoto” totale dentro e attorno a sé, che è il medesimo dramma di tanti nostri contemporanei.
Per questo motivo dobbiamo cercare di creare almeno la nostalgia di una presenza, perché, in verità, anche nell’apparente distanza-assenza Dio parla, è presente, nonostante noi non ne abbiamo consapevolezza.
La seconda testimonianza è un po’ più sorprendente. In una rivista americana ho trovato una frase di John Lennon, famoso leader carismatico dei Beatles, assassinato nel 1980 da un fanatico. Si tratta di una specie di epigrafe laica del nostro discorso: «La vita si svolge sotto i nostri occhi, ma spesso siamo occupati, purtroppo, a guardare altrove, nel vuoto». In queste poche parole, ritengo si possa intravedere il ritratto di tanti nostri giovani e di persone non più giovani, che non riconosceranno mai la chiamata che Dio fa risuonare anche per loro. Infatti, può succedere di essere impegnatia guardare altrove, mentre la vita ci scorre davanti agli occhi, e in questo fluire di persone e di eventi passa anche il Signore, ma, forse, siamo troppo occupati a fissare il vuoto.