Quale pastorale vocazionale oggi per educare al senso del lavoro?
«La vocazione è il cuore stesso della nuova evangelizzazione…, è l’appello di Dio all’uomo per una nuova stagione di verità e libertà, e per una rifondazione etica della cultura e della società europea»1. Con queste parole il documento finale del Congresso sulle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa, Nuove Vocazioni per una nuova Europa, sottolineava il bisogno di riannunciare, in un contesto di nuova evangelizzazione, il senso forte della vita come vocazione. Anche se sono ormai passati alcuni anni dalla pubblicazione di questo documento, che resta straordinariamente attuale e punto di riferimento irrinunciabile per ogni riflessione e pastorale vocazionale, le parole citate mantengono tutta la loro urgenza. Una urgenza che diventa ancor più di rilievo se teniamo conto del fatto che, spesso, il futuro di una vita è ridotto «alla scelta d’una professione, alla sistemazione economica, o all’appagamento sentimentaleemotivo, entro orizzonti che di fatto riducono la voglia di libertà e le possibilità del soggetto a progetti limitati, con l’illusione d’essere liberi»2. Tutto ciò rischia di delineare una sorta di cultura antivocazionale e un modello antropologico che potrebbe essere definito di uomo senza vocazione. Questa problematica è stata ripresa nell’Instrumentum Laboris, in preparazione alla XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla Nuova evangelizzazione. Il documento auspica che i Vescovi affrontino la questione vocazionale per promuovere una cultura della vita intesa come vocazione, non tanto per constatare la crisi o per rinforzare una pastorale vocazionale già in atto. Sarà proprio la riscoperta della vita come vocazione uno dei segni dell’efficacia della nuova evangelizzazione3. Nel periodo che stiamo vivendo, segnato anche dalla grave crisi economica e da una forte disoccupazione, il senso del lavoro rischia seriamente di essere ridotto semplicemente alla scelta di una professione per una sistemazione economica. L’uomo senza vocazione, spesso, è privato della possibilità di scegliere un lavoro (sempre di più è da considerarsi fortunato chi trova un qualsiasi lavoro che gli permetta di sopravvivere, di tirare avanti). Inoltre, molte persone vivono una condizione caratterizzata da mancanza di continuità nel rapporto di lavoro, quindi mancanza di un reddito stabile con grosse difficoltà a pianificare la propria vita presente e futura. L’attuale contesto va ad intaccare la qualità della vita presente e della sua dimensione progettuale. Proprio su questa linea, il cardinal Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, nella prolusione al Consiglio Permanente della Cei (24-9-2012), ha sottolineato che l’attuale situazione di precarietà, oltre ad essere una fragilità sociale «sta diventando una malattia dell’anima: la disoccupazione o inoccupazione sono gli approdi da una parte più aborriti, e dall’altra quelli a cui ci si adatta pigramente, con il rischio di non sperare, di non cercare, di non tentare più». Ci domandiamo: la pastorale vocazionale quale aiuto può offrire per educare al senso del lavoro? Sia esso un lavoro scelto, fortunatamente trovato o semplicemente accettato e magari subito? La problematica è vasta oltre che complessa e, per questo, non abbiamo la pretesa di affrontarne tutti gli aspetti. Ci limiteremo, in questo contributo, a proporre delle considerazioni su alcuni contenuti fondamentali alla base di una riflessione sull’educazione al senso del lavoro in prospettiva vocazionale.
- La vocazione al lavoro: chiamata di Dio e “risposte” dell’uomo
1.1 Chiamata di Dio
«Queste sono le origini del cielo e della terra, quando vennero creati. Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo» (Gen 2,4-5). Ci troviamo di fronte ad una creazione in cui mancano i cespugli e l’erba perché manca una azione congiunta da parte di Dio (far piovere sulla terra) e dell’uomo (lavorare il suolo).
«Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). A questo punto l’uomo non viene collocato nel contesto precedente, ma in un giardino che Dio stesso pianta per lui in Eden. Il giardino non è il risultato di un’azione congiunta, ma un dono che l’uomo riceve gratuitamente, subito dopo essere stato creato, senza aver fatto nulla per meritarlo: «Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre attorno a tutta la regione di Avìla, dove si trova l’oro e l’oro di quella regione è fino; vi si trova pure la resina odorosa e la pietra d’ònice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre attorno a tutta la regione d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate. Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,8-15). «La natura è espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cf Rm 1, 20) e del suo amore per l’umanità. È destinata ad essere ricapitolata in Cristo alla fine dei tempi (cf Ef 1,9-10; Col1,19-20). Anch’essa, quindi, è una “vocazione” [115]. La natura è a nostra disposizione non come un mucchio di rifiuti sparsi a caso, bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla”»4. Coltivare e custodire il giardino include, per l’uomo, anche l’obbedienza al comando divino: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire» (Gen 2,16). Ma l’uomo disobbedisce, mangia il frutto che gli era stato comandato di non mangiare, non corrisponde alla sua vocazione di coltivatore e custode: vuole fare senza Dio, al posto di Dio. A questo punto cambia il contesto: dal giardino di Eden alla terra da dove era stato tratto: «Maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai! …Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto» (Gen 3,17-23). L’uomo è chiamato da Dio a coltivare e custodire il giardino e, dopo il peccato, è chiamato a lavorare il suolo con dolore e sudore. Il lavoro, prima e dopo il peccato, nei due diversi contesti in cui l’uomo si trova a vivere, lo accompagna come un elemento fondamentale, costitutivo, necessario alla sua realizzazione, al compimento della sua vocazione di uomo.
1.2 “Risposte” dell’uomo
«Il lavoro umano ha una duplice dimensione: oggettiva e soggettiva. In senso oggettivo è l’insieme di attività, risorse, strumenti e tecniche di cui l’uomo si serve per produrre, per dominare la terra, secondo le parole del Libro della Genesi. Il lavoro in senso soggettivo è l’agire dell’uomo in quanto essere dinamico, capace di compiere varie azioni che appartengono al processo del lavoro e che corrispondono alla sua vocazione personale…»5. Facendo riferimento alla dimensione soggettiva del lavoro, possiamo affermare che l’uomo, vivendo la sua storia di amore ricevuto e donato, amore ferito dal peccato e redento, realizza la sua vocazione rispondendo alla chiamata ad essere creatura e ad esserlo in modo originale.
L’uomo, lavorando, prende consapevolezza e risponde alla chiamata ad essere uomo, cioè creatura di fronte al Creatore. Il lavoro gli ricorda che è creatura bisognosa del necessario sostentamento per vivere6. Il pane che alimenta la sua vita è frutto della terra e del lavoro faticoso: l’uomo non può creare, l’uomo può produrre con fatica. Il lavoro, dunque, permette all’uomo di collocarsi o ricollocarsi nella sua posizione di creatura davanti al Creatore. È da Lui che è chiamato alla vita, una vita ricevuta in dono, gratuitamente; una vita che è frutto di un atto d’amore del Creatore che l’ha voluta e chiamata dalla non esistenza all’esistenza. Tutto ciò domanda all’uomo, attraverso il lavoro, la risposta all’essere creatura (è la prima, fondamentale risposta). L’uomo, in quanto creatura, è fragile (fragile è ciò che può frangersi perché è realtà composta, proprio come l’uomo): polvere del suolo e alito di vita. La sua fragilità è rivelatrice di ricchezza (alito di vita) e, anche, di povertà (polvere del suolo). È in questa realtà fragile che è possibile riconoscere-discernere la verità di ciascuna persona, verità che svela una vocazione, parla di una chiamata, lascia intravedere un particolare riflesso del volto di Dio impresso nel cuore dell’uomo. È ancora il lavoro che permette all’uomo di esprimersi creativamente, a partire dalla sua fragilità sperimentandosi nei suoi aspetti di ricchezza e, necessariamente, anche di limite. Il lavoro gli permette di prendere consapevolezza della sua realtà particolare, originale, riflesso unico e irripetibile, anche se limitato, dell’unico volto di Dio. Può rispondere così, attraverso il lavoro, alla chiamata ad essere creatura in modo originale, secondo le caratteristiche che lo segnano e che non sono frutto della casualità, ma dono di un progetto misterioso e libero di Dio: «Creato a sua immagine, l’uomo deve cooperare con il Creatore al compimento della creazione, e segnare a sua volta la terra dell’impronta spirituale che egli stesso ha ricevuto. Dio, che ha dotato l’uomo d’intelligenza, d’immaginazione e di sensibilità, gli ha in tal modo fornito il mezzo onde portare in certo modo a compimento la sua opera: sia egli artista o artigiano, imprenditore, operaio o contadino, ogni lavoratore è un creatore»7.
- Il lavoro è vocazione
2.1 Vocazione primordiale
Il binomio vocazione e lavoro non può essere ridotto all’avere la vocazione per una determinata professione… per una sistemazione economica. In verità il lavoro, prima di ogni sua particolare determinazione, rientra in quegli elementi costitutivi dell’essere umano, che fanno parte della creazione, che rivelano l’uomo e senza i quali non si comprenderebbe chi è l’uomo e chi è chiamato ad essere. «Il lavoro non dev’essere inteso soltanto in senso oggettivo e materiale, ma bisogna tenere in debita considerazione anche la sua dimensione soggettiva, in quanto attività che esprime sempre la persona. Oltre ad essere paradigma decisivo della vita sociale, il lavoro ha tutta la dignità di un ambito in cui deve trovare realizzazione la vocazione naturale e soprannaturale della persona»8. In questo senso il lavoro è vocazione iniziale, primordiale, che potrà determinarsi in una molteplicità di modalità. Senza questa non sarebbero possibili le determinazioni o, se lo fossero, non avrebbero capacità di dare significato all’ esistenza umana. Dobbiamo dire che, soprattutto oggi, non sempre (o quasi mai) è possibile lavorare proprio in quel settore per cui si avverte una propensione personale, una vocazione, appunto, nel senso dato a questa parola dal linguaggio comune.
2.2 Vocazione bisognosa di redenzione
Questa verità sull’uomo è espressa in modo chiaro dalle parole del Santo Padre Benedetto XVI: «È importante tenere sempre presente che il lavoro è uno degli elementi fondamentali sia della persona umana, che della società. Le difficili o precarie condizioni del lavoro rendono difficili e precarie le condizioni della società stessa, le condizioni di un vivere ordinato secondo le esigenze del bene comune»9. Le difficili o precarie condizioni del lavoro, conseguenza non solo del peccato delle origini, ma anche degli egoismi personali, degli interessi di parte che mirano al solo profitto anche a danno della persona, vanno ad intaccare la sua realtà di vocazione primordiale. «Spesso, invece, viene visto solo come strumento di guadagno, se non addirittura, in varie situazioni nel mondo, come mezzo di sfruttamento e quindi di offesa alla stessa dignità della persona. Vorrei accennare pure al problema del lavoro nella Domenica. Purtroppo nelle nostre società il ritmo del consumo rischia di rubarci anche il senso della festa e della Domenica come giorno del Signore e della comunità»10. Ma all’inizio non fu così. Per questo c’è bisogno di redenzione: «..Dio ha creato qualcosa di bello e buono per noi. Poi ci ha incaricati di continuare questo lavoro di plasmare la creazione come un luogo che sia una casa bella, accogliente e adatta per l’intera famiglia umana… A causa della trasgressione di Adamo il nostro lavoro a volte è frustrante e rovinato da volontà e conflitto… Per essere ciò che è, il lavoro ha bisogno di essere redento; deve essere lavoro in Cristo poiché è solo in Cristo che possiamo trascendere le conseguenze del peccato»11.
2.3 Vocazione eucaristica
«Con il lavoro, l’uomo ordinariamente provvede alla vita propria e dei suoi familiari, comunica con gli altri e rende servizio agli uomini suoi fratelli, può praticare una vera carità e collaborare con la propria attività al completarsi della divina creazione. Ancor più: sappiamo che, offrendo a Dio il proprio lavoro, l’uomo si associa all’opera stessa redentiva di Gesù Cristo, il quale ha conferito al lavoro una elevatissima dignità, lavorando con le proprie mani a Nazareth»12. È fondamentale recuperare l’essenza del lavoro, di qualsiasi lavoro, anche quando non dovesse corrispondere alle legittime attese o propensioni personali: «L’offerta è la modalità ultima del lavoro cristiano, per cui la cosa più banale splende del suo nesso ultimo ed ha la consistenza dell’Eterno… Tutto in questo mondo, cose, avvenimenti, rapporti umani, ha un carattere sacramentale… Tutto, nel mondo, è idoneo a condurre a Dio, punto ultimo ove ogni cosa converge. Tutto, e più specialmente… il lavoro… ogni opera umana, la più umile mansione casalinga, come la più spirituale attività… Dio è, in qualche modo, in cima alla mia penna, al mio piccone, al mio pennello, al mio ago, al mio pensiero»13. L’offerta, modalità fondamentale che segna ogni lavoro cristiano, caratterizza la vocazione primordiale come realtà sacramentale, capace per questo di condurre a Dio. Adattando un passaggio di Nuove Vocazioni per una Nuova Europa a questo aspetto, potremmo parlare della vocazione primordiale secondo una prospettiva eucaristica: «L’Eucaristia diventa sorgente di ogni vocazione cristiana; in essa ogni credente è chiamato a conformarsi al Cristo Risorto totalmente offerto e donato… Colui che vi prende parte accoglie l’invito chiamata di Gesù a “fare memoria” di Lui, nel sacramento e nella vita – e, aggiungiamo noi, nel lavoro –, a vivere – a lavorare – “ricordando” nella verità e libertà delle scelte quotidiane il memoriale della croce, a riempire l’esistenza di gratitudine e di gratuità, a spezzare il proprio corpo e versare il proprio sangue. Come il Figlio»14.
3.1 …ad uno “sguardo compassionevole”
«Per sapere cos’è l’uomo e cosa è “naturale” per lui, il pensiero umano si è sempre basato sull’analisi della sua natura, intendendo per natura ciò che l’uomo è ed ha dalla sua nascita. Ma la Bibbia – che ignora del tutto il concetto di natura applicato all’uomo – si basa invece sul concetto di vocazione: l’uomo non è solo ciò che è per nascita, ma anche ciò che è chiamato a divenire mediante la sua libertà e nell’obbedienza alla parola di Dio»15.
Promuovere lo sviluppo integrale della persona, dunque, implica l’attenzione a tutte le sue componenti, quella “attuale” (ciò che l’uomo è al presente) e quella “ideale” (quello che l’uomo potrebbe diventare)16. Ciò che l’uomo è e ciò che è chiamato a diventare sono i due poli, attuale e ideale, che descrivono dinamicamente la dimensione vocazionale inscritta nella realtà stessa della vita.
Lo stesso discorso potremmo applicarlo al creato: realtà che ha una dimensione attuale (ciò che attualmente è) e tende verso una dimensione ideale (ciò che è chiamato a diventare) che ancora non realizza e che non realizzerà in pienezza se non alla fine dei tempi17.
In questa prospettiva, mentre l’uomo si determina verso ciò che è chiamato a diventare con la sua libertà, il creato necessita dell’intervento dell’uomo, della sua opera. Ecco allora il lavoro. Il lavoro è l’opera di mediazione che l’uomo è chiamato a compiere a servizio del processo di sviluppo del creato nel continuo passaggio da ciò che è verso ciò che dovrebbe esprimere e diventare.
Questa opera di mediazione ha bisogno, come punto di partenza, di uno sguardo particolare da parte dell’uomo. Uno sguardo che va educato, capace di percepire lo “scarto”, ossia l’appello, tra attualità e idealità del creato e, a partire da questo, motivare e dar vita ad un lavoro che diventa così risposta ad una chiamata.
E questa è una logica vocazionale: l’uomo con il suo lavoro risponde alla chiamata a realizzare il desiderio di Dio sul creato, attraverso la trasformazione/passaggio dall’attuale all’ideale.
3.2 …alla vita buona del Vangelo: lavoro e festa
Il lavoro e la festa sono due ambiti della vita in cui facciamo esperienza e prendiamo consapevolezza della nostra vocazione.
Il Lavoro, come già abbiamo detto, ci permette di ricordare che siamo creature bisognose di procurarci il necessario sostentamento per vivere («Con il sudore del tuo volto mangerai il pane», Gen 3,19). Il pane che alimenta la nostra vita è frutto della terra e del nostro lavoro faticoso: essendo uomini non possiamo creare, possiamo produrre con fatica. Vivere il lavoro in questa maniera è compiere un atto religioso: riconoscere che la vita non siamo noi a darcela, dobbiamo riceverla dall’esterno attraverso la mediazione della nostra attività lavorativa. Ecco perché lavoriamo e, di conseguenza, mangiamo. «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2Tess 2,10): non è solo per una giustizia sociale, è ciò che ci permette di non perderci, di non perdere la nostra vocazione, di non smarrire la nostra identità: siamo creature.
La festa è tempo della gratitudine verso il Padre, memoria del Creatore che si prende cura di noi, sue creature, e ci dona la vita, la vera vita che viene dall’alto («il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente», Gen 2,7). Fare festa è riconoscere sì che la vita non siamo noi a donarcela e dobbiamo riceverla dall’esterno, ma questa vita, in verità, viene dall’alto, e solo da Dio possiamo attenderla.
Gli Orientamenti pastorali della Conferenza Episcopale Italiana per il decennio ci ricordano che, concretamente, la capacità di vivere il lavoro e la festa come compimento della vocazione personale si esprime nel prendersi cura degli altri nella fatica del lavoro e nella gioia della festa, nella condivisione solidale con chi soffre, è solo o nel bisogno18. L’accompagnamento dei giovani (anche di quelli che si trovano in formazione nei seminari o nelle case religiose) nella scoperta della loro vocazione non può prescindere da questa maturazione. Prima ancora che aiutare la persona a determinarsi in uno stato di vita, dovrebbe essere educazione a maturare la dimensione dell’uomo coltivatore, disponibile alla presenza, all’assunzione delle nuove problematiche, ad evitare ritiri o fughe dal nostro tempo19.
Questa dimensione è via di santità, imitazione di Cristo, come ci ricorda il Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa: «Quelli che sono dediti alle fatiche, spesso dure, devono con le opere umane perfezionare se stessi, aiutare i concittadini e far progredire tutta la società e la creazione verso uno stato migliore, ma anche, con una carità operosa, lieti nella speranza e portando gli uni i pesi degli altri, imitare Cristo, le cui mani si esercitarono in lavori di carpentiere e che sempre opera col Padre alla salvezza di tutti, e infine con lo stesso loro quotidiano lavoro ascendere a una più alta santità»20.