N.03
Maggio/Giugno 2013

Andate…edificate la chiesa

Il Signore chiama: tutta la vita non basta a rendersi conto della bellezza dello sguardo che Dio posa su di noi, per affidare a cia­scuno un compito originale, eppure in funzione della crescita della comunità di tutti. Accade proprio come in una famiglia: cia­scuno è chiamato alla vita da un atto di amore e poi collocato nel contesto familiare con una sua personalità, un suo stile, un suo compito. Ciascuno è accolto dentro la famiglia come un grembo che lo protegge e continua a farlo crescere e lo rende partecipe del­la vita della famiglia tutta. L’originalità di ciascuno diviene dunque come la voce in un coro: unica, eppure destinata a contribuire ad un’armonia che la supera e la coinvolge. Se nella famiglia qualcu­no si sottrae al compito che gli è stato assegnato, il tutto si impove­risce e chi non partecipa si pone ai margini. Così, l’unico modo per essere parte viva della famiglia è quello di essere corresponsabili della sua vita.

È la stessa dinamica che Paolo rappresenta con l’immagine del corpo (1Cor 12) e Pietro con quella dell’edificio, con il linguaggio che è tipico del costruire una casa: le pietre, fondamento…

Il termine edificare richiama azioni molto concrete e comuni. Una casa cresce giorno dopo giorno, sulla base di un progetto, in cui tut­te le persone che vi sono coinvolte mettono la loro fantasia, i loro gusti, le loro esigenze, insieme alle competenze che permettono di costruire un edificio solido, stabile, capace di rispondere alle neces­ sità di chi vi abita, di durare nel tempo e di affrontare intemperie e imprevisti. E poi vi è il lavoro di chi, giorno dopo giorno, usando i mattoni, il cemento, gli attrezzi del mestiere, dà forma alla casa e realizza con umili gesti quotidiani l’edificio che sarà tanto più bello, quanto più bella sarà l’idea che gli ha dato origine; tanto più solido, quanto più accurato e competente sarà il modo di costruire.

Al di là della metafora, il compito che il Signore affida ai suoi è complesso e ha tante componenti: ideali, progettuali ed operative.

Voglio immaginare che ciò di cui la Chiesa ha bisogno per essere edificata corrisponda ai mattoni necessari per costruirla.

La Chiesa si edifica dalle fondamenta e il suo fondamento è Cristo.

Come ci ricorda il Vangelo, attingendo dall’esperienza di ogni giorno, una casa costruita sulla sabbia si espone, fragile, alle in­temperie. Così è della Chiesa: senza fondamento, rischia di crollare alla prima difficoltà. E il suo fondamento è Cristo: è lui la luce delle genti, cui la Chiesa è inviata e che può attrarre in ragione del suo legame con Cristo.

Questo è tempo per ricordarci che la verità del rapporto tra Cri­sto e la sua Chiesa non va solo creduto, ma vivamente praticato. Non si tratta di aderire ad una verità astratta, ma di rendere tale verità attiva e feconda nella vita delle comunità cristiane e ancor prima nell’esistenza quotidiana dei cristiani.

Se Cristo è fondamento della sua Chiesa, significa che ciascun credente deve costruire la sua appartenenza ecclesiale sulla fede in lui, sulla sequela di lui, sulla fedeltà al Vangelo, sulla fiducia nella sua Parola. Il compito della Chiesa, nel contesto concreto in cui si radica, è di far vedere l’amore del Signore, la sua Vita risorta, il cuo­re del Padre che egli ha rivelato: senza questo, la vita della Chiesa è costruita sulla sabbia. In questa certezza vi è il richiamo a rendere sempre più forte l’impronta evangelica della Chiesa e l’esperienza di fede, personale e comunitaria, che la deve animare. E al tempo stesso è urgente che la Chiesa trovi il linguaggio giusto per comu­nicare il mistero dell’amore che la costituisce; e questo richiede il coraggio e la fedeltà di parlare del mistero di Dio nel linguaggio del­le persone di oggi. Di parlare le lingue di oggi senza tradire il cuore del messaggio.

 

Potrà sembrare una considerazione ovvia, questa, ma sappiamo che non è mai scontato il radicamento nel Signore e nel suo miste­ro. E che la fragilità dell’azione delle comunità cristiane sta nella superficialità con cui si dà talvolta per scontato proprio l’essenzia­le: il Signore, la sequela, la fedeltà al Vangelo. L’allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, nel 1955, dedicava a Cristo la sua prima lettera pastorale alla diocesi, e scriveva che «Cristo è essenziale, Cristo è necessario, Cristo è indispensabile per le nostre relazioni con Dio»1. E quasi rispondendo ad una possibile obiezio­ne, proseguiva: «Non si dica consueto il tema; esso è sempre nuovo; non lo si dica già conosciuto; esso è inesauribile».

  1. Radicata nell’Oltre di Dio

La Chiesa è una singolare esperienza. La forza che la tiene insie­me è Oltre, sempre al di là. Oltre il tempo, oltre il territorio, oltre le persone che la costituiscono, oltre le azioni compiute per darle vitalità. Paradossalmente, questo singolare edificio è come se avesse fuori di sé il suo baricentro: verso Dio, verso la missione, verso gli altri, verso il mondo. Cresce e si fa salda in ragione del suo proiet­tarsi oltre se stessa, in un continuo superamento che costituisce la sua forza e la sua libertà. E così il progetto che la configura tiene insieme tempo ed eterno, azione dell’uomo e azione di Dio, impe­gno e dono, responsabilità e grazia, idealità e competenza, slancio e azione concreta.

Che significa questo nella vita di tutti i giorni, per le comunità cristiane concrete? Per ciascun cristiano?

1.1 L’Oltre della Parola

In questa prospettiva, il primo mattone su cui edificare la Chiesa è l’ascolto della Parola, dono con cui Dio ci viene incontro per sve­larci il mistero del suo amore, per accogliere la nostra domanda di vita e di pienezza, per continuare a chiamarci.

Il Concilio ha invitato la Chiesa a riscoprire la Parola come ali­mento essenziale, insieme all’Eucaristia, della sua vita e della sua crescita. È Parola che svela passo dopo passo la profondità del miste­ro dell’amore di Dio. Nell’assiduità dell’ascolto, la Chiesa sperimen

ta che cresce la sua familiarità con la persona del Signore e si rende conto che gradualmente questa la trasforma e la rende sempre più evangelica. Ascoltare la Parola è stare in contatto con il mistero di Dio e al tempo stesso è cercare la chiave del suo cuore per penetrare il mistero della vita… Così, a poco a poco, il discepolo – e la Chiesa come discepola – impara a cogliere la presenza del Risorto anche dentro la storia umana: non solo nei fatti straordinari, ma in quelli umili, ordinari, semplici dell’esistenza quotidiana.

1.2 L’Oltre della liturgia

Il secondo mattone con cui siamo chiamati a edificare la Chiesa è la liturgia, che nasce dallo stupore per l’amore ricevuto e lo trasforma in canto, in lode, in corale invocazione. La liturgia è il linguaggio più alto della Chiesa; ogni volta che ci immergiamo in essa, partecipiamo alla gioia della Chiesa per Dio e, al tempo stesso, invochiamo da lui quell’amore di cui ci sentiamo incapaci, se non ci viene comunicato come dono dall’alto. La Chiesa sperimenta tutto questo soprattutto nell’Eucaristia, dono che ci trasforma e ci rende capaci di amare.

Siamo abituati a considerare l’aspetto più sensibile dell’Eucari­stia: il trasformarsi del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore; ma anche la nostra vita viene trasformata, dalla parteci­pazione all’Eucaristia: ciò che la rende nuova è anche la consape­volezza dell’amore gratuito che la raggiunge. L’Eucaristia è il segno e la forza di questo amore. Se ci affidiamo ad un amore che crede nel valore della nostra vita e si dona ad essa, noi siamo trasformati; conosciamo per esperienza la forza che ci viene, per affrontare le si­tuazioni più difficili, dall’aver vicino una persona che ci vuole bene, che ha fiducia in noi, che con gratuità vuole accompagnarsi alla nostra vita: sappiamo che quelli sono i casi in cui scopriamo in noi un’energia insospettata; è questa una forza straordinaria che occor­re per affrontare tutte le situazioni della vita personale ed ecclesiale: quella della fatica, dell’insuccesso, della durezza del proprio cuore, del male dentro di noi e attorno a noi.

Ogni Eucaristia è l’esperienza dell’incontro vivo con il mistero di una Persona che desidera accompagnare il nostro cammino verso la realizzazione piena di noi stessi, nella libertà, nella gioia, nell’a­more. Dall’Eucaristia viene alle persone la possibilità di trasformare il mondo con la forza dell’amore ricevuto. E di trasformare giorno dopo giorno anche la comunità cristiana, perché il suo stile maturi sempre più nella prospettiva del Vangelo. Credo che dall’Eucaristia debbano nascere oggi relazioni rinnovate, anche all’interno della comunità, ispirate all’accoglienza, al reciproco riconoscimento, alla comprensione, all’aiuto, al perdono, alla correzione fraterna. Sono tristi quelle assemblee liturgiche che vedono le persone una a fianco dell’altra, senza mai scambiarsi uno sguardo, un sorriso, un segno di vicinanza, generata quanto meno dalla comune fede e dalla parteci­pazione ad uno stesso mistero. L’anonimato che si respira in molte assemblee liturgiche e in molti incontri ecclesiali dovrebbe interro­garci sul messaggio che comunichiamo a chi ci vede. La testimo­nianza cristiana passa attraverso le nostre scelte e i nostri gesti: la freddezza, il disinteresse per gli altri, la reciproca estraneità non pos­sono parlare dell’amore fraterno che dovrebbe animare le relazioni ecclesiali. Certo non è facile costruire un tessuto comunitario, anche i contesti ecclesiali soffrono dei difetti del nostro tempo: individua­lismo, fretta, arroganza, conflittualità, pettegolezzo… Ma i discepoli del Signore sanno che la loro vita deve testimoniare uno stile diverso da quello corrente: dunque relazioni veramente fraterne. E per que­sto, curate, non affidate alla spontaneità delle relazioni “naturali” e sempre più superficiali, cariche di aggressività, di voglia di prevalere sugli altri, di esercitare su di loro il potere di cui disponiamo. Saper ascoltare, saper accogliere l’altro così com’è senza giudicarlo, saper stare con le persone in una conversazione sana e cordiale, senza scadere nel pettegolezzo o nella banalità, saper collaborare, saper va­lorizzare gli altri in ciò che sanno fare, saper fare un passo indietro… sono tutte declinazioni di una carità sensibile che non si improvvisa, che è fatta di sfumature e che esige un continuo lavoro su di sé.

Così, la liturgia che si celebra nel rito si trasforma in liturgia della vita e dà all’esistenza quotidiana i tratti belli dell’esperienza dell’in­contro con Dio.

1.3 L’Oltre della missione

L’Oltre che caratterizza la vita della Chiesa e che fa sì che il suo baricentro sia sempre spostato fuori di sé la spinge alla missione. La comunità dei cristiani, che hanno fatto un incontro vivo con il Signore e sentono dentro di sé la speranza che questo incontro ha generato, desiderano condividere il senso di pienezza che speri­mentano; chi fa un’esperienza consapevole dell’essere discepolo sa di essere mandato fino agli estremi confini della terra.

Una Chiesa ripiegata su di sé, paga di gestire le proprie iniziative, spesso anche molto brillanti, dimostra di non aver accolto la pas­sione del Signore di far giungere il Vangelo ovunque, inventando forme, liberando energie, motivando persone ad andare, a cercare linguaggi, luoghi, forme per far percepire la bellezza dell’incontro con il Signore a tutti.

Mettendo a frutto la lezione del Concilio, la Chiesa oggi deve valorizzare con determinazione quelle vocazioni che si spendono nel mondo: quelle laicali che portano il Vangelo nel lavoro, nella scuola, nella famiglia, nella politica, nella cultura, nell’economia…

Se la comunicazione del Vangelo che avviene in parrocchia – luoghi, occasioni, iniziative organizzate dalla parrocchia – raggiun­ge quelli che compiono una scelta, la comunicazione che avviene nei luoghi comuni della vita di ogni giorno può raggiungere tutti: quelli della mia famiglia, i miei vicini di casa, i miei colleghi di lavo­ro, gli amici dei miei figli… La casa, l’ufficio, la scuola, il quartiere… sono i luoghi della vita comune, a simboleggiare che tutti i luoghi dove le persone oggi vivono possono essere raggiunti dal Vangelo. Il Vangelo si comunica anche attraverso la parola, ma quella che ha la pazienza dell’ascolto, del dialogo: dialogo sulla vita che può approdare al dialogo della fede se la vita sa interpellare, provocare, far pensare… Vite che sanno far vedere che vale la pena vivere; che si può ricominciare ogni giorno; che vale la pena di fare sul serio. Forse un po’ alla volta, attraverso la testimonianza e la parola dei cristiani, anche le persone che ci vivono accanto potranno capire che Gesù Cristo è morto e risorto perché noi possiamo vivere felici e dare un senso alla nostra esistenza; e potranno capire che le beati­tudini sono il segreto della loro felicità se li vedranno vivere da po­veri, da persone che amano la pace e sanno perdonare; se sapranno vedere la loro misericordia e il loro amore per la giustizia, la loro libertà e la trasparenza della loro stessa vita.

Il cristianesimo parla di donne e di uomini che amano la vita, che vivono con gioia la loro esperienza familiare e sociale; le rela­zioni con gli amici e con i vicini di casa; la politica e la professione…; che sanno apprezzare la vita con tutte le sue dimensioni: affetti, responsabilità, fatica, amore; che sanno dare un senso alle espe­rienze difficili che segnano l’esistenza di tutti: la malattia, il dolore, il limite, la solitudine, la morte; che non subiscono la loro umanità e le forme con cui si esprime nella cultura di oggi. È quello che ha fatto il Signore Gesù facendosi uno di noi; è soprattutto quello che ha fatto il Signore nei suoi anni di Nazareth, nell’anonimato, nella condivisione della semplicità della vita delle donne e degli uomini del suo tempo e della sua terra.

Per questo, i cristiani non cercano di appartarsi rispetto allo scor­rere della vita quotidiana e alle responsabilità che essi condividono con ogni persona; soprattutto di essa si sentono partecipi con in­teresse, con cordialità, desiderosi di essere fino in fondo cittadini, consapevoli che per essere così devono farsi un po’ anche “stranie­ri”: stranieri come può esserlo chi guarda il mondo e lo ama con il cuore di Dio: stranieri ad ogni interpretazione dell’esistenza di basso profilo; alla mondanità, ad ogni esaltazione dell’individuo e dei suoi interessi a prescindere dagli altri; stranieri alla smania di successo e di potere; stranieri non per rimarcare le differenze o per segnare una lontananza, ma per dare della vita un’interpretazione originale, non ovvia, non consueta; quella interpretazione che su­scita meraviglia. Dice lo scritto a Diogneto che i cristiani «mostrano il ­carattere mirabile e straordinario, a detta di tutti, del loro sistema di vita». Possiamo immaginare che la meraviglia, per chi guarda vivere un cristiano, provenga dal vedere quello stile di mitezza, di servizio, di dono di sé, di passione per la giustizia, di solidarietà che declina le beatitudini nell’esistenza quotidiana e dice che sovrano della patria cui i cristiani appartengono è un Signore crocifisso e risorto.

1.4 L’Oltre dell’amore al mondo

Il quarto mattone che edifica la Chiesa è il suo amore per il mon­do, sull’esempio del Padre che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito» (Gv 3,16).

La Chiesa parla di Dio al mondo se sa far vedere, nel suo vivere quotidiano, la stessa compassione, la stessa misericordia, la stessa mitezza, lo stesso amore per la giustizia che ha vissuto Gesù. L’a­more che generiamo attraverso i gesti della nostra vita quotidiana è una delle parole più convincenti sul Vangelo. Anche Gesù ha fatto così nell’incontro con le persone che ha incontrato: un po’ di at­tenzione, un gesto che fa del bene, una parola che dice la verità del gesto. Le persone si sono lasciate convincere più dalla bontà del suo sguardo su di loro che dalla potenza dei suoi gesti.

Ma vi è una sottile tentazione che percorre oggi la comunità cristiana: è quella di prendere le distanze da un mondo ritenuto ostile; o coltivare un sotterraneo disprezzo per un’umanità ritenuta indifferente a Dio. Vi è una pericolosa paura oggi del mondo, quasi che il contatto con esso possa contaminare i cristiani e minacciare la loro fedeltà al Vangelo.

Occorre che le comunità cristiane tornino ad un confronto fidu­cioso con il mondo di oggi, che vuol dire consentire a questa realtà di provocare il loro modo di vivere, di metterlo in discussione per lasciarci rigenerare dalla realtà, dal confronto con la vita. Questo nostro tempo di cambiamenti così rapidi e accelerati richiede alle comunità un modo nuovo di entrare in relazione.

E al tempo stesso occorre una considerazione più positiva e at­tenta della vita, nelle sue dimensioni esistenziali più comuni e con­crete; una valorizzazione dell’umanità, spazio per un dialogo con tutti. Con questo stile la vocazione dei laici torna ad avere un senso, che non si limiti alla collaborazione alle attività interne della par­rocchia.

La profezia cristiana mi pare si veda in una Chiesa che ama il mondo, la vita, le persone, il tempo, la storia umana con le sue fa­tiche e le sue contraddizioni. È la straordinaria lezione di Paolo VI, che nel discorso di chiusura ripercorre il cammino conciliare facen­done emergere l’originalità. Ebbe a dire Paolo VI: «Il magistero della Chiesa […] ha assunto la voce familiare ed amica della carità pastorale, ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti gli uomini; non si è indirizzato solo all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche nello stile della conversazione ordina­ria. Facendo appello all’esperienza vissuta, utilizzando le risorse del sentimento e del cuore, dando alla parola maggior fascino, vivacità e forza persuasiva, esso ha parlato all’uomo d’oggi, così com’è». Il Vaticano II ha indicato qui lo stile per la Chiesa di oggi: una parola amichevole, indirizzata all’umanità, la proposta di un insegnamen­to offerto come servizio a tutti, una voce familiare ed amica che vuol farsi ascoltare da tutti, disposta al dialogo e che, per questo, fa appello all’esperienza, ricollegandola alla Parola di Dio.

Ai cristiani e alle comunità cristiane mi pare che possa essere chiesto di mostrare interesse e attenzione a ciò che accade nel mon­do e nella società, e non già per fare muro, o per far sentire che anche i cristiani ci sono, quanto piuttosto per produrre pensiero da cristiani sulle situazioni della vita e sui problemi della società: ciò che più manca oggi è l’intelligenza spirituale del nostro tempo; è qualcuno che pensi, che studi, che elabori delle prospettive ragio­nevoli e dense di idealità sul futuro.

Questo atteggiamento verso il mondo, verso la storia umana, verso la vita in tutte le sue dimensioni può far trasparire quella gioia della vita che non è superficialità, ma piuttosto quotidiano esercizio di speranza: è fiducia nelle difficoltà, è abbandono alle mani di Dio, perché, qualunque cosa accada, sappiamo che Dio non ci abbando­na; è pazienza nella prova, è capacità di costruire con calma e con tenacia, perché l’edificio non si costruisce con la forza del pensiero, ma con i gesti umili che giorno dopo giorno pongono un mattone sull’altro.

1.5 L’invisibile azione dello Spirito

Lo Spirito è la forza che tiene insieme la Chiesa e dà stabilità all’edificio, che valorizza ogni azione, anche la più insignificante, perché lo Spirito sa il valore di ciò che vive nel cuore, nell’animo delle persone; il valore anche di ciò che non si vede, ma che è im­portante e vivo.

Questo è l’elemento che dà forza alla nostra azione, che dà pace alle nostre inquietudini, che dà coraggio alle nostre progettazioni, permettendoci di osare al di là delle nostre vedute che sono sem­pre troppo corte, se misurate sulla prospettiva dello Spirito. Credere all’azione dello Spirito accresce la nostra responsabilità nel portare avanti il compito cui siamo stati chiamati, e al tempo stesso ne ri­dimensiona le pretese, placando le nostre ansie. Se il protagonista della missione è lo Spirito, allora non vale la pena che ci agitiamo: a lui basta la nostra disponibilità, il nostro sì: lui poi darà fecondità ad ogni nostro desiderio, gesto, scelta, impegno. Allora possiamo stare tranquilli proprio come un bimbo in braccio a sua madre (cf Sal 131), perché sia che dormiano sia che vegliamo, il Regno cresce (cf Mc 4,26-27). Non che questo ci debba far sentire superfluo il nostro impegno: piuttosto stupiti di questa alleanza che lo Spirito fa con noi e al tempo stesso attenti, in attesa, “curiosi” di vedere quale nuova sorpresa egli ci riserverà; perché lo Spirito ama sorprenderci e sa spiazzarci, facendoci sperimentare la forza dell’Oltre che costituisce la comunità dei fratelli in Cristo.

 

  1. Due considerazioni per concludere

Tornare al modo con cui il Vangelo ispira il modo di pensare la Chiesa ci aiuta a correggere l’idea secondo cui sono le nostre attivi­tà, le iniziative, i progetti concreti ciò che è necessario alla crescita dell’edificio ecclesiale. Una riflessione più attenta e meno superfi­ciale ci aiuta a recuperare il senso vero dell’edificare la Chiesa: essa cresce per una serie di azioni interiori che sono la condizione di successo di ciò che si opera nella concretezza.

Nel percorso postconciliare si è fatta strada l’idea che costrui­scono la Chiesa coloro che sono coinvolti nelle attività con cui essa organizza la propria azione; di questa impostazione ha sofferto so­prattutto la vocazione laicale. I laici più coinvolti sono diventati operatori pastorali e coloro che non lo possono essere hanno finito con il ritenersi superflui alla costruzione della comunità cristiana. Ma se i mattoni necessari all’edificazione della Chiesa sono quelli indicati sopra, allora nessuno è estraneo a questa corale costruzione. La comunità cristiana deve abituarsi a dare rilevanza nel suo oriz­zonte di preghiera, di azione, di progettazione, a queste persone, e a non considerare operai solo coloro che mettono materialmente la loro azione. L’edificio della Chiesa è singolare: cresce anche per la forza di azioni invisibili, di adesione interiore, di dedizione anche sui confini, sulle frontiere più difficili dell’adesione del cuore anche in territori lontani o estranei alla Chiesa.