La ricerca della verità tra certezza della fede, domande del cuore e sfide della storia
Nel 1931, G.B. Montini – assistente generale della FUCI – redige un testo, Spiritus Veritatis, nel quale raccoglie una breve – densa – riflessione in merito all’indirizzo che vuole dare alla sua vita. È maturo, ma ancora giovane (ha meno di 35 anni). Le sue parole esprimono una grande lucidità; nella loro ordinata e coerente formulazione probabilmente riflettono anche gli indirizzi educativi da lui seguiti con gli universitari cattolici, poco più giovani di lui. Per questa ragione il testo costituisce un documento con cui vale la pena confrontarsi, quando ci si interroga su come rapportarsi a giovani in ricerca vocazionale.
Ci sono alcuni indirizzi di fondo che merita preliminarmente richiamare. Anzitutto: l’assistente Montini si pone di fronte alla “Verità prima”, la sua riflessione sgorga dalla sorgente della “vita spirituale cattolica” e da essa trae continuo alimento. Non si nasconde – è la seconda puntualizzazione – gli interrogativi che prendono forma dal confronto con la realtà. La luce correlata alla “sapienza vitale” degli insegnamenti ecclesiali va coniugata con “una sincera probità scientifica” ossia con la ricerca intellettuale e morale che raccoglie i quesiti, che non si sottrae alla meraviglia suscitata dall’esistenza e dall’esistente ogni giorno. Ma il tesoro è donato perché sia diffuso. Il testo montiniano è pervaso da una radicale aspirazione a trasmettere ciò che si è ricevuto, ha una strutturale disposizione missionaria, volta a «favorire la diffusione della verità negli altri», scrutando con «occhio pio e puro (…) in ogni verità particolare riflessi della Verità prima».
Insomma, gli spunti abbondano in questo scritto che avvicino non come un fossile dissepolto dal passato, ma come una testimonianza viva, che può guidarci nel presente. Intendo accostare il testo prendendo spunto dai tre nuclei tematici evocati nel titolo, che assumo come altrettanti vettori di ricontestualizzazione: certezza della fede, domande del cuore, sfide della storia. Al centro di tutto: la ricerca della verità, cuore pulsante di un impegno di vita, guardando al quale siamo provocati a non rassegnarci, nemmeno quando – e forse questo identifica il tempo presente – i risultati sembrano piuttosto scarsi. Del resto, l’immagine utilizzata da Benedetto XVI per introdurci nella rivisitazione del Concilio a cinquant’anni dalla sua apertura – la traversata del deserto1 – non esprime abbondanza, ma – con il suo richiamo all’essenziale – non consegna neppure alla rassegnazione: ci vuole, al contrario, molta determinazione per non sparire tra le sabbie della storia. Prendiamo quindi le mosse da questa disposizione mentale.
- Introduzione: che cosa vuol dire cercare la verità?
Perché cercare la verità? Dopo oltre venticinque secoli di riflessione filosofica, dopo che l’umanità ha visto sorgere e tramontare svariati sistemi intellettuali, etici, economici, politici, dopo un secolo – il XX – che ha diffuso scetticismo e relativismo a piene mani, si pone ancora la domanda di sempre: «Esiste la verità?».
Anche rispondendo affermativamente al quesito, da credenti, non possiamo evitare di sostare, interrogandoci davanti al silenzio di Gesù quando il quesito gli fu posto da Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38); tanto più che le parole del magistrato romano, in teoria, avrebbero potuto suscitare l’attenzione di Cristo, provenendo da chi – aduso a maneggiare il potere – era probabilmente indotto a professare lo scetticismo e il relativismo che frequentemente accompagnano chi si destreggia alla ricerca del proprio interesse. Invece Gesù tace.
Di fronte al contesto socio-culturale di oggi possiamo essere indotti ad abbracciare una disposizione simile, provando un certo senso di smarrimento nei confronti di una tendenza che sembra dileggiare quando non disprezzare e perseguitare la fede. Eppure, oltre vent’anni fa, un intellettuale francese – Gilles Kepel – ha pubblicato un volume (tradotto in tutto il mondo) dal titolo La rivincita di Dio. In questo testo fa un’osservazione inoppugnabile. Dopo svariati responsi in merito alla residualità del fattore religioso (alcuni hanno avuto ampia risonanza come il testo che, negli anni Sessanta, pubblicò in Italia il sociologo Sabino Acquaviva: L’eclissi del sacro2), negli ultimi quarant’anni la fede religiosa è stata all’origine di sommovimenti politici, sociali e culturali che hanno scosso il mondo da un capo all’altro del pianeta. Nota esplicitamente: «Tra il 1975 ed il 1990, i movimenti di riaffermazione dell’identità religiosa hanno subito grandi mutamenti. Nel giro di quindici anni hanno saputo trasformare la reazione di smarrimento, provata dai loro adepti di fronte alla crisi della modernità, in progetti di ricostruzione del mondo che trovano nei Testi sacri i fondamenti della società futura»3. Lo studioso è piuttosto critico perché tende ad associare il fondamentalismo a questa tendenza: a maggior ragione, quindi, la sua osservazione desta indubbio interesse. Del resto, dalla rivoluzione khomeinista in Iran alla primavera araba, l’islam mostra una vitalità del tutto incoerente rispetto alla presunta secolarizzazione come “destino” fatale della storia. Ma questa stessa vitalità – anzi ben più estesa come raggio d’azione – riguarda anche il cattolicesimo che ha ispirato rivoluzioni come quella che nelle Filippine ha rovesciato il regime dittatoriale di Marcos oppure quella che ha condotto Timor Est alla indipendenza. In Europa abbiamo assistito allo sgretolamento dei sistemi politici dell’Est che è cominciato con i bagni di folla durante il primo viaggio apostolico di Giovanni Paolo II in Polonia. Si potrebbero fare altri esempi, tutti avrebbero lo stesso denominatore: alla loro radice non troviamo nessuna delle ideologie che hanno dominato il Novecento, ma la fede religiosa. Questo basta per mostrare che la secolarizzazione non è il destino della civiltà umana e per richiamare i credenti a non indulgere verso una rassegnazione che può mascherare l’accidia e l’ignavia. Lo ha osservato recentemente il card. Cottier – teologo della Casa pontificia durante il pontificato di Giovanni Paolo II – in un libro-intervista dedicato al problema dell’ateismo: «Trovo (…) che in molti progetti pastorali c’è questa accettazione di partenza, ossia ci si riferisce alla sfida di parlare di Dio nel mondo secolarizzato come se questo fosse irreversibile. È un’idea estranea al cristianesimo, piuttosto riconducibile alle dottrine illuministiche sul progresso, dove il progresso tecnico è identificato con il progresso umano come tale»4.
Sono partito dallo smarrimento che ci può cogliere oggi e che ci può condurre al silenzio di fronte a sfide che sembrano soverchiarci, quando non – forse sul piano motivazionale è ancora più grave – semplicemente ignorarci. Ho tratto spunto dal fatto che Cristo, di fronte alla domanda di Pilato in merito alla Verità, ha fatto silenzio. Che cosa significa? Evidentemente non che Cristo fosse scettico oppure relativista, lui che di sé ha detto: «Io sono la Via, la Verità e la Vita» (Gv 14,6). Ma che cosa chiedeva, in realtà, Pilato. Leggiamo il testo originale: Quid est veritas?/Tí estin alétheia? (Gv 18,37). La sua domanda, forse senza che ne avesse coscienza (non sappiamo che tipo di preparazione culturale avesse questo alto magistrato romano), era perfettamente in linea con la tradizione filosofica che, da secoli, si interrogava circa l’arché ossia il “principio” ponendo la questione: Tí estin?, “Che cos’è?”. Davanti alla realtà, la domanda è sempre la medesima: “Di che cosa si tratta?”, “Che cosa c’è di fronte a noi?”, “Su che cosa possiamo fare affidamento per la nostra conoscenza?”. Perché la constatazione del continuo mutare dell’esistente non permetteva (e non permette) di riconoscere in esso nulla che possa dare giustificazione completa di sé. Eventualmente (anche questa risposta è documentabile nel mondo antico) si può optare per l’idea che tutto sia null’altro che costante, circolare ritorno dell’uguale, una ruota che gira perennemente su se stessa… Ma allora la domanda – come è stato formulato anche in piena Modernità da Leibniz e da Heidegger – diventa: «Perché c’è in generale qualcosa piuttosto che niente?», dal momento che la circolarità non si autogiustifica in quanto comunque postula un inizio.
Possiamo accostarla in molti modi, sempre nella domanda di Pilato a Cristo risuona indiscutibilmente ciò che la tradizione pagana ha identificato con la ricerca di che cosa fosse la verità. Del resto, che cos’era Gesù per Pilato? Lo dice bene Guardini: uno «appartenente alla schiera dei filosofi pellegrinanti, che abbandonano tutte le cose terrene per voler instaurare il regno della verità»5. Quindi, uno come tutti gli altri, ma qui sta il punto: per Cristo – quindi per il cristianesimo – la verità non è qualcosa, bensì qualcuno sicché la domanda giusta, invece di quella formulata da Pilato e dal pensiero filosofico in generale, è un’altra: chi è la verità? Lo ha sottolineato ripetutamente Benedetto XVI, già a partire dalla sua prima enciclica: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»6. Ce lo ha ricordato Papa Francesco nell’omelia della Domenica delle Palme 2013: «Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti!». Del resto, quando Giovanni ha compiuto una delle più straordinarie forme d’inculturazione del Vangelo di cui si abbia notizia, ha scelto la parola tipica della
filosofia greca (lógos) per identificare Colui che è “la verità fatta carne”, Cristo, il Lógos con la maiuscola. Ciò che il mondo pagano aveva ricondotto a un ordine impersonale, eventualmente collegato a un Ente trascendente – com’è nel caso del “Motore immobile” aristotelico – totalmente estraneo a tutto il resto, viene ora riconosciuto in una Presenza che si concepisce strettamente congiunta a ciò che ha creato senza tuttavia confondersi con esso: il Dio cristiano è «solo, ma non solitario»7, è «Emmanuele», cioè «Dio-con-noi» (Is 7,14; Mt 1,23).
Che cosa comporta, sul piano antropologico, questa ricomprensione della verità? Se la verità non è più qualcosa da contemplare, ma Qualcuno da incontrare, succede che non è più possibile esprimerla nella forma della descrizione distaccata, obiettiva. Siamo coinvolti, drammaticamente coinvolti in una relazione con Colui che ci ha chiamati alla vita per amore e ci invita a riconoscerlo Signore per amore, perché «è Amore» (1Gv 4,8).
Dopo oltre venti secoli di cristianesimo forse facciamo fatica a cogliere la novità di questo approccio, ma ce ne possiamo rendere conto se confrontiamo due testi, solo apparentemente simili, mentre – in realtà – sono diversissimi. Si tratta delle autobiografie di Marco Aurelio e di Agostino. Il primo – filosofo stoico oltre che imperatore – ha scritto i Pensieri a se stesso che si sviluppano senza increspature e, anche quando riguardano passaggi difficili, restituiscono una visione “olimpica” nella quale tutto si tiene e nulla suscita scandalo. L’esatto contrario accade nelle Confessioni agostiniane, dove le turbolenze esistenziali del protagonista sono lo specchio del turbinio interiore, delle convulsioni della volontà che conducono Agostino a concludere di essere diventato un “grande problema” per se stesso. La prosa agostiniana è lo specchio del rapporto con una verità che, essendo viva e libera, viene riconosciuta all’interno di una tensione incancellabile, quella dello “scandalo” che supera ogni possibile razionalizzazione.
Le pagine di Montini recano traccia di questa disposizione. Gli insegnamenti della Chiesa sono identificati come “sapienza vitale”, essa è il “Corpo mistico” di Cristo, la verità va anzitutto “amata”… su tutto sovraintende l’“imitazione” di Cristo ossia la conformazione a lui conseguente all’incontro con lui, con la verità fatta carne in lui. Queste riflessioni ben ci introducono nel primo tratto del nostro percorso, che prende forma dopo questa lunga – ma necessaria – introduzione: che cosa configura la “certezza” della fede oggi, nella prospettiva della ricerca della verità-persona che è Cristo, la quale accompagna ogni discernimento vocazionale?
- Una “certezza” originale
Tra le critiche che vengono oggi mosse alla fede, ce n’è una che se la prende direttamente con la “certezza” e trova terreno assai favorevole in una cultura che, per estenuazione o per calcolo, si lascia sedurre dal richiamo di ciò che è incerto. Del resto, non dobbiamo dimenticare che il XX secolo è stato teatro di una radicale rivoluzione epistemologica che ha sostituito alla certezza positivistica delle conoscenze scientifiche (i “fatti”) l’incertezza di costrutti congetturali validati da una conferma sperimentale solo temporanea. Sul versante della filosofia qualcosa di analogo si è espresso con l’ascesa del “pensiero debole” e del cosiddetto “postmoderno”, identificato da Lyotard con “la fine delle grandi narrazioni”.
In campo etico, la contestualità viene continuamente richiamata per destituire di credibilità ogni visione d’ampio respiro. La parola “verità” suscita l’arretramento, quando non l’aggressione, di chi vi oppone un “istintivo” rifiuto, ben espresso da Galimberti quando invoca la «fine dell’uomo come l’abbiamo conosciuto sotto la tutela della fede, o della verità, o della certezza scientifica»8.
Perché tanta diffidenza verso la “certezza”? Perché viene associata alla violenza e alla intolleranza. Più o meno, il discorso che spesso ci sentiamo fare è questo: se qualcuno è certo di qualcosa, questo vuol dire che la possiede e – per questa stessa ragione – ne può fare uso a proprio arbitrio contemporaneamente non solo deprecandone, ma anche disprezzandone la mancanza negli altri a cui contrappone la propria autosufficienza… Ma non è questo ciò che hanno rivendicato le ideologie pretendendo la passiva conformità di chi aderiva ad esse? La stessa cosa che accade oggi nelle sette, sorta di “ideologie sacrali” connotate dallo stesso cieco
disprezzo per la singolarità di ciascuno… Va tuttavia rilevato che proprio dalle ideologie ha preso forma l’intolleranza di cui il XX secolo è stato teatro senza precedenti. Questo referto è inoppugnabile. Le ideologie, per il fatto che coltivavano una coscienza di se stesse improntata al totalitarismo, respingevano tutto ciò che intendeva sottrarsi alla loro signoria totalmente autoreferenziale, a cominciare dalla concezione religiosa che è stata rifiutata e attivamente perseguitata perché – riconoscendo la trascendenza della verità – non può conformarsi a chi si ritiene depositario di un sapere globale e definitivo.
Questa considerazione deve farci riflettere. Com’è possibile estendere al cristianesimo la critica delle ideologie che si sono esplicitamente contrapposte ad esso? È chiaro che il cristianesimo parla della verità, ma in modo molto diverso dalle ideologie. Basta constatare che anche il cristianesimo riconosce l’esistenza della verità e ne professa la conoscenza? Ma, se si tratta dello stesso punto di vista, perché le ideologie hanno ingaggiato una lotta così feroce contro la fede cristiana? La chiave, per cogliere ciò che c’è in gioco, ce la dà il richiamo dei Papi Benedetto e Francesco al riconoscimento di Qualcuno come destinatario della fede del credente, perché – nei confronti di qualcuno – non è possibile nemmeno immaginare il possesso come ordinariamente accade rispetto a qualcosa. La fede, infatti, non si trova davanti – come l’ideologia – un oggetto inerte e passivo (tale perché essa stessa l’ha prodotto), ma un soggetto attivo e libero. La situazione conseguente non parla il linguaggio dell’uso, ma quello della relazione; identifica – lo ha descritto chiaramente Buber nella sua opera Io e tu – una condizione di continua tensione, non l’“urbanizzazione” fredda e calcolatrice: «Chi dice tu non ha alcun qualcosa per oggetto. Poiché dove è qualcosa, è un altro qualcosa; ogni esso confina con un altro esso; l’esso è tale, solo in quanto confina con un altro. Ma dove si dice tu, non c’è alcun qualcosa. Il tu non confina. Chi dice tu non ha alcun qualcosa, non ha nulla. Ma sta nella relazione»9.
Quando si ha a che fare con una verità che, essendo Mistero, oltrepassa qualunque affermazione se ne possa fare, piuttosto che
possederla, se ne è posseduti10. Essa cioè costituisce l’origine della propria esistenza, l’abisso nel quale, per tanto che ci si immerga, non se ne raggiunge mai il fondo, come scrive Caterina da Siena: «Tu, Trinità eterna, sei un mare profondo, in cui quanto più ci si immerge, più lo si trova, e quanto più lo si trova, più lo si cerca»11.
C’è certezza nella fede? Sì, ma in forza di quello non che – da noi stessi – raggiungiamo, bensì che ci viene offerto, come quando Pietro getta le reti fidandosi dell’invito di Cristo (Lc 5,5). Non è la certezza autosufficiente di chi ritiene che tutto – prima o poi – possa essere conosciuto (l’“ignoto” di cui parla Ardigò, il maggiore dei positivisti italiani), ma la certezza conseguente alla fiducia nella verità che proviene dall’alto e che supera continuamente tutto ciò che se ne può dire, perché si esprime all’interno di una relazione non totalmente obiettivabile.
La condizione creaturale – lo dice bene Tommaso – è «vespertina» cioè «imperfetta» perché «riguarda le cose in quanto sussistono nella loro propria natura» e non «nel verbo»12. Non impedisce di vedere, ma non permette nemmeno di vedere tutto né di farlo con una chiarezza indiscutibile.
L’evidenza – non dimentichiamolo – è stata spacciata come l’attributo della conoscenza della verità da Cartesio, Bacone, Spinoza e dagli altri autori che – più o meno coscientemente – stavano introducendo nella Modernità che avrebbe liquidato la fede, mentre autori come Giovanni della Croce, Pascal, Vico (e altri) opponevano il loro rifiuto di un sapere “geometrico”, cioè assiomatico, deduttivo, omnicomprensivo perché ne coglievano l’incongruenza rispetto al Mistero. Esemplare, in proposito, è l’atteggiamento antitetico che mostrano Spinoza e Anselmo d’Aosta. Il primo, che è uno dei maggiori rappresentanti della “riforma del sapere” perseguita dalla Modernità, definisce Dio come «causa sui»13 ossia «causa di se stesso» essendo l’unico vivente che vive di per Sé – «Io sono colui che è» (Es 3,14). Spinoza è pienamente inserito nella Modernità che ha prevalso, quella della adozione della razionalità matematico-formale come chiave per aprire e decodificare i segreti della natura, che si specchia nella realizzazione tecnica già in forza della verifica sperimentale. L’affermazione citata costituisce l’assioma da cui si dispiega tutta la sua etica “dimostrata in modo geometrico” che intende esprimere nella maniera più compiuta la genealogia dell’esistente. Sennonché – sei secoli prima – Anselmo d’Aosta ha esplicitamente escluso che Dio sia causa di Se Stesso14 perché, rendendo ragione della Sua causa, se ne viola il Mistero. In altre parole: Spinoza (la Modernità di cui è esponente), che ha inteso “risolvere” il mistero come costitutivo dell’esistente, puntando a realizzare la piena ostensione della verità, in realtà ha generato le ideologie come sistemi di pensiero totalitari.
La fede dà certezza, è fuori discussione; ma non dà la certezza ideologica di ciò che pretende di possedere l’Origine. Tra la verità ideologica e la verità cristiana c’è la stessa differenza riconoscibile tra l’idolo e il Dio Vivente: il primo – che è «opera delle mani dell’uomo» (Sal 115,4) – non ha vita perché è totalmente artificiale, laddove il secondo è «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8).
Così si spiega come mai la riflessione cristiana abbia sempre coniugato la conoscenza e la ricerca della verità, a differenza del pensiero ideologico dove la prima destituisce di qualunque credibilità (possibilità) la seconda. Qual è infatti l’immagine che la letteratura cristiana ha sempre utilizzato? La salita del monte. Ma che cosa accade a chi ascende? Un’esperienza paradossale: più sale di quota, più cose vede, più sono le cose che sfuggono alla sua vista perché l’orizzonte – allargandosi – dilata lo spazio da esplorare. È questa l’esperienza della certezza cristiana: non la fine della conoscenza, ma il suo costante inizio; “rivelazione” nel senso letterale del termine: manifestazione che si ri-vela cioè si sottrae allo sguardo nel momento stesso in cui si rende riconoscibile, come il Cristo incontrato dai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35).
Potremmo immaginare qualcosa di più coerente con la nostra libertà? Agli inizi della vicenda cristiana, il pagano Celso si domanda se occorreva proprio “qualcuno” per redimere il mondo (forse l’obiezione traeva spunto dalla considerazione della genesi come la presenta la Bibbia ossia l’effetto di un atto unilaterale della volontà divina). Il cristiano Origene non respinge questa obiezione, ma risponde: «Ammettiamo pure che ciò sia possibile: che ne sarà allora della nostra libertà?»15. Come a dire: se Dio si fosse manifestato in modo assolutamente evidente, noi saremmo stati ancora liberi – nel senso di “non costretti” – di fronte alla fede? Dio, dopo che si è manifestato, si sottrae alla vista, non abbaglia l’uomo con la Sua potenza. Suona come una conferma di questa interpretazione la considerazione di Arnobio il Retore: «Si dice: se Dio è potente (…) converta le nostre menti e ci faccia credere anche contro voglia alle sue promesse!; ma questa è violenza, non grazia o liberalità di un Dio sovrano: questa è la fatica d’un animo puerile»16.
Qual è il “succo” di questi pensieri? Che la fede dà una certezza in tutto coerente con la ricerca a cui costantemente invita l’intelligenza.
Il giovane Montini ne è cosciente: afferma di voler cercare la «perfezione spirituale», camminando «al seguito di Cristo», professando la verità «scevra da esibizioni, con pura libertà e cordiale fortezza di spirito». Sono tratti che vanno a costituire un profilo esattamente contrario rispetto a quello dell’ideologia. Dobbiamo esserne coscienti anche noi oggi se vogliamo affrontare la sfida di una ragione disorientata e fragile che rischia di consegnarsi a dispositivi puramente funzionali perché la sollevano da una fatica di pensare che non trova più nessuna motivazione a causa della radicale sfi
ducia dell’uomo verso le domande con cui da sempre l’umanità si è confrontata.
- Di quale “cuore” si parla?
Il riferimento al “cuore” oggi è molto ambiguo. Infatti il riconoscimento dell’importanza di sentimenti ed emozioni – che ricevono crescente attenzione anche nella pubblicistica pedagogica – incrocia con preoccupante frequenza il richiamo dell’irrazionalità. La cosa non stupisce se la prendiamo in considerazione insieme alla critica che il nichilismo ha mosso all’Occidente come “civiltà della tecnica” e che si riflette nelle ricerche spirituali che conformisticamente si volgono a Oriente, senza nemmeno prendere in considerazione quello che l’Occidente può offrire e, di fatto, offre. Da dove trae origine questo fraintendimento? Dalla convinzione che la razionalità occidentale sia artificiosa e funzionale, che in essa la dimensione delle emozioni e dei sensi sia trattata con sufficienza e svilita, preferendole l’elaborazione astratta e sistematica, la weberiana “gabbia d’acciaio” che addomestica e pianifica l’esistente piegandolo alla dittatura dell’utile.
Ma come la mettiamo – in questo tipo d’approccio – con la considerazione che il pensiero delle origini parla, in Occidente, il linguaggio della poesia? Come la mettiamo con la riflessione platonica quando riconosce in éros il motore della conoscenza? Non è da meno Aristotele quando, affermando che l’essere umano è «intelletto appetitivo o appetito razionale»17, coniuga le dimensioni intellettuale e sensoriale. Anche dalle pagine di Agostino emerge un pensiero tutt’altro che disincarnato, tant’è vero che – quando sosta sulla sua conversione – prorompe in un “inno” di lode che anzitutto celebra la «Bellezza tanto antica e tanto nuova», lamentando: «Tardi ti ho amato (…) tardi ti ho amato! Tu eri dentro di me, e io stavo fuori (…). Tu eri con me, ma io non ero con te. (…) ti ho gustato, ed ora ho fame e sete di te; mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace»18.
Sarà forse colpa della scolastica? Difficile sostenere questa tesi quando ci imbattiamo, ad esempio, nella conoscenza che Tommaso
definisce “per connaturalità” ossia correlata – com’è nel caso dei mistici – alla sensibilità. Analoga sensibilità troviamo negli umanisti tre-quattrocenteschi come pure nella pedagogia ottocentesca – quella di stampo spiritualista – quando celebra l’amore come “metodo” educativo, senza contare i già menzionati autori non allineati con la modernità che ha prevalso.
Tutto bene allora? Si tratta solo di una “illusione ottica”? No, effettivamente – a un certo punto – qualcosa cambia, ma il mutamento configura anzitutto una inversione di rotta all’interno del percorso spirituale della civiltà occidentale e si è espressa in un momento preciso: l’ascesa della Modernità. In effetti, gli autori lungo cui si snoda questo vettore culturale nella forma che ha prevalso e si è espressa come vettore di secolarizzazione – a partire da Bacone a Cartesio – mettono al centro dell’impresa educativa le “idee” intese non più come le espressioni originarie dell’essere (questa era l’accezione di matrice platonica), ma come prodotti mentali, elaborazioni del pensiero, costruzioni astratte. Questo è l’orientamento teoretico che – giunto a maturità con l’illuminismo – dà corso a un pensiero ideologico (disincarnato) che pretende di ridurre a sé la realtà, non cerca di scoprirla per quello che è. Non è casuale che gli ideologi siano l’anello di congiunzione tra illuminismo e positivismo, orientati cioè a una razionalizzazione della realtà che la traduce totalmente in un costrutto descrittivo.
Si spiega così la reazione romantica, nella quale, accanto all’avvaloramento di un pensiero che sa riconoscere nel “cuore” – alla don Bosco – un vettore di conoscenza, ce ne sta un altro che lo assimila al vortice delle passioni, dei bisogni e degli istinti, secondo una prospettiva che oggi ha purtroppo il sopravvento in molti dei nostri adolescenti e giovani.
Il problema è che, avendo appiattito l’intera tradizione occidentale su un limitato segmento di essa (quello della Modernità cresciuta attorno all’aspirazione a perseguire una conoscenza anzitutto “utile”), si finisce per accreditare un avvaloramento della dimensione sensoriale che sconfina nell’irrazionalità. Ma l’alternativa c’è e consiste nella riappropriazione della tradizione occidentale nella sua completezza, che permette di ampliare l’idea di razionalità sottraendola alla sua riduzione al puro approccio descrittivo e funzionale, traendo spunto soprattutto da chi – dall’interno della modernità – si è accorto della discutibile traiettoria che stava abbracciando.
Questo richiamo è ricorrente nel magistero di Benedetto XVI (ad esempio, nel discorso tenuto a Regensburg il 12.9.2006). Possiamo trovarne traccia anche nel brano montiniano attorno a cui sto intrecciando queste riflessioni, ad esempio dove il giovane prete – alle prese con il “programma di vita” che intende assumere per sé – s’impegna ad «amare il silenzio, l’attenzione, il metodo, l’orario (…) la letteratura che raccoglie il pensiero tradizionale della Chiesa». Si tratta anzitutto di una scelta d’“amore”, dove tuttavia l’espressione non ha nulla di “romantico” nel senso di “irrazionale”. Esprime piuttosto una decisione profonda che, per questa medesima ragione, abbraccia tutta la persona rendendola unitaria perché trae origine dalla sua radice più profonda. «Perciò amerò – prosegue Montini –. Amerò ancora innanzitutto la verità confidatami da Dio».
Che cosa significa, a questo punto, non essere sordi alle “domande del cuore”?
Il cuore – come possiamo riconoscere anche nella concezione biblica – identifica l’essere umano nella sua concreta complessità. Non è l’“organo” della pulsione impersonale e irrazionale, ma quello della conoscenza che si costituisce attraverso l’attivazione di tutta la persona. Questo spiega perché la migliore testimonianza di che cosa significhi interrogarsi attraverso il cuore sono i mistici, ossia coloro che conoscono attraverso l’attivazione del canale affettivo, insieme a quello intellettuale. Si tratta di una conoscenza che esprime la stessa concretezza della realtà e – per questa ragione – sa esplorare in forma non riduttiva l’esistente.
È interessante notare l’attualità di questo orientamento. Dopo che l’introduzione del paradigma della complessità ha favorito l’oltrepassamento della “semplicità” (meglio: della semplificazione) moderna nei confronti dell’esistente, ridotto alla sua descrizione funzionale, il cosiddetto “nuovo realismo”19 pone oggi l’esigenza di riconoscere che la realtà esiste prima che il pensiero la esplori, ridimensionando – in questo modo – la tendenza a sottolineare eccessivamente il ruolo del linguaggio, com’è avvenuto – lungo il
Novecento – soprattutto in chiave ermeneutica. Certamente ci sono anche i problemi, a cominciare dalla tendenza ad accostare l’esistente in forma troppo condizionata dalla fattualità, ma almeno c’è modo di restituire il pensiero alla concretezza, riconoscendo che si volge ad una realtà che esiste a prescindere da colui che la esplora.
- La storia come sfida
Un bel passaggio della Bottega dell’orefice, l’opera teatrale scritta dal giovane Vescovo Wojtyla, si presta a introdurre quest’ultimo tratto del nostro percorso: «L’amore è una sfida continua, Dio stesso forse ci sfida/ affinché noi stessi sfidiamo il destino»20. Sostituendo la parola “vita” alla parola “amore”, la frase mantiene intatta la sua forza evocativa.
Perché la vita – quindi la storia come narrazione della vita (in greco il verbo historeín significa “narrare”) è una “sfida”? Per il fatto che l’essere umano è libero. Questa è la condizione che ci distingue totalmente dagli animali. Infatti, sia l’animale sia l’essere umano subiscono il condizionamento del bisogno, ma – mentre la bestia ne viene necessariamente determinata – l’uomo è in grado di rimandarne (al limite, estinguerne) il richiamo se riconosce una ragione per farlo. «La radice di tutta la libertà – scrive Tommaso – è nella razionalità»21, perché occorre avere una ragione per sottrarsi al richiamo del bisogno, ma questo significa – ecco il punto – che ciò è possibile. In questo senso la vita e la storia sono sfide: nel senso che noi esseri umani non ci limitiamo a reagire agli eventi; sappiamo agire, possiamo cioè porre in atto comportamenti che traggono origine dalla nostra assertività. Questo spiega perché l’essere umano non viene solo addestrato, ma viene educato: nell’educazione si gioca la sfida della libertà come prospettiva di un comportamento “eccedente” rispetto alla somma dei condizionamenti in campo22.
Anche il brano di Montini è sensibile a questo richiamo, soprattutto quando pone in evidenza l’ispirazione missionaria del “programma di vita” con le parole: «Docile all’invito della verità da conquistare, devo esserlo anche all’invito della verità da propagare». Conclude con singolare efficacia: «Non mi basti essere un fedele; mi sia doveroso essere un apostolo». L’aspirazione ad essere “apostolo” condensa la scelta di non essere spettatore di ciò che accade, ma cooperatore dell’azione dello Spirito nella storia.
Che cosa significa riconoscere la “sfida della storia” oggi? Anzitutto – com’è ben espresso nel testo montiniano – essere orientati a cogliere, in ciò che accade, non un’accozzaglia di eventi fortuiti, ma una genealogia di avvenimenti che esprimono un ordine a più livelli.
Il primo – quello che già gli antichi hanno colto parlando della scienza come “conoscenza della causa” – è l’ordine delle cause e degli effetti, quello raccolto nella descrizione scientifica la cui capacità di penetrare l’esistente ha espresso – nel XX secolo – una singolare efficacia. Ma non c’è solo questo perché il credente riconosce nella storia anche una trama relazionale intessuta dall’incontro tra le libertà di Dio e dell’uomo. In questo senso, la tradizione cristiana ha interpretato la storia come un percorso pedagogico, ossia come l’itinerario lungo cui Dio guida l’umanità a Sé, ma nella libertà.
La prima formulazione patristica di questa convinzione la troviamo nell’opera Il Pedagogo di Clemente Alessandrino. In essa la “storia della salvezza” è assunta come “storia pedagogica”, nella quale Dio attira a Sé l’umanità, attraverso il “Divino Pedagogo” (Cristo), nella libertà. Questo motivo torna ripetutamente nella cultura occidentale, al punto che prende forma una versione totalmente laicizzata – l’idea illuministica di “progresso” – come pure un’altra – quella di Lessing – nella quale l’educazione dell’umanità è concepita come una razionalizzazione dell’idea teologica poc’anzi espressa.
Ma oggi? Che cosa possiamo dire scrutando gli eventi degli ultimi anni?
È interessante notare che, dopo anni nei quali sembrava che l’“interpretazione” avesse destituito di qualunque consistenza la realtà («il mondo diventato favola», di cui parla Nietzsche), consegnandola ad approcci di tipo puramente soggettivo e relativistico, oggi proprio dalla cultura che aveva incoraggiato questa deriva proviene il riconoscimento della consistenza della realtà. Mi sono già riferito al cosiddetto “nuovo realismo” che sta riscrivendo il profilo della cultura laica in Italia e altrove. Potremmo richiamare – sul piano morale – le prese di posizione che hanno riconosciuto la congruenza degli orientamenti ecclesiali con l’esigenza di difendere l’unicità e la dignità della persona23. Forse qualcosa sta cambiando nel contesto culturale odierno e noi siamo sfidati a non consegnarci alla rassegnazione, ma – come dice il testo montiniano – a impegnarci a incontrare, dialogare, diffondere la verità cristiana: «La cattedra, la stampa, l’opera d’arte, la conferenza, la corrispondenza, il consiglio e sempre l’amicizia, e poi ogni altra forma di comunicazione, con gli altri, potranno essere, a ragion veduta, un dovere per me; dovere, che una volta prefisso, adempirò volentieri e con disinteresse».
- Conclusione: ricerca della verità e sfida vocazionale
Tiriamo le somme del percorso svolto. Sono partito dall’affermazione che la ricerca della verità è non solo possibile, ma anche (e soprattutto) indispensabile per l’affermazione dell’umanità. Non possiamo rassegnarci né allo scetticismo (secondo cui la verità, se anche esiste, non è conoscibile) né al relativismo (secondo cui ognuno ha la sua verità). Come mai?
La ragione l’avevano già colta gli antichi: l’essere umano è l’“animale dotato di lógos”. Il termine lógos, che significa sia “pensiero” sia “parola”, rimanda al verbo léghein, “raccogliere”. In effetti, il pensiero raccoglie in unità la varietà delle espressioni connotanti la persona (pulsioni, emozioni, sentimenti, idee…), mentre la parola raccoglie in unità la varietà delle persone che sanno comunicare – cioè trovare qualcosa di “comune” – tra loro. Proprio questa, del resto, è la caratteristica che Eraclito attribuisce al lógos: essere koinós, potremmo dire “accomunante”. La natura umana è strutturalmente comunicativa: per questa ragione non le corrisponde né il relativismo né lo scetticismo.
Ho quindi voluto sottolineare che tipo di certezza accompagna la fede allo scopo di distinguerla rispetto alla certezza ideologica. Non si tratta di una “conoscenza a buon mercato”. «Il pensatore della fede (…) – afferma il teologo Bruno Forte, oggi Arcivescovo di Chieti-Vasto – non dovrebbe mai dimenticare che ha e deve avere a che fare con il “Dio che viene”, con il Dio vivo: l’oggetto del suo indagare, prima di essere qualcosa, deve essere riconosciuto come Qualcuno. (…) Perciò, nella tradizione cristiana l’avvento di Dio nella storia è pensato come “rivelazione”: è uno svelarsi, che vela (…). Il Dio dell’avvento non è dunque il Dio volgare delle risposte pronte a tutte le domande, non è il Dio ideologico delle certezze a buon mercato da vendere sulla fiera del consumismo delle idee, ma il Dio esigente, che amandoti e donandosi a te si nasconde e ti chiama a uscire da te in un esodo senza ritorno che ti porti negli abissi del suo Silenzio, ultimo e primo»24. In questo orizzonte si cala la domanda che sale dal “cuore” e che interroga circa le sfide della storia.
Avviandomi a concludere vorrei sottolineare l’elemento comune e ricorrente in tutte queste riflessioni: la libertà. La relazione tra Dio e l’essere umano si esprime nella forma della libertà.
Tocchiamo qui uno dei tratti caratterizzanti il cristianesimo rispetto ad altre forme culturali e religiose. Sul piano culturale, è ampiamente riconosciuta la prevalenza – nel mondo antico – del collettivo sulla singolarità, che è stata messa radicalmente in discussione solo con l’evangelizzazione perché questa ha proclamato l’inestimabile valore di ciascun uomo in quanto è amato personalmente da Dio.
Benjamin Constant evidenzia così l’innovazione: «Gli antichi (…) non avevano alcuna nozione dei diritti individuali. Gli uomini erano, per così dire, mere macchine di cui la legge regolava le molle e dirigeva gli ingranaggi. Lo stesso assoggettamento caratterizzava i bei secoli della repubblica romana; l’individuo si era in un certo senso perduto nella nazione, il cittadino nella città»25.
È con il cristianesimo, che la creatura umana è riconosciuta nella sua singolare ed irripetibile dignità. Lo dice chiaramente il Vangelo quando Cristo, rivolgendosi ai suoi discepoli, dice: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Gv 15,15). Le sue parole distinguono radicalmente il cristianesimo dalla forma tipica della fenomenologia religiosa, quella che Rudolph Otto, nel suo volume Il sacro, ha ricondotto al “numinoso”. Abbiamo conferma di questo nel passo delle
Confessioni in cui Agostino – ricordando il momento della sua conversione – afferma: «Irraggiando con forza la tua luce su di me, tu colpisti la mia vista malata, e io tremai tutto d’amore e di terrore»26. La prima reazione è quella dell’Agostino cristiano, nella seconda invece si esprime l’Agostino pagano.
In relazione al tema che ci interessa, come possiamo terminare? L’incontro tra Creatore e creatura avviene nella libertà, questo significa che sfugge a qualunque pianificazione. In effetti, la libertà nega la predeterminazione, quindi non le si addice alcun costrutto interpretativo che presuma di poter anticipare o pianificare ciò che accade. In questo senso, sul piano della pedagogia cristiana, dobbiamo essere attenti a distinguere i concetti di progetto e di vocazione. Il primo infatti mette capo – dal punto di vista della creatura – a una razionalizzazione del cammino esistenziale che ha di positivo l’elezione di scopi e di percorsi, ma rischia di non mettere sufficientemente in conto che in gioco c’è l’incontro tra le libertà umana e divina ossia una dinamica d’amore che trascende qualunque previsione.
Più pertinente appare la logica della “vocazione” perché questa parola, che mette subito in evidenza l’esistenza attiva dell’“Altro” accanto a noi, allude al fatto che concretamente la vita umana prende forma dalla relazione tra soggetti che stanno di fronte tra loro nel quadro di un incontro imprevedibile perché non si lascia ri(con)durre alla logica della funzionalità.
Il richiamo al “progetto” può comunque tornare utile per esprimere l’intenzionalità umana, ma solo il riconoscimento della “vocazione” come “incontro” lo mantiene coerente con la verità ontologica che c’è in gioco, quella a cui si riferisce il versetto che apre Spiritus Veritatis: «Vi insegnerà ogni cosa» (Gv 16,13).
È all’azione dello Spirito di Dio che dobbiamo prestare la prima e massima attenzione quando si rivolge personalmente alla creatura umana che ha chiamato alla vita.
Note
1 «Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza. La fede vissuta apre il cuore alla Grazia di Dio che libera dal pessimismo. (…) Ecco allora come possiamo raffigurare questo “Anno della fede”: un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale: non bastone, né sacca, né pane, né denaro, non due tuniche – come dice il Signore agli Apostoli inviandoli in missione (cf Lc 9,3), ma il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II sono luminosa espressione, come pure lo è il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato 20 anni or sono» (Benedetto XVI, Omelia della Santa Messa celebrata nella circostanza dell’apertura dell’“Anno della fede”, 11.10.2012).
2 Cf S. Acquaviva, L’eclissi del sacro, Edizioni di Comunità, Milano 1966.
3 G. Kepel, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991, p. 221.
4 G. Cottier, Ateismi di ieri e di oggi, intervista a cura di G. Mari, La Scuola, Brescia 2012, pp. 68-69.
5 R. Guardini, Il Signore, Vita e Pensiero, Milano, 19849, p. 484.
6 Benedetto XVI, Deus Caritas Est (25.12.2005), n. 4.
7 Pier Crisologo, Omelia LVII, in Omelie per la vita quotidiana, Città Nuova, Roma 19902, p. 190.
8 U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007, p. 145.
9 M. Buber, Io e tu, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Milano 1993, p. 60
10 Dalla enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991): «Né la Chiesa chiude gli occhi davanti al pericolo del fanatismo, o fondamentalismo, di quanti, in nome di un’ideologia che si pretende scientifica o religiosa, ritengono di poter imporre agli altri uomini la loro concezione della verità e del bene. Non è di questo tipo la verità cristiana. Non essendo ideologica, la fede cristiana non presume di imprigionare in un rigido schema la cangiante realtà socio-politica e riconosce che la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse e non perfette. La Chiesa, pertanto, riaffermando costantemente la trascendente dignità della persona umana, ha come suo metodo il rispetto della libertà» (n. 46).
Dal documento Dialogo e annuncio del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (1991): «Inoltre la pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà ai singoli cristiani la garanzia di aver assimilato pienamente tale verità. In ultima analisi, la verità non è qualcosa che possediamo, ma una persona da cui dobbiamo lasciarci possedere. Si tratta quindi di un processo senza fine» (n. 49).
Dal documento dei Vescovi italiani Evangelizzazione e testimonianza della carità (1990): «D’altra parte, proprio il possesso, o meglio l’essere posseduti da quella verità che è Cristo, non potrà non spingere il cristiano al dialogo con tutti» (n. 32).
11 Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1991, p. 467.
12 Cf Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I-II, q. 67, a. 3, resp.
13 Cf B. Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti, 20003, p. 87.
14 Cf Anselmo d’Aosta, Monologion, 6 e 18.
15 Origene, Contro Celso, Utet, Torino 1971, p. 298.
16 Arnobio il Retore, Difesa della vera religione, Città Nuova, Roma 2000, p. 205.
17 Aristotele, Etica nicomachea, in Opere, Bari, Laterza, 1979, vol. VII, p. 142.
18 Agostino d’Ippona, Confessioni, Paoline, Milano 1987, p. 359.
19 Cf M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012.
20 K. Wojtyla, La bottega dell’orefice, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, pp. 68-69.
21 Cf Tommaso d’Aquino, Sulla verità, q. XXIV, a. 2.
22 Cf G. Mari, Educazione come sfida della libertà, La Scuola, Brescia 2013.