Autorevolezza: il frutto di un cuore unificato
Autorità o autorevolezza… dove sta la differenza? Nonostante la loro radice comune, queste due parole hanno significati, ma soprattutto si esprimono in atteggiamenti ben diversi.
Il termine autorità si riferisce ad un livello di potere; l’autorevolezza invece è una qualità della persona, che viene riconosciuta dagli altri.
Potremmo dire che autorità è “avere” una carica, una posizione, un ruolo; mentre autorevolezza è “essere” una persona significativa, di peso e di qualità verso gli altri.
Tuttavia, le due dimensioni possono coesistere nella stessa persona: essa può essere meritevole e capace di rivestire una posizione di prestigio e di potere e, allo stesso tempo, può essere competente nell’ambito in cui opera, umilmente brava nel porsi allo stesso livello degli altri, modesta nel riconoscere i propri errori e dotata di lungimiranza per risolvere i problemi alla radice.
In questo particolare momento della vita della Chiesa, Papa Francesco ci sta donando la testimonianza di una persona che vive in sé l’autorità e l’autorevolezza: i suoi atteggiamenti e i suoi interventi lo manifestano con chiarezza.
Chi agisce con autorevolezza impiega una strategia che sa porre l’altro come degno di fiducia e di profondo rispetto. È il testimone che ha carisma, che sa come catturare l’attenzione senza alzare la voce, che sa essere fermo, ma anche comprensivo.
Questo richiede di essere autentici e coerenti tra ciò che si è e ciò che si dice, mettendo l’altro nella condizione di non avere paura di esprimere domande, dubbi o riflessioni, ma, al contrario, di incentivarle e far sì che ognuno sviluppi una propria opinione personale.
Ciò che si apprende in questo modo persiste nel tempo e rappresenta una guida importante e un posto nel cuore per una persona che non si dimentica.
Un cammino di interiorità e di risolutezza
Spesso la vita viene trasformata in un perenne meccanismo di nascondimento, ma questo fa scivolare sempre di più l’uomo verso la falsità, verso quella “menzogna vitale” di cui parla Ernest Becker nel suo libro Il rifiuto della morte.
La voce interiore che può provocarci è simile ad un soffio, quasi un silenzio (1Re 19,12), come nella straordinaria parabola di Federico Fellini nel film La voce della luna.
È facile non udirla, anzi soffocarla, ma solo se questo avviene si può trasformare la propria vita in un cammino. Adamo, ad un certo punto affronta la Voce, riconosce di essere in trappola e ammette a se stesso e a Dio: «Mi sono nascosto».
È compito di ogni uomo individuare verso quale cammino lo porta il desiderio del suo cuore e poi sceglierlo con tutte le sue forze e con tutta la sua coerenza.
Tutti gli uomini hanno una loro via originale di Beatitudine personale, che è anche la via per giungere a Dio, ma ciascuno la percorre in maniera diversa: che Dio sarebbe mai quello che si può raggiungere e servire lungo un unico cammino?
Afferma il filosofo Martin Buber: «È essenziale una conoscenza delle proprie qualità e dei propri limiti, ma soprattutto della propria tendenza essenziale; in ciascuno c’è qualcosa di prezioso che non c’è in nessun altro».
L’essenziale porta a dirigere le proprie forze dall’occasionale al necessario, dal relativo all’assoluto.
Ci vuole ascesi per vivere tutto ciò? Sì, ma questa non deve mai pretendere di controllare in maniera assoluta la vita dell’uomo.
La ricerca di un cuore unificato
Occorre imparare a riprendersi in mano, a raccogliere la propria anima sfilacciata in tante direzioni diverse, per concentrarla e indirizzarla sempre verso la meta.
La Grazia di Dio, che giace nella profondità di ogni cuore umano, è in grado di agire su di esso e di trasformarlo, di ridare ordine alle varie forze in conflitto, di fondere insieme elementi che tendono a separarsi.
Tuttavia, vale la pena di ricordare che nessuna unificazione dell’anima e del cuore è definitiva: questo esige un costante atteggiamento di “vigilanza serena”.
C’è un paradosso fondamentale da affrontare: «Come è possibile cominciare da se stessi e nello stesso tempo dimenticare se stessi?».
Per uscire da questa trappola è opportuno porsi con frequenza una domanda: «A che scopo sto facendo questo?». E la risposta dovrebbe essere: «Non lo faccio per me stesso!».
Si tratta di cominciare da se stessi, ma non di finire con se stessi; di prendersi come punto di partenza, ma non come meta; di conoscersi, ma non di preoccuparsi troppo di sé.
«Nel tempo che passo a rivangare in me stesso, posso infilare perle per la gioia del cielo» (Martin Buber).
Mi torna alla memoria il breve dialogo del Piccolo Principe con la volpe, tratto dal conosciutissimo romanzo di Antoine de SaintExupéry. «Addio», disse la volpe. «Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».
«L’essenziale è invisibile agli occhi», ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
Il segreto svelato dalla volpe non è l’invisibilità dell’essenziale (che il cuore ben riconosce e che quotidianamente noi tocchiamo con mano, nella nostra storia o nelle vicende che, con fiducia e trepidazione, ci vengono consegnate), ma è la sua invisibilità agli occhi.
L’essenziale da cui sgorga la vera autorevolezza non è l’apparenza esteriore delle opere o delle tante cose che facciamo, ma la profonda interiorità delle motivazioni che le animano e che in esse traluce.