Grati perché amati
1. Drogati d’amore (M. Marcolini)
Anche questa mattina ho assunto la mia dose d’amore. È un energetico, stimolante, antidepressivo, ansiolitico ed eccitante: la cocaina dei poveri.
Lo diceva anche quell’ebreo là, come si chiama… quello col nome che finisce per “x”, con quella sua battuta famosa sull’oppio dei popoli (solo che faceva confusione: sbagliava droga e soggetto).
Se fai uso d’amore anche tu, stai all’occhio, amico, perché in parlamento ancora discutono se si tratti di droga leggera o pesante, e puoi rischiare grosso. Nel dubbio, intanto, fanne consumo moderato, tienine in casa piccole dosi e solo per uso personale.
Ti voglio mettere all’erta perché:
1. se ti fai dosi massicce d’amore prima o poi qualcosa ti capita, gli effetti si sentono; potresti:
a. accusare un danno neurologico, per es. perdere la capacità di mentire o il dono dell’indifferenza;
b. avere frequenti spasmi dei muscoli buccali;
c. subire una modificazione della cornea, che assumerebbe un insolito candore.
Insomma: ti si potrebbe stampare in faccia un sorriso ebete da innamorato, tutto luce e trasparenza. Se ti succede, stai attento, perché diventi riconoscibile ed è allora che ti fregano.
2. Se cominci a spacciarlo, se fai sniffare l’amore alla gente, diventi una minaccia all’ordine costituito, l’ordine del mercato. Perché l’amore è come la sabbia: s’infiltra negli ingranaggi bene oliati del sistema e li inceppa. Lo diceva già quell’altro ebreo, come si chiama… quello col nome che finisce per “ù”, con quella sua battuta celebre, per cui che non puoi servire l’amore e il denaro: o ti attacchi a una calamita o ti attacchi all’altra.
Insomma, se ti ciucci troppo amore e lo fai circolare, diventi un destabilizzatore, un pericolo a piede libero.
Te lo spiego con tre esempi:
1. come puoi far credere a uno “fatto” d’amore che ha bisogno di comprarsi un nuovo cellulare per essere felice? Ti riderà in faccia! Il drogato d’amore ha percezioni distorte della realtà, crede che l’amore basti;
2. come puoi costringerlo a chiudersi in un centro commerciale la domenica, in fila tra tanti altri ubbidienti soldatini, lontano da tutto quello che c’è fuori, l’azzurro con i voli degli uccelli, una casa con l’abbraccio di una donna, un prato con le risa di un bambino? Ti scapperà via, perché l’amore è maestro in evasioni;
3. come puoi fargli capire che se tanti vivono in baracche, hanno fame e non sanno leggere due righe, mentre lui ha una bella casa, due auto e i figli a scuola ben vestiti, deve essere contento perché il mondo va bene così? Ti griderà in faccia: il drogato d’amore, si sa, sragiona.
Io ti ho avvertito, amico. Ora sai che grane ti stai cercando, sai che vai incontro all’imprevisto: l’amore è sovversivo.
Ma se non ce la fai a disintossicarti, se una via d’uscita proprio non la trovi, vieni: cospireremo insieme.
2. Le mie vocazioni (E. Ronchi)
Comincio confessandomi. Mi piace vivere. La mia vita è stata bellissima, un’avventura piena di volti, di orizzonti e di spazi, di esperienze, da quando facevo il bracciante agricolo nelle vigne del Monferrato e lo spazzino comunale in Canada, il cuoco e il boscaiolo, o il docente universitario; quando ho avuto l’immensa fortuna di viaggiare e conoscere il mondo, di poter scrivere i miei pensieri, predicare il Vangelo nella parrocchia più grande d’Italia, quella di “A sua Immagine” in Tv. Io sono entrato in seminario a 10 anni, salendo sul carro di fra Valentino, che con il suo cavallo saliva dal convento di Udine fino al mio paese tra boschi e colline. Era il colmo dell’estate e come ogni anno faceva la questua della legna per il convento, girando di cortile in cortile e domandando la carità di qualche pezzo di tronco. Noi bambini lo accompagnavamo per le case.
Quel pomeriggio, riempito il carro, stavamo tornando, seduti anche noi sui tronchi. Si chiacchierava e fra Valentino a un certo punto fece: «Ragazzi cosa vi piacerebbe fare da grandi?». Avevamo piccoli sogni, chi fare il macchinista di treni, chi il maestro di scuola, chi il pompiere…
Io ero l’ultimo della fila, e avevo capito quale risposta sperava, e allora ho avuto il desiderio, l’impulso di farlo contento, quel fraticello piccolo, magro, affaticato, che mi faceva pena; e ho risposto: «Io voglio farmi frate, voglio essere come te».
Ricordo che mi guardò con occhi felici, spronò il cavallo, arrivammo nel grande cortile di casa, chiamò i miei genitori che conosceva bene, gridando forte: «Il figliolo qui vuol farsi frate!». 15 giorni dopo ero in seminario.
Di che vocazione poteva trattarsi? Eppure chissà che il desiderio di fare contento qualcuno, un piccolo slancio di bontà, non fosse il modo migliore per parlare di vocazione a un bambino di dieci anni.
Poi ci fu comunque la mia seconda vocazione, dieci anni dopo: avevo 20 anni, fatta la maturità classica, sono entrato in crisi, o meglio, mi sono innamorato.
Ho lasciato il convento. Sono tornato al paese, nella mia casa di contadini. E un mese dopo è successa una cosa: era d’agosto, come la prima volta.
Stavo rastrellando il fieno, da solo, sulla collina di nome Roncus, erano le tre del pomeriggio, ed ho avuto la rivelazione, improvvisa, luminosa, la certezza che la mia vita avrebbe avuto pienezza, pienezza di significato, di scopo, di fioritura, di frutti solo buttandomi tutto nel Vangelo. Nitida, evidente, semplice. Sono rimasto lì immobile, nel profumo del fieno, attorno saltavano le cavallette, ed io ho cominciato a sentire che saltava di gioia, danzava dentro di me il mio futuro con Dio.
Quando Dio viene, riempie la vita.
La vocazione di ogni essere umano è unica: avere la vita in pienezza. Gv 10,10: «Sono venuto affinché abbiate la vita, e la vostra vita sia piena».
Tutte le scelte di vita, di qualsiasi tipo, tutte sono una risposta diversa a questa vocazione unitaria. E rimango frate per seduzione di pienezza, non per dovere.
E allora la vocazione è un piacere, non una fatica. È tempo di parlare del piacere della vocazione: «Rinunciare per te è uguale a fiorire» (M. Marcolini).
La prima sfida da raccogliere se si vuole tornare a intrigare i nostri contemporanei è un linguaggio segnato dalla gioia e non dalla lamentela. Perché sono frate? Perché io, tessuto di fragilità e talenti, in nessun’altra forma avrei altrettanta fioritura di vita. Un discorso di fioritura, di pienezza.
Noi, dice Paolo, siamo nel mondo portatori di pienezza di pleroforia: siamo ricolmi di tutta la pienezza di Dio (Ef 3,19); siamo coloro che hanno parte alla sua pienezza (Col 2,10).
Il cristiano, il frate, la suora, il prete o il laico credente è figlio di una addizione e non di una sottrazione. Di un incremento, non di una diminuzione d’umano. Obbedisce alla felicità. Sant’Agostino:
«L’uomo segue quella strada dove il suo cuore gli dice che troverà la felicità».
E ne è valsa la pena. Posso dire in tutta verità che seguire Gesù Cristo è stato l’affare migliore della mia vita. Perché ho tanto cercato, ma di meglio di lui non ho trovato.
La vocazione è una scelta di felicità, una risposta all’essere amati.
Di amore vero. La gioia è un sintomo, che stai camminando bene, sulla strada giusta. È un piacere non una fatica. Il piacere della vocazione. Felicità.
Ti ama davvero chi ti obbliga a diventare il meglio di ciò che puoi diventare. Ti costringe nel senso che ti incalza, che non ti lascia in pace…
3. Ho bisogno d’amore e Dio è amore (M. Marcolini)
Raccontare che cosa mi ha spinto qui… o meglio, che cosa mi ha attratto, perché io abbia potuto fare quei passi che mi hanno condotto fino a voi. Perché io sono qui? E perché ognuno di voi è qui? Ognuno con la sua storia, tutte differenti. Quale voce abbiamo ascoltato? Quale impulso del cuore, quale desiderio?
Se scavo nel mio cuore – il cuore, che non è un muscolo, ma è quel centro pulsante del mio essere, così vivo –, se guardo nel mio cuore, vedo è un enorme bisogno d’amore.
Sono nata piangendo, gridando il mio bisogno di aria e di latte, ma, appena stretta al seno di mia madre, ho scoperto che ancora più del latte, ancora più dell’aria, mi mancava l’amore. E l’ho succhiato, avida, dal suo corpo, dalla sua pelle profumata e morbida, dalla sua voce che mi risuonava dentro come una melodia già nota, dolce come un’arpa.
Tutti noi abbiamo succhiato latte e amore dalle nostre madri, le rotonde dee della nostra infanzia, che ci esaudivano senza neppure pregarle, e siamo diventati esseri di desiderio.
Siamo cresciuti e abbiamo continuato a chiedere amore al seno della vita. Quanta solitudine abita le nostre case, i nostri conventi, le nostre chiese, quanto amore cercato. Quanto bisogno d’amore non espresso. È la voce del bambino, della bambina che vive dentro di noi e piange in silenzio. L’amore: essenziale, indispensabile come il latte, come l’aria.
È il nostro cuore vulnerabile, quel punto sensibile come carne viva, che è facile ferire.
Ci portiamo dentro ferite e abbiamo imparato a nasconderle per paura.
Eppure è proprio quel grumo caldo del cuore, quel viluppo di desideri e paure, quel vuoto, quella boccuccia aperta di bambino affamato che mi porto dentro, è proprio quello il luogo dove irrompe il Signore. Come il sole che invade una stanza umida e fredda e la riempie di luce benefica.
Quel punto al centro di me stessa, la bambina in me, che balbettando chiede amore: quello è il tempio del Signore.
Davanti a Dio posso permettermi di essere bambina e nuda, posso scoprire la carne viva del mio cuore. E accoglierci dentro una scintilla divina, come un grembo accoglie il seme.
Ho paura dei miei vuoti, ma se li penso così, come grembi da fecondare, vuoti vitali dove Dio è a casa propria, imparo ad amarmi come sono: un vuoto, un nulla, ma fecondato dall’amore di Dio. «Dio è amore», scrive Giovanni con una formulazione semplice e sfolgorante. Tre piccole parole che bastano a dire tutto, tre parole che riempiono l’aria e la fanno vibrare come se suonasse un’orchestra intera. «Dio è amore». Dio: la sorgente della vita, il grande vasaio, Colui che ha tratto l’universo dal nulla. La terra, il sistema solare, le galassie, le stelle più lontane – miliardi e miliardi di anni luce –, la materia oscura, i movimenti nello spazio di un numero infinito di corpi celesti, lanciati in corse sfrenate ma armonizzate come danze, tutto questo ha un fuoco d’amore che lo sospinge. Dio, mia origine e mio approdo, che salva dall’insignificanza la mia vita, la mia vita così piccola, una lucciola che vaga nel buio più profondo del cosmo in cerca di una risposta.
Io sono un nulla, ma un nulla da te amato. Mia sorgente è l’amore.
Mio approdo è l’amore.
4. Icona di Maria: grata perché amata (E. Ronchi)
La prima parola dell’angelo a Maria, il primo annuncio che apre la buona novella dice: «Kaire, sii felice, godi di questo Dio».
Apriti alla gioia come una finestra che si apre al sole. Dio seduce ancora perché parla il linguaggio della gioia.
Non le dice: fai questo o quello, ascolta, prega, rispondi. No, rallegrati, apriti alla gioia, come una finestra che si apre al sole.
La seconda parola dell’angelo ha in sé il perché della gioia: sei piena di grazia, “riempita, colmata” come un’anfora che si riempie fino all’orlo di un’acqua d’altra sorgente.
«Maria, Dio si è innamorato di te. Tu gli hai rubato il cuore e lui ti ha riempita di sé. Ora hai un nome nuovo: kekaritomene, un verbo al passivo, letteralmente: amata per sempre.
Teneramente, liberamente, senza nessun rimpianto amata. E questo per sempre. Si capisce che Maria sia senza parole.
Quel suo nome è anche il nostro nome: buoni e meno buoni, ognuno amato per sempre. Piccoli o grandi, ognuno riempito di cielo, pieno di grazia.
Maria non è piena di grazia perché ha risposto “sì” a Dio, ma perché Dio per primo ha detto “sì” a lei; senza che lei abbia fatto niente, prima ancora della sua risposta.
Quel Dio continua a dire “sì” a ciascuno di noi, prima della nostra risposta.
Ognuno pieno di grazia, tutti amati come siamo, per quello che siamo. Perché la grazia sia grazia e non merito o calcolo. Che io sia amato dipende da Dio, non dipende da me.
C’è come una forma di passività, un aspetto molto femminile, all’inizio della nostra fede: accogliere questo amore d’altrove.
Scrive Paolo: «A quanti sono in Roma santi e amati» (Rm 1,7), santi perché amati. Santi di una santità che non è fatta di osservanze e di fedeltà, ma che viene prima di ogni nostro comportamento.
Santità, pre-etica, pre-morale, originaria.
Santi perché amati: è l’amore di Dio che entra in noi e invade, che accende motori e luci negli angoli oscuri del cuore, che entra e santifica. È l’amore che rende santo chi lo accoglie.
Allora la seconda e la terza parola dell’angelo (riempita di grazia e il Signore è con te) si chiariscono reciprocamente.
Sei riempita di grazia, aveva detto; ora spiega: sei riempita di Dio.
Mi pare di sentire l’angelo di Nazaret, esperto in umanità come tutti gli angeli, che parla a una ragazzina, poco più che una bambina: Maria, Dio ti ha guardata e ti ha trovata bella, e ora la sua gioia è stare con te. Lo sai, Maria, che la felicità viene dai volti amati. Vedi, anche Giuseppe, il suo volto e il pensiero di lui ti fanno felice, ma ora è qui Colui che è il Volto dei volti, e si dichiara.
Gli altri sono frammenti di quel volto, gocce di luce di quella luce, schegge di quell’amore. Dio ti avvolge con un abbraccio di cui quelli sulla terra sono profezia.
Maria è grata perché amata. Non solo da Dio, amata anche da un uomo, da Giuseppe e la sua gratitudine è plurale.
Maria è la donna del “sì”; ma il suo primo “sì” l’ha detto a Giuseppe.
Prima di tutto Maria è una donna che con cuore di carne ama un uomo; una donna che crede nell’amore; una ragazza che sa amare, appassionata.
Di Maria sappiamo due cose: ha un amore e una casa.
Noi possiamo fare a meno di molte cose, ma non di una casa.
Possiamo essere poveri di tutto, ma per vivere abbiamo bisogno di amore, anzi «di molto amore per vivere bene» (J. Maritain). Se non amiamo non viviamo, dice Giovanni.
Povera di tutto, Dio non ha voluto che Maria fosse povera d’amore.
Maria è innamorata di Giuseppe, per questo aperta al mistero.
Non si oppongono i due amori, le due vocazioni, ma si innervano, si innestano. Dio è il cantus firmus attorno al quale si dispiega il contrappunto dell’affettività.
Ciò che molti hanno perso, ciò che molti rischiano di perdere, in nome di un malinteso spiritualismo, è la polifonia degli affetti. E la vita ne esce impoverita.
Il celibato è buono se ti fa crescere in umanità. Il voto di castità è buono non se esalta la tua capacità di essere fedele, ma se produce una crescita d’umano, se sboccia il canto dell’essere. Altrimenti non è per te.
Se c’è qualcosa sulla terra che apre la via all’assoluto, questa cosa è l’amore, luogo dove arrivano angeli. Il cuore è la porta di Dio.
Ogni evento d’amore è sempre una vocazione decretata dal cielo.
Proprio perché innamorata, Maria può percepire il messaggio dell’Assoluto. Coltivando l’amore del suo uomo. Non ci sono due amori c’è un solo unico amore, di cielo e di terra, che spinge Dio verso Betlemme, Adamo verso Eva, la madre verso il figlio: è Lui che ama in ogni nostro amore.
L’amata-per-sempre ha capito e canta. Ha capito ed esplode il suo Magnificat: ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore, ha fatto della mia vita un luogo di prodigi.
Il Magnificat è strutturato attorno a 13 verbi, di questi ben 10 sono riferiti a Dio. Per 10 volte Maria ripete: «È lui che ha guardato, che ha fatto cose meravigliose, è lui che umilia, è lui che innalza, è lui che riempie, è lui che rimanda vuoti, è lui…». Il centro della fede è ciò che Dio fa per me, non ciò che io faccio per lui. La salvezza è che Dio ami, non che io ami. Che lui ami me, non che io ami lui. Da questa esperienza dell’innamoramento di Dio, un Dio con le mani nel folto della vita. Maria fa fiorire il suo canto e la sua danza.
Grata perché amata.
5. L’amore spinge a fiorire. Felice è chi è fecondo (M. Marcolini)
Se sono qui oggi, è perché l’Amore mi ha cercata. È entrato un giorno nella mia stanza, come il raggio nei dipinti dell’Annunciazione.
Un raggio d’amore è penetrato nella mia casa e nel mio cuore e lo ha fatto ardere. Un incendio d’amore dentro di me.
Mi ha scombussolato la vita seducendomi.
Mi ha toccata un Dio attraente, vicino e intimo come un amante.
C’è dell’eros in ogni vocazione. Quel desiderare, cercare, sfiorare, baciare… e poi perdere, dimenticare, allontanarsi… per tornare a desiderare.
La vocazione è una danza di corteggiamento: «Ho scelto te e il mio amore ti fa bella come il sole».
C’è tutto il profumo, tutta la bellezza e gli spasimi del Cantico dei cantici.
Dio è amore e l’amore fa ciò che fa l’energia del sole: irradia luce e fa crescere. Senza amore siamo come pianticelle senza il sole, destinate ad avvizzire.
L’amore è un’energia vitale che spinge a fiorire. Preme dentro il seme perché si intenerisca il guscio, si spezzi e ne esca un esile germoglio.
E poi lo incalza perché metta foglie e faccia lo stelo. E poi continua a spingere perché la pianta porti a compimento ciò che è.
La vocazione della pianta è fiorire e dare frutto.
Anche la nostra vocazione è fiorire e fruttificare. È una chiamata alla felicità. Ma qual è l’origine della parola felicità? Deriva dal latino felix, che come primo significato non vuol dire felice, contento, ma fertile, fruttifero. Felix per i romani era l’albero rigoglioso che dava tanti frutti.
Una storia simile ha anche la parola lieto. Laetus significava sia allegro, contento, sia fertile, fecondo. Laetus era il campo grasso, laeti i pascoli fecondi d’erbe, dove gli animali trovavano molto nutrimento.
Cercare l’etimologia di una parola è come risvegliarne il senso addormentato. Scopro allora che le parole felicità, fecondità, feto e femmina hanno un’antica storia in comune, che parla di maturazione, di abbondanza, di spighe dorate di chicchi, di grappoli gonfi di dolce succo, di grembi gravidi.
Felice è chi è fecondo e fecondi si diventa evolvendo, trasformandosi, lasciando le vecchie sicurezze per abbandonarsi alla mano del Signore che ti lavora.
Come avviene a una spiga o a una pianta di rosa, che rispondono alla loro vocazione fiorendo, maturando.
L’amore di Dio ci chiama a fioritura, a far emergere tutta la bellezza che abbiamo dentro, a sviluppare le nostre capacità, a metterle a disposizione del mondo. Siamo chiamati a brillare, nessun talento deve essere mortificato. Il mondo ne ha bisogno: una rosa che non fiorisce ha mancato il suo scopo nella vita.
Felicità è fecondità: una persona ha gioia quando è messa in grado di poter donare il meglio di sé.
«Siate perfetti», dice Gesù, ma perfetti non significa senza macchia e senza paura. Perfectus in latino significa compiuto, qualcosa giunto a compimento, a maturazione. Così come imperfectus non significa sbagliato, ma incompiuto, appena cominciato.
Impariamo a considerare noi stessi e la nostra vita di fede in modo evolutivo, trasformativo; guardiamo noi stessi e gli altri come guardiamo la pianta che matura in giardino. E ci libereremo dei sensi di colpa e dei giudizi moralistici verso gli altri.
Gesù ci esorta spesso a imparare dalla natura, dai semi, dalle spighe, dalle viti. Se avete un orto o un giardino o solo una piantina sul balcone, contemplateli: sono dei maestri, sono intrisi della Parola del Signore.
Lo dice con parole molto belle Papa Francesco nella Laudato si’ (nn. 84-88): «Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio… tutta la natura, oltre a manifestare Dio, è luogo della sua presenza… Contemplare il creato è ascoltare un messaggio che Dio ci vuole comunicare».
6. Amore passivo (E. Ronchi)
«Prima che un essere capace di amare, Dio, facendo me, ha voluto fare un essere capace di ricevere il suo amore. Prima che per amare sono fatto per essere amato» (Pietro de Marchi).
Per un Amore passivo: lasciarsi amare, come la ragazzina di Nazaret.
Ci pare poca cosa, noi vogliamo essere attivi, decidere, fare noi. Ma lasciarsi amare – lo mostra nel Vangelo Giovanni, il “discepolo amato”, il raggiunto, il catturato dall’amore di preferenza di Cristo – ci indica l’importanza del lasciarci amare, il primato dell’amore passivo.
Passivo è un aggettivo che non ci piace, noi vogliamo essere protagonisti, ci sembra poca cosa lasciarsi amare, poco meritorio. Noi vogliamo dirigere e fare, decidere e creare.
Invece quanta bellezza ed energia erompono quando su di te si posa amore. Quanta vita trasmette il sentirsi amati.
L’esperienza di essere stati amati anche una sola volta, di amore puro, disinteressato, salva la vita per sempre dall’insignificanza e dal non senso.
Tutti, come Giovanni, discepoli amati; ciascuno il prediletto di Dio, perché Dio preferisce ciascuno.
(Mi ricordo un piccolo grande profeta, Don Gino Piccio, che concludeva sempre la confessione dicendo questo: «Adesso vai e lasciati amare da Dio»).
Lasciarsi amare è gravido di una potenza di rivelazioni. Giovanni l’amato è l’unico dei dodici che rimane presso la Croce, lì riceve lo Spirito per primo, lì riceve la Madre. Arriva per primo al sepolcro, in quella corsa al mattino di Pasqua, che vuol dire che giunge per primo a capirne il senso: vide e credette.
L’amato ha la rivelazione più folgorante, più penetrante di Dio, quando per due volte afferma, in un’estasi: «Dio è amore, Dio è amore!». Quando dice: «Noi siamo quelli che hanno creduto l’amore che Dio ha in noi» (1Gv 4,16).
Non solo per noi, ma in noi. Sentilo quando ti avvampa il cuore, è Dio che in te ama. Lui, l’amore in ogni amore.
Grati perché amati. Grato diventa colui che sa ancora salvare lo stupore davanti a un dono.
Non saremo mai felici se non impariamo a ringraziare. A passare nel mondo come debitori, non come creditori; come debitori, non come esattori che esigono, che pretendono come dovuti attenzioni, stima, cura, amore… Il debito di esistere, il debito di essere amati, si paga solo con l’amore. Non abbiate, con nessuno, altro debito se non quello dell’amore riconoscente (Rm 13,8).
7. Lasciarsi amare (M. Marcolini)
Dare una sfumatura femminile alla nostra fede, giusto! Io però userei una parola diversa da passività, perché questa è un po’ compromessa da accezioni negative. Significa subire, la usiamo anche per indicare la mancanza di volontà di agire, l’inerzia, l’acquiescenza.
Sfumatura femminile non significa questo. Pensiamo a una situazione per eccellenza femminile, la maternità. Si può dire che è passiva una donna che concepisce, accogli un seme e lo nutre, poco alla volta fa spazio al feto nel grembo e spazio per lui anche nella mente e nel cuore?
Io userei un’altra parola: ricettività. Ricettività è capacità di aprirsi per accogliere e ha sempre significato positivo. Si dice dell’occhio che è ricettivo, perché accoglie la luce. Se non lo facesse, saremmo tutti ciechi.
La ricettività, questa sfumatura femminile, non è inattività.
Anche la concezione di un’opera d’arte richiede ricettività.
Un grembo che nutre un figlio, un’artista che nutre sensazioni e pensieri e cova un’opera d’arte, sono al massimo della loro creatività.
È importante tenere presente questo anche per poter capire Maria, la madre di Dio.
Si è messo troppo l’accento sulla sua passività, sottomissione, obbedienza, come se fosse inerte, non avesse una volontà propria.
È importante capire Maria, perché lei è l’icona della santità, ciò a cui vogliamo assomigliare, nostra vera sorella. Il sì di Maria non è passività, inattività, ma apertura attiva di tutto il proprio essere a Dio, «una riviera spalancata sull’oceano» (D.M. Turoldo). È la massima creatività permessa all’essere umano: fare come la riviera, la terraferma, che si lascia inondare dall’oceano e così sconfinare in esso. È accogliere e covare un seme divino in sé e sconfinare in Dio.
La ricettività è l’atto più nobile della nostra volontà ed esalta la libertà umana: «È perché l’uomo può dire no che il suo sì può ottenere una piena risonanza e il suo fiat si trova non solo in accordo ma allo stesso livello vertiginoso di libera creazione del fiat di Dio» (Paul Evdokimov).
Essere ricettivi come Maria, una donna che si apre tenera, accoglie, cova un seme tra l’imperversare di tutti gli Erodi, interiori e della storia.
Maria incinta di Dio, incinta di luce e d’amore, è l’immagine più potente che il Vangelo ci consegna per interpretare la nostra storia.
Essere gravidi di Dio, portarlo oggi alla luce. È un’immagine che ha colpito grandi figure della tradizione cristiana, come Origene, come Meister Eckhart e, facendo un balzo nel Novecento, il poeta e profeta Turoldo, che in una bellissima pagina di un suo libro, interrogandosi sul senso della santità, dialoga così con uno dei sette santi fondatori del suo ordine: «Ma tu sai, Filippo, che la santità non si raggiunge perché noi vogliamo essere santi; la santità non è una conquista umana, un fatto prometeico; la santità è un evento di tutt’altra natura. Non è un fare ma un “lasciarsi fare”; non un volere, ma un lasciarsi prendere…».
8. «Casa di Dio siamo noi se custodiamo libertà e speranza» (E. Ronchi)
Vocazione è essere grembo per Dio, casa di Dio. Come è possibile?
La Lettera agli Ebrei lo indica così: «Casa di Dio siete voi se custodite libertà e speranza» (Eb 3,6).
Vorrei solo conservare e trasmettere libertà e speranza.
È quello che faceva Gesù: chi più libero di lui? Chi accendeva speranze più grandi?
I nostri maestri di formazione dicevano altro: casa di Dio sarete, se osservate le costituzioni; se osservate i tre voti… insegnamenti.
I nostri prof di Teologia fondamentale dicevano: siamo casa di Dio se conserviamo l’integrità della dottrina e la purezza della morale…
Non ci hanno parlato di libertà nella nostra formazione, ma di obbedienza. La virtù dei novizi e delle novizie non era emanare un senso di libertà, ma di docilità agli insegnamenti. Invece la Lettera agli Ebrei sceglie altre pietre d’angolo per la casa di Dio: libertà e speranza.
Uomini e donne che emanano speranza e libertà sono i costruttori della casa. Perché «il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione» (G. Vannucci).
Conservare speranza
Sperare in ebraico si dice qiwwah, un termine connesso con qaw, la corda: la corda dei muratori, il filo che i costruttori tendono per edificare i muri della casa, o le mura della città. Sperare evoca l’idea di una corda tesa verso, indica il tendere a… l’at-tendere qualcosa o qualcuno.
La speranza è come una corda tesa tra due sponde, il mio presente che tende ad un futuro. Capacità di progettare traversate.
La speranza è una cordicella di filo scarlatto, come alla casa di Rahab a Gerico, appesa al balcone della mia vita, alla quale mi aggrappo, perché so che il capo del filo rosso della storia è saldamente nelle mani di Dio. E Dio salva, questo è il suo nome.
La speranza ha tre pilastri: la vita ha senso, il senso della vita è positivo, questo positivo inizia qui e sfocia nell’eterno.
La speranza è la testarda fedeltà all’idea che la storia e la vita siano, nonostante tutte le smentite, un possibile cammino di salvezza.
Speranza è coltivare nel presente un buon futuro. Speranza è il presente del futuro (Tommaso d’Aquino). Coltivare tutte le condizioni di fecondità delle vite e delle persone. Le nostre comunità cristiane dovrebbero essere coltivatrici delle fecondità, di tutti i presupposti per far fiorire le vite.
La speranza sta al centro del Vangelo, è il cuore semplice dell’annuncio, che dice: è possibile vivere meglio per tutti e Gesù ne possiede la chiave. È possibile per tutti una vita che sia buona bella e beata. E Gesù ne conosce il segreto.
C’è una crisi vocazionale oggi. Deficit vocazionale, tra le altre cose, per un deficit di speranza e libertà. Perché non diamo l’idea di una casa piena di libertà, piena di speranza.
Che cosa spero per me e per la mia comunità? Che cosa spero per me e per il mondo? Spero libertà e onestà, spero bellezza per la mia vita e per la vita di tutti? Spero in una vita più affettuosa, per me e per tutti! Pace!
Conservare libertà
Libertà è parola evangelica, da rivendicare come nostra, da non abbandonare nelle mani degli altri.
E un anno di grazia del Signore, il giubileo, quando i campi erano restituiti, i debiti condonati, gli schiavi liberati, e tutto restituito a Dio.
Dei cinque “perché” che spiegano l’incarnazione, tre sono riferiti alla libertà.
Una parola così gradita ai nostri orecchi, una parola così cara a tutta la nostra storia, come sa chi per lei vita rifiuta (Dante).
La libertà è il senso della creazione. Grande e drammatica qualità, che è a immagine di Dio. Dio la consegna ad Adamo ed Eva, Dio si ritira, il suo più arduo ritrarsi, per lasciare spazio all’uomo e alle sue scelte.
Egli non vuole avere davanti a sé solo stelle che obbediscono a meccaniche celesti, stagioni che rispondono a ritmi fissi, animali che seguono istinti già inscritti. Vuole avere un rischioso interlocutore, l’uomo, pronto a seguirlo nelle sue follie; non a giustificarlo, ma a rialzarlo. E il primo appello alla libertà Dio lo rivolge all’uomo già nel primo verbo che impiega nel primo dialogo: tu puoi! Di tutti gli alberi voi potete mangiare… Dopo, solo dopo, viene il divieto: di uno solo non dovrete mangiare.
Vivere da uomo, cioè a immagine di Dio, non è eseguire comandi, è prima di tutto esplorare possibilità, la vita è una esplorazione sulle frontiere del possibile. Tu puoi! Parola che sa di vento, di futuro di spazi aperti, di libertà. E la misericordia di Dio consiste nel ridare libertà, nel tirarmi fuori dai miei ergastoli interiori, dal passato che mi tiro dietro come una prigione, un colpo d’ala per ripartire verso il domani. Io la vela, Dio il vento.
I perché dell’incarnazione di Gesù sono posti sotto il grande arcobaleno bicolore della misericordia per il dolore e della libertà.
Il contrario del libero è il cattivo, da captivus prigioniero; il contrario della libertà è la cattiveria. Quando vediamo un uomo cattivo, sta a noi pensare che non agisce così perché è cattivo, ma perché è prigioniero. E allora aiutare la sua liberazione. Gli uomini non sono cattivi, si ingannano facilmente; facilmente sono fatti prigionieri.
Libertà entra nel mondo con il cristianesimo, con Gesù, prima esisteva il fato, la suprema necessità che determinava lo svolgersi delle vite. Con Gesù l’uomo non è più sottomesso al fato, a un destino esterno a lui, ma è in grado di cambiare totalmente la sua vita.
Di capovolgerla.
Quante volte, tutti, ci siamo domandati: quale sarà la volontà di Dio per la mia vita? Ebbene, la volontà di Dio non è il vecchio fato pagano, un indirizzo già scritto al di fuori di me. Volontà di Dio non è una cosa arcana e nascosta, una lunga caccia al tesoro, seguendo pochi indizi disseminati qua e là, e se non la scopro è colpa mia. La volontà di Dio è una vita da scrivere insieme, io e Dio, una sinfonia a quattro mani, tu e Dio.
Sia fatta la tua volontà e la conosciamo da tutto il Vangelo: Dio vuole che nasca nel mondo una volontà d’amore e che questa arrivi, risalendo dalla periferia a conquistare il centro della città dell’uomo. Vuole che l’uomo sia un figlio creativo e ostinato nell’amore.
9. Creare comunità che siano semenzai di vita (M. Marcolini)
Il mio “sì” a una vocazione, il mio eccomi, è la risposta a due forze che sento agire: una è la spinta interiore alla mia crescita, la forza che mi spinge a realizzare il meglio di me, a cercare la felicità e diventare radiosa. Per poter dire con il poeta: m’illumino d’immenso.
L’altra forza è esterna e agisce attraendomi: sono i bisogni degli altri che mi chiamano.
Una vita ben riuscita, una vita felix, perfecta, è una vita che risponde sì a queste due forze e le asseconda, tutte e due.
Il Vangelo è capace di far andare d’accordo ciò che di solito teniamo separato perché ci sembra in contraddizione: l’amore di sé e l’amore per gli altri, quelli che chiamiamo egoismo e altruismo.
Impariamo ancora dalla natura: se guardo un alberello di quercia che cresce e lo vedo negli anni alzarsi, irrobustirsi, diventare imponente, frondoso, ricco di foglie e riempirsi di ghiande, se vedo allora arrivare mille creature che trovano riparo alla sua ombra, si nutrono dei suoi frutti, delle foglie che marciscono e producono altra vita, se penso alla bellezza di quell’albero, alla gioia per gli occhi che essa è, al sorriso che fa sbocciare sulle labbra di chi passa, posso giudicare quell’essere vivente egoista?
Essere anche noi come gli alberi: docili al cambiamento e in continua crescita, fino all’ultimo giorno. Lasciarsi cambiare per diventare a nostra volta agenti di cambiamento, con-creatori con Dio.
Creare comunità che stimolino la creatività, l’artista che è in ognuno di noi, l’innovatore; luoghi di “chiamata alle arti”. Dove anche il senso delle rinunce, i voti, le promesse, siano rivisti: che si rinunci solo a ciò che è zavorra che impedisce il volo e non si parli più di sacrificio perché Gesù non ne parla: «Misericordia io voglio e non sacrifici».
Gesù non parla di amputazioni, ma di potature: ancora un’immagine agricola. Si pota per avere più vita, perché la vita scoppi di nuovo. È un’azione tesa a favorire la fruttificazione e solo con questo obiettivo ha senso. Il tralcio-discepolo è invitato a concentrarsi sul dono di sé, non sulla propria perfezione interiore.
Creiamo luoghi dove «toglierci i calzari davanti alla terra sacra dell’altro» (Evangelii gaudium, n. 169). Io ho incontrato luoghi così, dei semenzai, il primo nella persona di un prete.
Dopo che quel raggio di sole era penetrato nel mio cuore, ho dovuto fare i conti col passato. Un passato lungo: erano quasi trent’anni che non mi confessavo. Sono entrata, un po’ spaurita, in una chiesa in un freddo pomeriggio di dicembre e sono stata fortunata: non ho trovato uno di quei burocrati grigi che stanno nel confessionale come nell’ufficio delle poste o uno di quelli che hanno paura degli affetti e allora mettono nel freezer i loro sentimenti con i surgelati, non ho trovato neppure un prete indaffaratissimo, da pregare perché mi trovasse un buchino nell’agenda.
Io ho trovato due braccia spalancate.
Ho trovato un uomo acceso, appassionato, che mi ha detto, con gioia vera: grazie che sei qui, grazie che hai scelto me!
10. Sette motivi per dire grazie all’amore (E. Ronchi)
1. Perché l’amore è ossigeno, fa vivere, genera e rigenera la vita. Raddoppia la vita. Perché è Forte come la morte, anzi più della morte. Ciò che si oppone alla morte, e la vince, non è la vita, è l’amore.
2. Perché è il segreto del benessere della persona. Perché ci fa felici, contiene il seme della felicità: dare e ricevere amore è ciò su cui si pesa la beatitudine di questa vita. Fatti a immagine di Dio, anzi, della Trinità che è legame.
3. Perché trasfigura, ti obbliga a diventare il meglio di ciò che puoi diventare, riaccende il circuito del sangue e dei sogni, rilancia il futuro.
4. Perché è passione di unirsi, passione di comunione: crea i legami che tengono insieme il mondo, tessuto connettivo delle vite; forza di coesione degli esseri.
5. Perché è intelligente, ti fa capire di più, prima, e più in profondità (intelletto d’amore), perché l’amore è la porta con cui accedi alla verità delle persone.
6. Perché l’amore è teologo, dice chi è Dio, è il nome di Dio, che regala vita a chi produce amore.
7. Perché è il dogma della nostra fede. Noi siamo quelli che hanno creduto all’amore (1Gv 4,16).