N.04
Luglio/agosto 2016

La misericordia è la virtù dei forti

«Per ben ventisei volte il Signore si era messo pazientemente all’opera per plasmare il mondo, fondandolo sulla giustizia, ma ogni volta, dopo che il mondo era rotolato fuori dalla sua mano, si frantumava in mille pezzi di fronte al primo ostacolo che incontrava. Allora il Signore tenne consiglio con i suoi angeli: “Come dobbiamo fare perché il mondo regga?”. E gli angeli dissero: “Forse la giustizia da sola non basta, bisognerebbe aggiungere una misura abbondante di misericordia”. Il Signore ascoltò il suggerimento degli angeli; e la ventisettesima volta il mondo, impastato della misericordia di Dio, rotolando via dalla sua mano rimase ben saldo» (racconto rabbinico).
La misericordia è la virtù e la risorsa dei forti. Ci vuole un cuore coraggioso e audace per non cedere al desiderio della rivalsa o della vendetta, per non vivere il turbinio della rabbia o della colpa e per aprire la porta dell’accoglienza e del perdono. Il misericordioso non è il più debole, è sempre il più forte.
Tutte le storie vocazionali si collocano nel contesto della misericordia. Esse si intrecciano con un cammino di consapevolezza della propria fragilità e miseria, ma anche con l’esperienza di un Dio che ci accoglie così come siamo.
Il profeta Isaia, nel contesto di una grande teofania, si trova di fronte al Signore “tre volte Santo”; intorno a lui risuona il canto dei Serafini. Egli sperimenta l’inquietudine della sproporzione tra ciò che lui è e ciò a cui il Signore lo chiama.
Quante volte tutti noi viviamo questa stessa sensazione: «Come fare ad andare avanti? Come far fronte a responsabilità che ci caricano di preoccupazione, paura e voglia di gettare la spugna?».
Il Signore chiede ad Isaia di accettare la missione. Il segno che gli dona è un carbone ardente accostato alla sua bocca: un calore che riscalda, un fuoco che illumina e purifica. Un carbone infuocato che brucia il peccato della sfiducia e quello dell’orgoglio, la tentazione del non fare e quella di fare tutto da soli. Paolo stesso avverte il peso della sua missione di apostolo-testimone di Gesù risorto e si percepisce come «l’infimo degli apostoli», paragonandosi persino a un aborto (1Cor 15,8); lui, uomo della vita, diventa l’uomo della non vita. Solo allora prende coscienza della amabile presenza di Dio che lo sostiene: «Per grazia di Dio sono quello che sono (…) Ho faticato tanto, non io però, ma la Grazia di Dio che è con me» (1Cor 15,10).
La fatica di essere ciò che si è, niente di più e niente di meno. Il Signore non ci chiederà un giorno: «Sei stato bravo nella fede come Abramo? Sei stato un forte leader come Mosè? Sei stato coraggioso e battagliero come Elia? No, egli ci chiederà: Sei stato veramente te stesso?» (Martin Buber).
Pietro, dopo una notte di pesca andata a vuoto, vede vanificata la sua perizia di pescatore, assieme ai suoi compagni di lavoro, Giacomo e Giovanni: «Non ho preso nulla tutta la notte, Signore. Ho provato e riprovato, ecco i risultati…».
Quante volte arriviamo anche noi di fronte al Signore avviliti e delusi, perché non siamo stati all’altezza delle aspettative che ci eravamo proposti; le mani e il cuore sono sfiduciati e oppressi.
La voglia e l’entusiasmo degli inizi non ci sono più. Credevamo di farcela e poi…
In quel momento ci vuole molta fede e tanto coraggio per abbandonarsi al dolce abbraccio della misericordia di Dio e dire: «Sulla tua parola, Signore, mi rimetto con forza a remare, riprendo il mio lavoro, vado al largo e getto le reti».