L’arte del colloquio di accompagnamento
«La Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario. In questo mondo i ministri ordinati e gli altri operatori pastorali possono rendere presente la fragranza della presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale. La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa “arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf Es 3,5).
Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (EG 169).
Questo passo dell’Evangelii Gaudium ci ricorda che l’obiettivo di un accompagnamento è quello di aiutare la persona a riconoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché sia ricolma di tutta la pienezza di Dio (cf Ef 3,19). Ecco allora che la pedagogia vocazionale si presenta come introduzione e formazione al mistero dell’amore di Dio; è educare a considerare, riconoscere e usare il proprio vissuto come luogo in cui si manifesta il mistero, cosicché la vita sia davvero vocazione.
Come poter favorire questo cammino? Come pensare l’arte dell’accompagnamento?
Di solito, in questo servizio, siamo preoccupati di avere delle tecniche di intervento “pronte all’uso”, per sapere cosa devo fare o dire. Questo certamente è importante, ma – lo sappiamo – è ancora più importante il “perché” dico o faccio qualcosa e l’interrogarsi sul “verso dove” si sta andando.
Il “cosa dire” o “cosa fare” in realtà sono il frutto di altri due strumenti di cui l’accompagnatore ha bisogno: un riferimento teorico e un principio pedagogico che illuminino il “come” intervenire1. Se così non fosse ci troveremmo ad usare più o meno indiscriminatamente gli stessi modi o tecniche per tutti, perdendo di vista la persona concreta e originale che abbiamo davanti, la sua personale “terra sacra”. Perderemmo di vista proprio l’arte dell’accompagnamento.
Le riflessioni che presento su questi temi nascono certamente dagli studi e dall’esperienza fatta, dal contributo prezioso di chi è un passo più avanti in questa arte.
1. La strada da percorrere… è la meta verso cui dirigersi
La fede ci fa dire che ogni processo di accompagnamento avviene nel nome di Gesù. Infatti solo Gesù Cristo parla all’uomo del mistero di Dio e parla all’uomo del mistero dell’uomo. Solo con Gesù e il suo sguardo abbiamo accesso alla vita (storia personale), ovvero lo spazio dove agisce e si manifesta il mistero. Per questo ogni accompagnamento idealmente è:
– incarnato in una storia concreta, fatta di alterità incontrate e che ha pertanto conosciuto le sue dinamiche originali di crescita;
– procede grazie alla mediazione dello Spirito che agisce in chi accompagna e in chi è accompagnato;
– verso la misura piena di umanità cui la persona è destinata dal disegno d’amore di Dio Padre.
Possiamo dire cioè che l’accompagnamento vocazionale possiede un fondamento cristocentrico: con l’incarnazione, infatti, il Maestro Gesù Cristo entra nella storia concreta dell’uomo, la assume, la redime, la porta a compimento. Così, l’uomo che voglia liberamente accedere alla misura piena di umanità cui è destinato dal disegno d’amore di Dio Padre, è chiamato, nella grazia, a «entrare in Cristo con tutto se stesso» e cioè ad «appropriarsi ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso» (RH 10).
Per parlare del riferimento teorico necessario all’accompagnatore ho scelto pertanto di percorrere tre sentieri in una prospettiva cristocentrica – nella semplicità di persona credente e non della valenza teologica che meriterebbero – che intersecano l’antropologia della vocazione cristiana2 ed esprimono alcune specificità pedagogiche appropriate anche per questo nostro tempo storico.
Sono i sentieri dell’umiltà, della novità e della gioia.
1.1 Umiltà
«Nessuno mai ha visto Dio» (1Gv 4,12), afferma la Sacra Scrittura, ma gli è piaciuto rivelarsi agli uomini nella creazione, nella storia del popolo d’Israele, nelle parole che ispira ai profeti e, infine, nel proprio Figlio. Un Dio che si fa uomo: «O umiltà sublime e sublimità umile!» esclama San Francesco. Lo stupore di fronte all’Incarnazione del Verbo ci spinge a contemplare con “santa curiosità”3 le azioni e le parole di Gesù. Quando lo si fa, si scopre che nella vita di Cristo, tutto, dalla nascita fino alla morte in Croce (cf Fil 2,6-8)– e anche nelle apparizioni da Risorto –, è denso di umiltà.
In questa sublime umiltà, oltre a manifestarsi la profondità dell’amore di Dio per noi, ci viene fatto conoscere il cammino regale che conduce alla pienezza di questo amore. Ecco allora alcuni cenni di antropologia cristiana e pedagogia vocazionale che ne derivano.
– Un cammino di accompagnamento aspira alla misura alta dell’amore, perché entrambi – accompagnatore e accompagnato – maturino nel fare propri i sentimenti di umiltà di Gesù. Il ministero dell’accompagnamento vocazionale è ministero umile, di quella umiltà serena e intelligente che nasce dalla libertà nello Spirito (cf NVNE 34)4.
– Sappiamo infatti bene che l’umiltà è la roccia sulla quale cresce bene la casa della carità e ci crediamo. Come crediamo che l’umiltà autentica porta alla Sapienza spirituale. Ci crediamo e lo vogliamo con tutto di noi stessi. Eppure…! Quante volte dobbiamo riconoscere che ciò a cui il nostro “cuore grande” aspira lo riduciamo, lo impoveriamo. Possediamo anche un “cuore piccolo” per cui noi stessi siamo così capaci di privarci di ciò che appassionatamente desideriamo5.
– È l’umiltà la luce che fa scoprire all’uomo la grandezza della propria identità, quale essere personale capace di dialogare con il Creatore e di accettare la dipendenza da Lui nella libertà. L’umiltà è infatti il punto prospettico dal basso che fa vedere la grandezza che ci circonda; è la premessa della capacità di accorgersi della bellezza dell’altro, premessa per accorgersi che l’altro è un dono per me.
– L’umiltà però, lo sappiamo, non è scontata. Dobbiamo fare esperienza sufficientemente serena di aver bisogno, di riconoscerci limitati e per questo non meno amabili. Questo non è semplice.
– Ci può essere poi una storia passata segnata da esperienze di limite sentite come troppo umilianti al punto da spingere a cercare false prosperità (bisogni di successo, di piacere, di potere…), che non danno quello che sembrano promettere e, soprattutto, non fanno comprendere dove è la vera vita (cf Sal 48).
– Anche questa è “terra sacra”, non colpevole ma forse “ignorante” o ferita. Accompagnare significa allora favorire un cammino di verità e guarigione. Con competenza «l’accompagnatore dovrebbe pazientemente aspettare il proprio accompagnato nel luogo dove la grazia dolcemente lo spinge: quello dell’umiliazione e della contri- zione del cuore, il luogo della sua pasqua interiore, dove la nuova vita potrà sgorgare alla fine»6.
1.2 Novità
Il senso di novità percorre tutto il Vangelo, dall’Annunciazione a Maria fino alla Risurrezione del Signore. Il Nuovo Testamento parla in tanti modi diversi di un nuovo inizio per l’umanità. La “buona novità” del Vangelo è la gratuità dell’amore con cui Gesù ci serve perché in lui possiamo essere creature nuove (cf 2Cor 5,17).
Ogni accompagnamento vocazionale è allora orientato a questo cammino di trasformazione e domanda un’educazione alla santa curiosità.
– La vita come mistero è “novità” che non è da porre come obiettivo finale di un cammino di ricerca. È piuttosto la cornice interpretativa per orientarsi nell’umano.
Davanti al nostro oggi non c’è un domani come proseguimento o perfezionamento dell’oggi, ma un domani nuovo e magari anche uno stravolgimento dell’oggi!
– In riferimento all’attuale mondo giovanile (e non solo) si dice che la ricerca affannosa del “nuovo” (che sia dello smartphone o di un partner) nasconda in realtà la ripetizione della stessa insoddisfazione.
Al giovane accompagnato è bene annunciare che non avrà mai in mano tutti gli elementi per decifrare definitivamente il senso e il fine del suo esistere, che non esiste un’app alla quale affidare tutti i dati personali in suo possesso perché gli dica chi è veramente e definitivamente. E questo perché ha a che fare con una realtà di sé che sempre sfuggirà alla sua comprensione totale e, soprattutto, perché Dio è buono e libero.
– Questo dubbio salutare “condanna” il giovane a cercare oltre, a scoprire la radicale precarietà delle sue certezze e a mantenere in sé un senso di meraviglia e stupore verso la sua vita: presupposti indispensabili perché possano emergere domande esistenziali.
– Inoltre ogni persona giunge all’accompagnamento con un suo nome, in qualche modo “ereditato” dalla sua storia e, spesso, non è certo il nome della “creatura nuova”. È Martina “quella lenta”, Giacomo “non affidabile”, Riccardo “che non deve sbagliare mai”, Sara “che non sarà mai brava come sua sorella”, Francesco “quello che non merita l’affetto altrui”…
– Ci troviamo di fronte ad un cammino attraente, ma allo stesso tempo complesso. La nostra immagine personale non comprende unicamente ciò che noi siamo o pensiamo di essere, la situazione in questo momento preciso della nostra vita, ma anche ciò che siamo chiamati ad essere, il progetto di Dio per la nostra persona. È così presente una componente statica, ma anche una dinamica che, nel processo di accompagnamento, implica la capacità di percepire oggettivamente l’altro, ma anche di leggere, al di là dell’attuale, ciò che la persona è chiamata a realizzare. Un po’ come fece Gesù quando a Simone, ardente nel desiderio, ma fragile nell’irruenza, diede un nome nuovo, Pietro, affidandogli così la missione di essere roccia salda7.
1.3 Gioia
Gesù è un uomo realista, pieno di gioia… Gesù, uomo cosciente come nessuno, uomo che non ha cercato scappatoie di fronte al dolore, è stato un uomo con una gioia profonda. Lo ascoltiamo poco prima che si consumi il suo dramma finale: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).
Gesù gode di scoprirsi piccolo fra i piccoli, si rallegra di essere conosciuto da loro e, negli occhi dei piccoli, scopre anche se stesso. È lui infatti, Gesù, il primo “piccolo” cui il Padre si è rivelato. Egli, alla soglia dell’abbandono da parte dei suoi discepoli, dirà loro: «Io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16,31). Pensiamo anche al sussulto in Elisabetta e al Magnificat di Maria: la gioia sorprende i piccoli, ha la caratteristica del dono, come un’unzione dello Spirito.
Allora con gioia non intendo tanto indicare un terzo elemento, quanto piuttosto la qualifica affettiva dell’umiltà e della novità. Non è una gioia chiassosa, ma quella della meraviglia di un progetto donato e da costruire con pazienza e fiducia, dell’intuizione da perseguire con speranza, dello stupore di scoprirsi sotto lo sguardo desideroso del Padre.
Come dice Guardini: «La gioia è sorella della serietà»8. Perché la vita e la vocazione sono questioni serie, la gioia della risurrezione è un fatto serio: è la gioia di essere figli di un Padre che mai abbandona.
Il cammino di accompagnamento è, in fondo, un cammino per imparare a diventare figli.
– La gioia «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (EG 1). La proposta di fede, l’annuncio della vocazione deve affascinare il giovane. È una fede che apre alle dimensioni più belle della vita, ne dà il gusto, genera pienezza, senso della realizzazione di sé perché ci si dona.
– La gioia cristiana è l’elemento probante di un giusto discernimento. Ma la gioia di Gesù non è la semplice gioia psichica che potrebbe essere semplicemente frutto di una soddisfazione interiore, di una conquista, di una affermazione di sé. Essa è frutto dell’amore dello Spirito Santo riversato nei nostri cuori e si percepisce come dono, come qualcosa di proprio ma ricevuto, non conquistato, proprio come l’amore gratuito. La prova è che spinge fuori di sé a cercare la perla preziosa (cf Mt 13,45-46), ad andare incontro agli altri (cf Lc 1,39).
– In un cammino di accompagnamento è importante allora conoscere quali sono i criteri che il giovane usa per definire la gioia, dove si attende di trovarla, dove/come la sta cercando e, finora, come pensa di averla ricevuta e dove ritiene gli sia stata negata.
– Con la pazienza dell’ascolto, nel ritmo fedele degli incontri sarà importante aiutarlo a riconoscere la pedagogia che Dio, come Padre buono, ha usato verso di lui, nella sua storia concreta, nelle circostanze più serene, ma soprattutto nelle situazioni di “mancanza”.
Le ferite della vita si presentano come un impedimento che chiude alla gioia e alla fiducia. Questo può capitare, ma poiché per loro natura le ferite sono già uno spazio aperto, dentro una relazione di accompagnamento – il più possibile libera e gratuita – può avvenire anche una trasformazione nel vivere da “figli”: «Quando nell’assenza si scopre una presenza, quando proprio in quella circostanza dolorosa si scorge una grazia. Quando accanto al dolore di non aver ricevuto quello di cui ci sarebbe stato bisogno, ci si trova a scoprire un altro dono, un’altra possibilità, non a latere, ma dentro quella stessa carenza»9. Può nascere un’umile novità, colma di pacata e duratura letizia.
Quanto finora espresso ci porta a concludere che ogni persona vive al centro di movimenti e tendenze opposte. Vive fra limite e desiderio, in una tensione ontologica, presente inevitabilmente in tutti noi. Che noi siamo cittadini di due mondi con l’inevitabile tensione fra di essi non è una cosa che possiamo scegliere o rifiutare; possiamo solo accoglierla.
Il mondo del desiderio dice movimento, progressione, espansione; è il mondo della continua ricerca, degli ideali, delle aspirazioni.
Quello del limite dice condizionamento, possibilità limitate, restringimento progressivo, fino a quello finale della morte10.
Se allora il cuore umano, «per via della propria fragilità e del peccato, si presenta normalmente diviso perché attratto da richiami diversi, o persino opposti»11, è nostro compito accompagnare verso l’umiltà del passo dopo passo, del cammino graduale e perseverante perché capace di riconoscere e superare le resistenze personali, la novità nella ripetizione delle piccole cose di ogni giorno, la gioia del portare a compimento, del fare una fatica per amore e imparare a portare i pesi, dell’imparare a chiedere e ricevere perdono.
2. Il pane dell’accompagnamento
La parola accompagnamento deriva proprio da cum-panio, condividere lo stesso pane.
Da cosa è rappresentato il pane in un accompagnamento? Uno molto buono fra gli altri possiamo riconoscerlo nel modo unico e originale in cui la persona “tiene insieme” (o cerca di farlo) il suo limite con il suo desiderio, le proprie fragilità con le esigenze della vocazione. In altre parole: ognuno di noi ha il proprio modo di vivere i valori del Vangelo, come se fosse una sintesi personale, spesso sconosciuta alla persona stessa12.
Solo un piccolo esempio: quella “Sara che non sarà mai brava come sua sorella” potrà riconoscere una genuina vocazione a dare la vita per Gesù e viverla in parte come dono gratuito, in parte come ansia (spesso non consapevole) di dover dimostrare che vale, magari a volte cercando di essere al centro dell’attenzione o attivando dinamiche di competizione o altro… Il servizio che un accompagnatore può fare a Sara sarebbe allora quello di aiutarla gradualmente a conoscere questa sua tensione dialettica perché divenga sempre più libera e autentica, cioè che le sue energie («tutto il cuore, tutta l’anima e tutte le forze») siano sempre più radicalmente in sintonia con gli ideali di gratuità evangelica incontrati e scelti.
Ecco perché serve una strategia: per riconoscere a che punto del suo cammino si trova la persona accompagnata e come mai è proprio lì in questo momento della sua vita e, quindi, prevedere un cammino (obiettivi e modi) per entrare nel vissuto della persona.
Uno scopo importante dell’accompagnamento è allora quello di favorire la presa di coscienza di questa dialettica interiore13, nella via dell’umiltà e della novità.
L’umiltà fa dire che «appartiene proprio a me! È mia… anche se non la vorrei»; e aiuta la presa di coscienza della forma che la lotta ha preso vita in me, come frutto della mia storia unica e irripetibile (un segnale di questa conformazione è, per esempio, il nome “vecchio” che la persona si attribuisce).
La via della novità apre all’aspettativa realista che «in futuro questa mia dialettica prenderà forme nuove e inimmaginabili a me stesso oggi e, di questo cambiamento, io ne sono protagonista». Infatti, più la dialettica è consapevole e accolta, tanto più sarà possibile addomesticarla, favorendo la misura piena di umanità e gioia promessa nella vocazione al dono di sé (che rimane sempre in “vasi di creta”).
Come accompagnatori vocazionali dobbiamo riflettere sui modi con cui lavoriamo questo tipo di pane. Il “cosa devo dire o fare” con questa persona sarà in qualche modo sempre nuovo perché ne riconosciamo l’originalità, con l’aiuto dello Spirito intravediamo il mistero di cui è portatrice e possiamo “rendere ragione” delle nostre azioni pedagogiche.
2.1 La “fragranza della presenza vicina”
L’arte di accostarsi al mistero dell’altro la impariamo dall’unico Maestro Gesù e dai suoi incontri nel Vangelo: a volte intercetta la persona sulla strada, oppure aspetta ad un pozzo silenziosamente conosciuto e intravisto come luogo significativo per quella persona; a volte dice “vieni!”, altre volte “vai!”; qualcuno lo provoca, qualcuno lo conforta. Arriva anche a fare domande che possono sembrare banali come chiedere a un cieco da cosa vuole guarire o domandare “chi mi ha toccato?” quando la folla lo stringe intorno da tutte le parti… Niente è a caso, ma tutto è pedagogico. Gesù si relaziona in modo che la persona possa guardarsi in profondità, comprendere sempre meglio dove si trova il suo vero bene e proseguire con più autenticità il suo cammino di risposta libera all’amore del Maestro.
Da qui viene una luce che mostra come in un accompagnamento vocazionale non si è mai in due, ma si è sempre in tre: chi è accompagnato, chi accompagna e la mediazione della vocazione.
Accompagnatore e persona accompagnata camminano entrambi insieme verso la pienezza della vocazione che trascende entrambi.
L’accompagnamento è l’arte del rimanere “tra”: comprendere/sfidare, consolare/ provocare, attendere/intervenire…
Un criterio per comprendere cosa sia meglio fare viene dal ricordare che ogni persona cresce a partire dal punto in cui si trova. Un fatto tanto elementare quanto spesso dimenticato. Infatti a volte ci sono molto chiari gli ideali a cui vorremmo portare la persona e la “spingiamo” – con buone intenzioni – ma rischiando di perdere il ritmo della prossimità, perché il ritmo lo tiene sempre l’accompagnato e non possiamo forzarlo. Un principio fondamentale di una buona pedagogia è allora quello di raggiungere la persona laddove essa si trova e, solo successivamente, condurla verso il passo successivo del cammino. Serve allora tanto ascolto in atteggiamento di minorità che faccia sentire la persona accolta e apprezzata, cioè servita.
«L’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori. Solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita, si può risvegliare il desiderio dell’ideale cristiano, l’ansia di rispondere pienamente all’amore di Dio e l’anelito di sviluppare il meglio di quanto Dio ha seminato nella propria vita» (EG 171, corsivo mio).
L’accompagnatore è chiamato ad accogliere le confidenze che la persona gradualmente gli affida cercando di cogliere empaticamente quello che sente, accettando i suoi ritmi, magari ponendo qualche domanda-stimolo che invita al dialogo14, o anche riformulando e sintetizzando alcune affermazioni che la persona fa per incoraggiarla a continuare la sua auto-comunicazione, senza temere qualche momento di silenzio.
Quando ci mettiamo di fronte al mistero dell’uomo abbiamo bisogno di tempo perché si sveli a noi e perché noi siamo in grado di comprenderlo: è come un addomesticamento vicendevole.
La persona ha bisogno di tempo dilatato per farsi conoscere e incontrare, è necessario un atteggiamento di umiltà per comprendere il suo mondo interiore così ricco, talvolta così complesso. Anche una guida dotata di una buona intuizione psicologica deve imparare a “sospendere” le sue valutazioni e davvero ascoltare molto15. Deve avvenire nel tempo, con continuità e regolarità, per poter aiutare la persona accompagnata a sentirsi veramente tale e perché chi accompagna possa cogliere il ritmo del cammino con i suoi sviluppi, pause e rallentamenti.
Servono anche la libertà e la pazienza di camminare con la persona anche quando essa sembra allontanarsi dal cammino che i nostri schemi ritengono essere quello “giusto”. Il Vangelo ci presenta tanti fratelli e sorelle che si muovono nella direzione “contraria” (pensiamo ai discepoli di Emmaus, a Pietro che si ribella alla croce, a Marta che rimprovera Gesù perché non dice a Maria cosa deve fare…). È necessario mettere da parte i nostri giudizi e i nostri criteri di lettura delle situazioni che rischiano di assalirci prima ancora di ascoltare quello che l’altro abbia da raccontarci. Solo così il mondo interiore dell’altro ha la possibilità di emergere e di essere conosciuto. Dopo, solo dopo questo svelamento è possibile dire: «Stolti e tardi di cuore…», «Tu sei Pietro…», «Marta, Marta…».
L’accompagnamento ci offre cioè la possibilità di incontrare realmente un altro. E, proprio perché altro-da-me, non può non provocare meraviglia e timore, simpatia e resistenze insieme: se tutto andasse solo “bene” ci potrebbe essere il rischio di aver incontrato un altro-me-stesso e di non esserci accostati al suo mistero che, proprio perché tale, è differente da me.
La caratteristica sacrale di questa personale differenza richiede riservatezza, sia da parte della guida che da parte di chi è in cammino con lei.
Da parte della persona accompagnata essere riservata significa imparare a “tenere dentro” e non rivelare subito ad altri ciò che ha compreso della propria vita interiore e del proprio cammino con Dio, perché questo permette di incarnare le scoperte fatte e il consolidarsi graduale di motivazioni vocazionali profonde.
Da parte dell’accompagnatore la riservatezza è sia verso l’esterno (la persona accompagnata deve avere la sicurezza che quanto rivela non sarà comunicato ad altri senza il suo permesso), sia verso l’interno (nel colloquio non deve dire tutto quello che pensa e sente; deve essere discreta anche circa pur illuminate intuizioni sulla persona accompagnata per non “bruciare le tappe” e attendere possibilmente che la persona stessa maturi il passo da fare).
2.2 Verso l’unica lotta necessaria
Quando intraprendiamo un cammino di crescita normalmente affermiamo che vogliamo crescere. Siamo sinceri nelle nostre intenzioni, ma l’esperienza di ognuno di noi mostra che in realtà la speranza è che questo cammino non mi scomodi troppo. Cioè: ho le mie domande nelle quali mi accomodo… «Sì, non sto bene ma in fondo è una sofferenza che conosco, magari posso anche dire che non è colpa mia e affidare ad altri almeno una parte di responsabilità…». Insomma: «Possiamo convivere bene io e la mia lotta, in fondo non sto così male!».
Perché introdurre una novità che non so dove mi porterà? Siamo proprio così sicuri che bisogna “morire a qualcosa per vivere?”: sono domande che spesso si insinuano nel nostro cuore.
Ecco allora che, normalmente, la persona accompagnata si trova in una situazione conflittuale: cerca se stessa, la propria identità vocazionale, ma anche la propria soddisfazione immediata, a volte in uno stato adolescenziale di indecisione.
Servire la persona accompagnata vuol dire aiutarla a riconoscere le lotte e le ansie più o meno nascoste che si combattono nel suo cuore, perché nella libertà possa risaltare l’unica ansia necessaria, quella di incontrare il volto di Dio, illuminando ed elevando il problema psicologico affinché diventi autentica lotta religiosa, cioè matura tensione spirituale16.
Queste lotte non dobbiamo immaginarle lampanti, piuttosto spesso non sono consapevoli, ma non per questo meno attive e disturbanti.
Riprendiamo l’esempio di Sara. Vive una lotta interiore che muove un’ansia esigente: quante forze interiori sono dirottate inconsapevolmente per dimostrare qualcosa, mentre sinceramente cerca e crede di donarsi “tutta” al Signore. Ecco allora che l’individuare, gradualmente, le ansie solo umane permette, in sostanza, di liberare la persona da pesi inutili perché possa porsi autenticamente di fronte alla volontà di Dio su di lei, convertendo il suo conflitto psicologico in una lotta libera. Questo passaggio implica, nell’accompagnatore, la capacità di individuare correttamente i dinamismi psicologici, più o meno consapevoli, presenti nella vita dell’accompagnato e necessita di una competenza specifica.
È altrettanto importante che la persona in cammino si abitui a leggere nel proprio vissuto (storia passata, sentimenti e abitudini attuali) un mistero in azione, una ricchezza da scoprire, una iniziale rivelazione del proprio essere, in vista di una piena maturazione vocazionale: è quello sguardo positivo di “santa curiosità” di cui abbiamo parlato.
Partendo dalla vita concreta e da quello che la persona prova, chi accompagna cercherà di aiutarla a riconoscere oggettivamente i propri comportamenti e vissuti affettivi che li accompagnano.
Quando poi la relazione e la fiducia si rafforzano si può fare un passo ulteriore cercando di individuare anche gli atteggiamenti, cioè i modi abituali che la persona attiva nell’affrontare le situazioni di vita. Questo modo abituale è come un “genere letterario” molto personale che la persona ha consolidato nel tempo per scrivere la sua vita, dove sono coinvolte le dimensioni del pensiero, degli affetti e della volontà.
Scoprire il proprio “genere letterario” costituisce un passo importante perché apre ulteriori domande e la possibilità di una profondità ulteriore: capire come mai faccio proprio così, quali sono stati i condizionamenti della mia storia che mi portano ad agire così, cioè le motivazioni profonde che sono rimaste sconosciute.
Questo svelamento a se stessi, se da una parte libera, dall’altra di norma non avviene senza passare per la sofferenza di scoprirsi condizionati dai propri limiti, per un senso di diminuzione della propria stima alimentata finora dal modo di pensare ed agire ora scoperto un po’ più povero, cioè con una componente di immaturità rispetto agli ideali evangelici. Non si tratta solo di accettare i lati negativi, ma a volte anche quelli positivi che responsabilizzano (pensiamo a chi è paradossalmente gratificato dal lamentarsi e dal vedere quello che manca piuttosto che quello che c’è). In ogni caso, di fronte a questa nuova responsabilità da abbracciare, può nascere una certa resistenza e difensività, magari voglia di evadere e di non riconoscere quella motivazione immatura come veramente originalmente propria. È tentazione a portata di mano dire: «Beh, in fondo non sono peggio di altri, anzi…»; «Questo problema non è solo mio»… L’accettazione della verità di sé richiede tempo; non un tempo che semplicemente scorre, ma un kairos dove l’attrazione dei valori del Vangelo, la speranza e la forza che vengono dalla preghiera, assieme al sostegno dell’accompagnamento e delle relazioni significative, giocano un ruolo determinante. Il passo auspicato è l’accoglienza della dialettica personale come non estranea o marginale, ma come parte importante del proprio vissuto vocazionale.
La conoscenza di sé è di fatto a servizio della domanda vocazionale: «Signore, cosa vuoi che io faccia… di questa parte di me che non conoscevo?». Si radica in questa libera consegna di sé al Signore l’incontro con la sua Grazia che trasforma e dà vita nuova, che rende possibile ciò che la persona sperimenta impossibile modificare con le sue sole forze.
Certamente questo percorso inizia e si compie nello Spirito e grazie alle sue mediazioni, alla presenza adulta e comprensiva di chi accoglie con rispetto e competenza le confidenze senza scandalizzarsi della verità ascoltata. Questa vicinanza richiede all’accompagnatore di aver già fatto a sua volta il cammino, di essere consapevole della sua personale lotta e aver raggiunto una sufficiente stabilità emotiva e capacità di stare in quell’incertezza che affiora ogni volta che ci si accosta al mistero dell’interiorità dell’altro.
Pensiero conclusivo
Concludendo questo contributo, molto parziale nel tema così ampio dell’accompagnamento, sul quale mi è stato chiesto di concentrarmi, vorrei però rivolgere un pensiero a don Tonino Bello, nostro accompagnatore e maestro in questi giorni. Lui ci consegna uno strumento fecondo nell’accompagnamento vocazionale. È il linguaggio metaforico con il quale molto spesso le persone accompagnate si esprimono nel tentativo di capirsi e farsi capire meglio.
Sono espressioni preziose che ci permettono di entrare con delicatezza nel mondo interiore dell’altro e di sostenerlo nel loro cammino vocazionale.
E concludo con una sua espressione: solo se avremo servito potremo parlare e saremo creduti. L’unica porta che ci introduce oggi nella casa della credibilità è la porta del servizio.
NOTE
1 Cf A. Manenti, Comprendere e accompagnare la persona umana. Manuale teorico-pratico per il formatore psico-spirituale, EDB, Bologna 2013, pp. 7ss.
2 Dovremmo parlare qui di antropologia della vocazione cristiana e delle nozioni che ci offrono le scienze umane, sempre “serve” dello Spirito. Non sembra utile farlo in questa sede, ma ricordiamo che la pedagogia si basa su teorie che descrivono chi è la persona e come cresce. Per l’approfondimento: A. Manenti, Comprendere e accompagnare la persona umana, cit., p. 11.
3 Questa bella espressione è di Benedetto XVI nella Presentazione degli auguri natalizi della Curia Romana, Discorso del Santo Padre Benedetto XVI, Sala Clementina Venerdì, 21 dicembre 2012.
4 Ricordiamo la famosa espressione di Sant’Agostino: «[…] vorrei non ti aprissi altra via che quella apertaci da lui il quale, essendo Dio, ha veduto la debolezza dei nostri passi. La prima via è l’umiltà, la seconda è l’umiltà e la terza è ancora l’umiltà: e ogni qualvolta tornassi a interrogarmi, ti risponderei sempre così» in Sant’Agostino, Epistole, nn. 118,22 (corsivo mio).
5 Cf A. Manenti, Comprendere e accompagnare la persona umana, cit., pp. 11ss; cf Rm 7,14ss.
6 A. Louf, L’impossibile umiltà: un criterio certo di discernimento spirituale, in In Colloquio, a cura del Centro Aletti, Roma 1995, p. 141.
7 Su questo tema si può vedere un contributo non recente ma sempre attuale di A. Bissi, Educatore promotore di identità, in «Vita consacrata» 21 (1985), pp. 326-334.
8 R. Guardini, Lettere sulla autoformazione, Morcelliana, Brescia 1994, p. 7.
9 R. Capitanio, Dalle ferite della vita alle feritoie della grazia, in «Tredimensioni» 2 (2017), p. 141; cf anche Id., Le ferite della vita, in «Tredimensioni» 1 (2017), pp. 60-68.
10 P. Magna, La fragilità dell’Io: scacco o parte della sua maturità?, in «Tredimensioni» 11 (2014), pp. 317-324; cf GS 10.
11 Sinodo dei Vescovi, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, Documento Preparatorio n. 4.
12 Nell’accompagnamento chi guida non condivide apertamente il proprio pane, cioè la propria dialettica. Tuttavia condivide il pane nel senso che sa “sulla propria pelle” di cosa si tratta, lo ha già assaporato e rielaborato.
13 Cf A. Manenti, Comprendere e accompagnare la persona umana. Manuale teorico-pratico per il formatore psico-spirituale, EDB, Bologna 2013, pp. 53ss.
14 Possono essere utili alcune domande di chiarificazione. Ad esempio: hai detto che è stato bello l’incontro di preghiera. Prova a dire in che senso? / Cosa vuoi dire quando dici che sei infastidito? / Cosa hai pensato di fare quando hai ricevuto la notizia di…?. Sono domande aperte, cioè non implicano un sì o un no come risposta – ti sei arrabbiato? –, ma invitano la persona ad esplorarsi e a dare ragione delle sue affermazioni.
15 Questo non significa fare colloqui interminabili e molto frequenti, lo spazio di un’ora ogni tre/quattro settimane sembra quello adeguato perché non ci si perda in molte parole e il dialogo possa avere la caratteristica della profondità.
16 Cf F. Imoda, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, EDB, Bologna 2005, pp. 433ss.