Il senso della vita monastica
Questo libro si rivolge innanzitutto ai monaci. Vorrebbe semplicemente mostrare loro che la vocazione che hanno nella chiesa non è, e non è mai stata, una vocazione particolare. La vocazione del monaco non è altro che la vocazione del battezzato, ma vissuta nella dimensione, si potrebbe dire, della massima urgenza.
Chiunque si sia “rivestito di Cristo” (cf. Gal 3,27) si è sentito chiamato a cercare Dio, ma il monaco è colui per il quale questa chiamata è divenuta così pressante che la risposta non può essere rimandata a domani. Egli non attende che passi la scena di questo mondo per poter contemplare colui che dimora al di là, ma gli va incontro e, per incontrarlo già fin d’ora, abbandona tutto quello che fa parte di questo mondo.
Ciò significa che questo libro si indirizza anche, e nel contempo, a ogni cristiano. Se è vero che l’invito: “Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48) riguarda, in qualche modo, chiunque voglia essere figlio di Dio, si può rovesciare l’affermazione fatta sopra.
In ogni vocazione cristiana vi è il germe di una vocazione monastica che può svilupparsi in misura più o meno grande, e il suo stesso sviluppo può assumere molte forme diverse. Ora, il fatto è che non si può soffocare questo germe senza che con esso venga meno anche il principio della vita in Gesù Cristo. Infatti, non si può essere figli di Dio senza intendere nel più profondo del cuore, come Ignazio di Antiochia, la voce che grida: “Vieni al Padre” ed essere pronti a rispondere con una consegna totale di sé.
“Cercare Dio”, cercarlo come si cerca una persona, come la persona per eccellenza, e non solo come il “tu” sul quale riversare tutto il nostro amore, ma come l’“io” che si è rivolto a noi per primo, colui la cui Parola d’amore rivolta al nulla ci ha tratti dal nulla una prima volta, e rivolta al nostro peccato ci trae fuori dal nulla una seconda volta: essere monaco non è nient’altro che questo. Essere monaco significa dunque semplicemente essere cristiano, integralmente. E in questa prospettiva il cristiano è un uomo restituito dalla parola del vangelo alla vocazione che la Parola creatrice gli aveva assegnato: rispondere alla parola dell’agape con la parola della fede, per incontrare alla fine Dio, faccia a faccia. Commentando il Cantico dei Cantici, Origene afferma che la chiesa, nell’antica alleanza, aveva soltanto potuto ascoltare la voce dello Sposo, mentre nella nuova alleanza le viene offerta la visione del suo volto. E aggiunge che il divenire della vita cristiana consiste essenzialmente in questo passaggio. Il monaco è colui che non si limita ad accettarlo passivamente, con una certa inerzia, cedendo alla grazia quasi controvoglia. È colui che risponde con tutto il cuore alla chiamata nella quale egli ha compreso che Dio si coinvolge con tutto se stesso. È uno di quei violenti che non lasciano che il regno di Dio si abbatta su di loro quasi all’improvviso, ma che se ne impadroniscono in anticipo. Per questo egli ha rischiato il tutto per tutto, si è tagliato i ponti alle spalle. All’uomo che crede che la vita consista nell’“avere” può sembrare che il monaco abbia acconsentito ad una rinuncia mortale, o addirittura ne abbia preso l’iniziativa. Ma a chi sa che “essere” è più importante di “avere”, e che l’essere che vale non è quello che passa ma quello che rimane, il monaco appare come l’unico vero esperto in umanità. Perché l’uomo non nasce che dalla parola di Dio, e sarà completamente se stesso solo nel giorno in cui, liberato dal nulla che lo paralizza, consegnato alla Parola che lo genera, potrà finalmente scoprire il Volto che gli prometteva di esistere promettendogli la propria immagine.
L. Bouyer, Il senso della vita monastica, Qiqaion 2014, 15-17.47.
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