N.03
Maggio/Giugno 2019

La polvere e l’oro

L'impasto della vita

Le torri di Gerusalemme saranno ricostruite con oro
e i loro baluardi con oro purissimo. Tb 13,17

Quando le mani di Dio plasmarono l’uomo con la polvere del suolo, quando il soffio di Dio penetrò nelle narici della sua creatura, quando lo sguardo di Dio si posò su ciò che aveva fatto e quando lo stupore e la benedizione di Dio emersero dalle sue labbra, noi eravamo già fragili.

Quando Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, quando Dio vide che non era bene che l’uomo fosse solo, quando Dio fece scendere un torpore sull’uomo e formò con la costola dell’uomo una donna per condurla a lui, noi eravamo già fragili.

E a custodia della nostra fragilità, a protezione di quell’impasto di terra di cui siamo fatti, Dio diede un comando, una sola obbedienza: non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male.

Ma noi eravamo già fragili.

 

Fragile è una parola che rimanda allo spezzarsi con facilità: dal latino fragĭlis, derivato da frangĕre, cioè rompere. È dunque fragile l’oggetto, o il soggetto, che oppone scarsa resistenza all’urto, al male fisico o morale; è colui che è debole o poco fermo. È anche ciò che è mal costruito o poco convincente, fallace e inconsistente; ovvero, caduco, fugace.

Ma non è tutto qui. Sollevando di poco lo sguardo dall’accezione negativa a cui questa inconsistenza ci porta a pensare, comprendiamo che ciò che rischia di spezzarsi con facilità è anche ciò che ha bisogno di essere maneggiato con riguardo; quello che è gracile deve essere protetto con attenzione e ciò che è debole va custodito con cura.

In senso analogico e liberante la fragilità che caratterizza la nostra creaturalità evoca delicatezza, sensibilità, gentilezza, discrezione, cura; racconta le stagioni della vita con le loro fatiche, la dipendenza tenera di un neonato, l’indecisione inquieta di un giovane, la salute cagionevole di un anziano.

La sorpresa che ci attende nell’annuncio della nostra fede e nell’incontro con Dio è che al Signore, padre e creatore, che ci ha fatto poco meno di un dio e ci ha coronato di gloria e di onore (cf. Sal 8,6) che ci ha rivestiti di una forza pari alla sua e formati a sua immagine (Sir 17,3), non procura scandalo la nostra debolezza, la caducità a cui ci sottopone quasi ogni evento della vita, perché lui dona e ama il soffio che siamo (cf. Sal 62,10), misura in pochi palmi i nostri giorni ed è sempre con noi (cf. Mt 28,20).

Lui, che ci ha disegnato sul palmo delle sue mani (cf. Is 49,16), che ci ha ricamato nelle profondità della terra (cf. Sal 139,15) e per il quale nemmeno un capello del nostro capo andrà perduto (cf. Lc 21,18), rimane fedele alla sua alleanza e proclama: Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva d’Israele; io vengo in tuo aiuto (Is 41,14), tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo (Is 43,4).

 

“Tu sei il Dio degli umili – canta Giuditta in una delle più belle professioni di fede contenute nella Scrittura – sei il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati” (Gdt 9,11).

Umili, piccoli, deboli, sfiduciati, disperati: ecco chi sono i fragili di Dio, noi.

E Dio sa che ci rompiamo con facilità e che trascorriamo del tempo della nostra vita a cercare e a raccogliere porzioni disperse di noi, che spesso ci appaiono troppo frammentate per poter tornare a fare unità.

L’esperienza di tutti quando qualcosa si rompe, se è qualcosa di necessario e di recuperabile o a cui siamo affezionati, è di essere portati a trovare il modo per incollare le parti separate dall’urto con sistemi di fissaggio minimalisti che evitino a tutti i costi l’evidenza della rottura; scegliamo la colla più trasparente e tenace, nascondiamo il più possibile ogni sbeccatura, facciamo finta che non sia mai accaduto e che tutto sia come prima. Nelle ipotesi peggiori, gettiamo via i cocci, con rammarico, ma facendocene una ragione: compreremo una cosa nuova.

E se facessimo altrimenti? Se potessimo recuperare i frammenti sparsi per accostarli nuovamente e, con un impasto di colla e polvere d’oro, ricomporre l’oggetto, spalmando sulle fratture l’impasto dorato e così ricongiungere le parti?

Il risultato sarebbe un oggetto diverso da quello di prima: tra i pezzi dispersi il nuovo contatto diventerebbe segnato in modo indelebile da un rigagnolo d’oro che sgorga luminoso dalla ferita. Un oggetto unico, un’opera d’arte di grande bellezza che prima poteva essere “solo” un vasetto come tanti.

E ora immaginiamo le mani di Dio che plasmano la vita: ne vediamo la fragilità e la vediamo ferirsi e a volte spezzarsi. Vediamo l’urto del peccato e le sbeccature del male, le crepe del dolore. Vediamo rompere e rompersi legami, cuori e corpi.

Ma di nuovo e ancora vediamo le mani di Dio all’opera; contempliamo l’oro della Grazia, la vita del Figlio ricongiungere le nostre povere parti; vediamo la colla, la nostra natura, le nostre energie, la nostra forza e la nostra fede miscelarsi con l’oro della vita di Cristo, della Parola, dei Sacramenti, della comunione fraterna. Vediamo i pezzi riunirsi e le ferite risplendere d’oro.

Vediamo le ferite, sì, ma anche tutto il resto: il vaso rinnovato dalla Grazia. Un capolavoro.

 

Accade così che, quando l’oro della vita di Gesù tocca le persone, le guarisce, rende loro vita e salute, ma mai toglie la memoria del dolore o il segno della ferita, la consapevolezza della fragilità. Non guarisce forse così l’emorroissa del Vangelo? Non è risanata così la donna curva? Non vediamo l’oro nell’anima perdonata dell’adultera? E Levi? E Zaccheo? Non conoscono forse l’oro della misericordia che aggiusta con arte la loro vita? E i discepoli, con le loro fragilità sempre manifeste, non sono forse raggiunti dall’oro della luce del Risorto che, rendendoli saldi, li farà testimoni fino al dono della vita?

Ecco in Gesù il buon samaritano che vede le nostre ferite e ne ha compassione. Non passa oltre alle nostre visibili fragilità ma le prende sul serio. Ci si fa vicino e ci fascia, ci carica su di sé e ci porta nella Chiesa, prendendosi cura di noi (cf. Lc 10,33-34). Come un artigiano, un orafo, con pazienza, con vera passione per la sua arte. Pezzo dopo pezzo ci ri-unisce e ci ri-mette in piedi. Perché lui è venuto a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati (cf. Is 61,1);  a risanare i cuori affranti e fasciare le loro ferite (cf. Sal 147,3).

Con un monito soltanto: va’ e non peccare più (Gv 8,11), prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua (Lc 5,24). Come a dire: ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere (Dt 8,2)!

 

Accompagnare, formare e far fiorire la vocazione è partecipare a quest’opera artigianale di Cristo che ri-trova, ri-conduce, ri-congiunge i pezzi separati del cuore, i frammenti dolorosi della vita per ri-portare all’unità, a quel monos tanto caro alla vita monastica e a tutta la vita cristiana. Impastare la realtà di chi ci è affidato nel cammino, la terra di cui siamo fatti, con l’oro della Grazia di Dio e credere che questo sia il solo collante che tiene insieme la vita, che le dà senso e fondamento, valorizzare le ferite, evangelizzandole per dare ad esse nuova forma e composizione è un’arte preziosa in questo tempo.

Apparirà il Risorto con le sue piaghe, non invisibili, ma nitide fino a potersi toccare (cf. Gv 21,27). Le immaginiamo ancora una volta bagnate d’oro, di quell’oro che vediamo risplendere nelle icone della risurrezione sulle mani e sui piedi di Gesù. Ferite trasfigurate, le sue, così come lo saranno le nostre.

Al termine della nostra vita, nel momento della morte, con il Signore Gesù aggiungeremo l’ultimo frammento, quello che renderà l’opera compiuta, finalmente riunificata. Allora sarà tutto oro, come la piazza della città di Dio, la Gerusalemme nuova, dove Colui che siede sul trono dirà: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).