Il mio regno per 140 caratteri
La tribuna 3.0 non è più sull’angolo di una piazza o ai tavolini di un bar, è tutta in 140 o 280 caratteri. Laddove era necessario far sfoggio di magna eloquenza, è oggi invece indispensabile esibire il dono della sintesi. Se la competenza langue, si supplisca con la veemenza. Se l’argomentazione non può essere esaustiva, almeno sia efficace: manca il pane? Che mangino le brioche.
Nato nel 2006, Twitter è cresciuto fino a diventare la piattaforma “d’eccellenza” per diverse figure influenti in tutto il mondo, dai politici ai giornalisti. E i dati del 2019 rivelano che sono ben 139 milioni gli utenti giornalieri. Ecco, è qui, forse, che si crea il paciugo: si è in tanti, ciascuno indubitabilmente in possesso di verità specifica e ognuno in diritto di volerla assolutamente spiegare agli altri.
L’uccellino azzurro che nelle intenzioni dei creatori voleva essere un servizio di “notizie e microblogging”, è diventato il campo di battaglia in cui quotidianamente si combattono le più aspre dispute a colpi di cancelletti e di espressioni forti.
Moltissimi sono gli ambiti positivi in cui Twitter è vissuto e interpretato correttamente come strumento di giornalismo partecipativo (pensiamo alle catastrofi naturali o alle varie “primavere”), di informazione mirata (ci sono account di storia, filosofia, cinema, scienze così accurati e coinvolgenti che ti fanno venir voglia di studiare), di servizio e comunicazione con la clientela (sì, è vero, non tutte le aziende sanno come funziona). Troppi invece sono i casi in cui diventa soltanto una modalità per litigare più in fretta e con più persone contemporaneamente. Senza contare i casi di cosiddetto “uso improvvido” in cui cinguettare una notizia non ufficiale o lanciarsi in considerazioni improbabili ha causato enormi danni morali e materiali. O quelli in cui i tweet dell’uno o dell’altro politico (a continenti alternati), dettano l’agenda politica e orientano il dibattito senza che vi sia un vero contraddittorio, ma soltanto una serie di risposte, più o meno civili, che più che la costruzione, alimentano la confusione. Non solo, l’anonimato presunto apre le gabbie degli istinti peggiori che tendono a sfociare nell’autodeterminazione dell’insulto più becero e violento. Così, nel magico mondo dell’uno-vale-uno-non-importa-cosa-hai-fatto, un intellettuale diventa un bufalaro, una donna automaticamente una poco di buono, uno scienziato il bersaglio di quelli che “l’università della vita”.
Stante il fatto che il disagio andrebbe curato in luoghi appositi e non lasciato libero di propagarsi, il timore è che la piattaforma di partecipazione più snella, efficace e capillare serva poi più che altro a comunicare, ancora una volta, se stessi. Nell’età dell’egotismo spinto, viene buono il consiglio paolino di tornare alla “modestia di mente”; certo che ce la mettono proprio tutta per renderci arduo assumere “che gli altri siano superiori a noi”.