Fino all’orlo (Gv 2,7b)
Il vangelo dice così, che i servi riempirono le anfore fino all’orlo, con una espressione che non solo non si trova altrove nei vangeli, ma neppure in tutta la Scrittura. Dovrà pure voler dire qualcosa. Perché è un fatto che il riempimento serve, a livello narrativo, a prevenire i dubbi sulla effettività del miracolo (il vino non è stato aggiunto dopo, di nascosto). Ma è anche la risposta della servitù al comando che Gesù ha rivolto loro di riempire le anfore: il signore le desidera piene? Ecco fatto, fino al collo delle giare. Che poi vorrà dire fare più fatica al momento di trasportarle; ma vediamo come va a finire questa faccenda. Se la storia la leggi nella prospettiva dei servi, capisci che anche loro erano pieni di curiosità, fino all’orlo. Ma proprio perché sono servi, non possono prendersi il lusso di fare domande. Faranno da spettatori come quei loro antenati che sul monte Carmelo vennero invitati dal profeta Elia a bagnare la catasta che doveva servire per il sacrificio senza appiccare il fuoco. Non una, non due, ma tre volte (1Re 18,34). I miracoli spesso rappresentano una sfida, una corsa verso un limite da superare. Se lo scopo fosse soltanto quello di stupire, una brocca trasformata in Tavernello sarebbe stata più che sufficiente. Ma se il miracolo è dono, dice qualcosa che ha a che fare con chi dà e chi riceve, implica una relazione. Più avanti, in questo vangelo, si affermerà che Gesù, l’inviato dal Padre, è colui che dà lo Spirito “senza misura” (Gv 3,34). A noi verrebbe da pensare che se qualcosa viene dato con una liberalità che rasenta lo spreco deve essere qualcosa di poco conto e invece, guarda un po’, si dà con abbondanza ciò che è ritenuto essenziale. Lo pensavano anche quei rabbini che dissero che tutto ha un limite, il cielo e la terra, ma una cosa soltanto non ha limite. Che cosa? La Torah (Genesi Rabba 10,1). Per Gesù anche il perdono non ha misura, arriva fino a settanta volte sette (Mt 18,22). Un grande Dio non gioca al risparmio, non corre il rischio che qualcuno la possa accusare di taccagneria. Ne sa qualcosa il buon Mosè che, di fronte alla promessa divina di saziare un popolo di seicentomila adulti con un mese di provvigione di carne, interpreta la cosa come una boutade. E qui la replica di Dio è memorabile: “Il braccio del Signore è forse raccorciato?” (Nm 11,23). Tu pensa a fare il tuo mestiere di ambasciatore che a quello di Dio ci penso io, descànsate niño. Perciò non ci stupiremo che anche il Figlio sia all’altezza della situazione: un pranzo sull’erba per cinquemila uomini (Gv 6,10), una colazione sulla spiaggia a base di centocinquantatré grossi pesci (Gv 21,11). Se c’è qualcosa che può ostacolare la generosità divina è solamente la sfiducia umana. Non quella che porta a interrogarsi sulle modalità con cui Dio provvederà a quanto è necessario, ma quella che rifiuta la collaborazione e che rinchiude nella passività: tanto non succederà mai niente. Sappiamo che c’è modo e modo di obbedire e, per esempio, coloro che accettano di mostrare la moneta del tributo a Gesù che la richiede (Mc 12,15-16) non sono affatto bendisposti nei suoi confronti, ma devono stare al gioco per cercare di avere una risposta dall’interpellato. Eseguire semplicemente un ordine non dice nulla delle disposizioni di un servo, ma il come può diventare determinante. Ecco perché l’obbedienza dei servitori di Cana è una salutare provocazione. Alzare la posta vuol dire accettare la sfida, spingere Dio a essere quello che vuole essere. Noi abbiamo fatto la nostra parte, adesso vediamo tu cosa sai fare. Con la stessa sfacciataggine di quel lebbroso che punzecchia Gesù dicendogli: “Se vuoi, puoi purificarmi” (Mc 1,40). Non è che metta in discussione il potere di Gesù, ma nientemeno che la sua intenzione di guarirlo. So che sei potente, ma sei anche buono? Eppure se ne tornerà a casa con la pelle risanata, perché l’arroganza può pure essere un peccato, ma non grave quanto l’incredulità.