Gioia piena alla Tua presenza (Sal 15,11)
C’è una parola alla quale tutti siamo sensibili e questa parola è gioia, perché è quel che cerca il cuore di ogni uomo. La gioia dice una vita piena, una vita che ha senso, una vita degna di essere vissuta! Per questa gioia si muovono dei passi, per questa gioia si intraprendono cammini.
Di questa gioia si ha una sete infinita perché essa è l’espressione del volto di Dio, il volto che il nostro cuore cerca.
Di te ha detto il mio cuore, cercate il suo volto: il tuo volto, Signore, io cerco[1].
E quando si incontra Dio, comprendiamo cosa è, o meglio, Chi è la vera gioia, quella profonda, che pacifica, che apre a nuovi orizzonti, che ci custodisce nello stupore e che, con i salmi, ci fa dire: in Dio riposa l’anima mia[2].
Il monaco è un uomo alla ricerca – un “cercatore di Dio” – qualcuno che prova a far spazio al desiderio che Dio stesso ha posto nel cuore di ogni uomo e perciò non si differenzia da un credente, da un battezzato.
Allora che senso ha la vita monastica? Che cosa la caratterizza?
La vita monastica non ha alcun senso, non ha nessun compito specifico! La vita monastica è semplicemente un “essere alla presenza” di Colui che è presente a noi, il Dio con noi! Gratuitamente, come gratuito è l’amore di Dio!
Un essere “alla presenza” che prende forma attraverso quattro “luoghi” che i nostri padri ci invitano a frequentare: il silenzio, la preghiera, la vita fraterna, l’accoglienza.
Il silenzio
Capita che la grazia [divina]… lo porti via … nelle gioie del silenzio; e che là, per un momento, l’Essere stesso si offra alla sua contemplazione così com’Egli è [3].
Il Silenzio è una casa per Dio! Dio abita il Silenzio! La Sua Voce e la Sua Presenza si percepiscono quando tutto tace, dentro e fuori, e l’essere davanti a Lui trasforma le nostre vite a Sua immagine. Il monaco cerca di custodire questo silenzio, per custodire la presenza di Dio nella sua vita e in quella di quanti lo cercano, venendo a bussare alla nostra porta e a pregare con noi.
La preghiera
“Ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3, 29)… L’amico sta: non si muove, non scivola via, non si stende, ma sta. Perciò uno degli amici dello sposo dice: “Vivo è il Signore, alla cui presenza io sto” (1 Re 17,1). Beato chi sta alla presenza del Signore![4]
Sette volte al giorno la nostra comunità del monastero Dominus Tecum di Pra ‘d Mill si riunisce in preghiera, ma la vita di preghiera non è solo limitata a quei momenti. Preghiera è atto di presenza, è dialogo – cuore a cuore – è pensare e parlare continuamente al nostro Dio che infinitamente ama e che desideriamo amare, pur nella nostra povertà e piccolezza. È un continuo ritornare a Lui nell’ascolto prolungato delle Sacre Scritture, nella solitudine della cella o negli atti della vita comune; è tornare a Lui con il nostro pensiero e il nostro cuore durante le attività del lavoro; è tornare a Lui nel riconoscere nel fratello la presenza di Dio che mi viene incontro. È preghiera di lode, di benedizione, di stupore, ma anche di intercessione.
Misteriosamente, siamo alla presenza di Dio non solo per noi stessi, ma per tutti i nostri fratelli e sorelle in umanità di cui condividiamo gioie e dolori. La nostra vita, infatti, è una vita normale, come quella di ogni battezzato, fatta di lavoro, di tempo di riposo, di occasioni di incontro e distensione, una vita vissuta consapevolmente davanti a Dio… e in questa vita portiamo la vita di tutti!
La vita fraterna
Il chiostro è un paradiso… è una cosa gloriosa che abitino nella stessa casa uomini uniti da un medesimo genere di vita; è bello e gioioso che i fratelli abitino insieme.[5]
Viviamo in comunità ed il Signore ci offre l’opportunità di riconoscerlo nel fratello che ci pone accanto. Hai visto il tuo fratello, hai visto il tuo Dio[6] diceva Clemente Alessandrino. Il fratello che sono chiamato ad amare, a rispettare nella sua diversità, ad aiutare nei momenti di difficoltà, è anche il fratello che mi aiuta a crescere, a correggere i miei sbagli, a divenire segno di misericordia del Padre, a rialzarmi. Come affermavano i nostri padri cistercensi, la vita comune diviene una schola caritatis, un luogo dove impariamo ad amare come Dio ha amato[7].
Durante il rito di professione solenne c’è un gesto molto bello e significativo: il nuovo monaco professo solenne si inginocchia davanti a tutti i fratelli della comunità e, chiedendo preghiere, è aiutato dal fratello a rialzarsi! è un gesto che esprime la bellezza della vita fraterna. Sì, vivere tra fratelli è una grazia! Non è sempre facile, ma ne vale la pena!
L’accoglienza
Tutti gli ospiti che si presentano siano accolti come Cristo.[8]
Questo è l’invito di san Benedetto: guardare il fratello e la sorella che bussa alla nostra porta come il Cristo che si presenta nella figura del povero, bisognoso di un aiuto materiale o di un conforto spirituale; del Cristo che si presenta nella figura del pellegrino, alla ricerca di una patria o di un senso nell’articolato svolgersi della vita; del Cristo che si presenta nella figura del discepolo, che cerca una oasi dove poter rigenerare le forze e ripartire con slancio nella missione a lui affidata nella costruzione del Regno di Dio; del Cristo che si presenta in chi è semplicemente altro da me e che mi chiede di accogliere sguardi diversi sulla vita, sul mondo e sulla storia, che mi invita a custodire un “oltre” che non mi appartiene e che solo posso imparare a ricevere, giorno dopo giorno.
Il monastero, dimora che appartiene a Dio, deve divenire il luogo in cui tutti possono incontrarlo, in cui tutti devono sentirsi a casa!
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[1] Sal 26,8.
[2] Sal 61,1.
[3] Guglielmo di St.Thierry, Lettera d’Oro, 269.
[4] Ælredo di Rievaulx, Sermone XIV, Nella nascita di Giovanni Battista, 18.
[5] San Bernardo, Sermoni Diversi, Sermone 42,430.
[6] Clemente di Alessandria, Stromata, I, XIX, 94,5.
[7] André Louf affermava: «I monaci cistercensi pretendevano d’essere delle Scholae caritatis, scuole della carità nelle quali si imparavano i segreti dell’amore divino e le meraviglie dell’amore tra i fratelli»: La via cistercense. Alla scuola dell’amore, Borla, Roma 1990, 27.
[8] Regola di San Benedetto, 53,1.