Attilio Giordani
Vivere è “dare Gesù”
Il 21 giugno 1972 parte da Genova la “Giulio Cesare”: diretta in Brasile, trasporta 200 casse per l’“Operazione Mato Grosso”, un’iniziativa missionaria finalizzata all’aiuto ad alcuni dei poveri tra i più poveri. Con quelle grandi casse piene di materiali, su una nave scelta perché più economica di altre, viaggia anche Attilio Giordani, che a 59 anni sceglie di separarsi dalla sua Milano e si mette a disposizione della gente di Poxoreo: Brasile, Stato del Mato Grosso, dove la gente si rompe la schiena a setacciare le sabbie dei fiumi alla ricerca dei diamanti – i garimpo che sono valutati più delle delle vite umane, non generano un reale benessere, ma attivano piuttosto dinamiche di sfruttamento e sopruso –. Le popolazioni locali vengono intanto compresse e disprezzate dai fazendeiros, in un contesto privo di veri valori, dove la violenza si intreccia alla disperazione e la stessa sopravvivenza fisica è spesso a rischio. Alcuni mesi più tardi vi si ritroverà Attilio – che era partito con il taglio di capelli in ordine e la tipica efficienza di un ex impiegato di lungo corso al “Pirellone” – con la barba lunga: venuta fuori tutt’a un tratto bianca. Perché Attilio – che la lunga barba, lo sguardo buono e quella sua inimitabile capacità di dare Gesù avrebbero potuto far passare per un prete – non era un prete, né un religioso: ma un semplice laico di scarsi studi, che in epoca preconciliare aveva forse pregato con un latino tutto suo (se “sursum corda” veniva da lui tradotto “su su la corda”!, ma, pur sempre, quale incoraggiamento) e più tardi non s’era mai abituato a un bel parlare che gli era del tutto estraneo. Attilio era un papà di famiglia: e in Brasile ci andava con la moglie Noemi, per condividere la scelta coraggiosa dei figli che in anni non facili, ancora impregnati dello spirito della Contestazione, avevano optato per un’esperienza diversa. È quindi un missionario laico, Attilio: parte per continuare a fare il papà, il catechista, l’animatore; per affiancare i figli senza diventare però protagonista d’una scelta che era la loro. Parte per continuare ad essere, anche, padre di figli non suoi: una vocazione cominciata tra le vie del quartiere stretto attorno al lato sinistro della Stazione Centrale di Milano, con la parrocchia salesiana dedicata alla Conversione di Sant’Agostino al centro. Qui Attilio aveva vissuto un itinerario di conversione intriso nella pazienza dei giorni ed educato alla scuola della sofferenza. Attore sul palco per amore degli altri, Attilio inizialmente ne ebbe paura – come tornò poi ad averne in Brasile –: e più volte fu sorpreso a pregare dietro le quinte, chiedendo magari una forza che non trovava da sé. Professionista che cambiò alcuni lavori prima di approdare a quello definitivo, conobbe la scarsa retribuzione e la fatica di arrivare a fine mese anche per una generosità – senza imprudenze – aperta agli ultimi. Giovane vivace, si scontrò con la fragilità psichica della mamma, la vide ammalarsi, capì che non sarebbe più potuta guarire, dovette andare a trovarla per anni in una struttura mentre a casa restava il papà e le vite dei due fratelli Giordani più grandi – Attilio e la sorella Angelina – si trovarono anche “vocazionalmente” compresse: Attilio fece da padre al fratellino più piccolo, Camillo; Angelina poté consacrarsi solo dopo molti anni. Soldato in guerra, sperimentò la durezza del fronte, riuscendo a inventarsi un’improbabile “unità di vita” tra l’armeggiare al cannone e il continuare a pregare; «Nel rosario questa sera ricordiamo i nostri morti», scriveva un giorno nel suo diario l’artigliere Giordani. C’è così come una costante nella vita di Attilio che sembra dire: ‘le cose più belle io le ho fatte nelle sofferenze più grandi’. Si legge in una testimonianza: «Era […] un “bravo ragazzo di famiglia” […]. Su questa bontà naturale, senza crisi né sobbalzi, crescerà anno dopo anno una vita cristiana soda, fondata sulla preghiera, sul sacrificio (i tempi liberi passati accanto alla mamma inferma) […]».
Diventa dunque proprio la preghiera il segreto di Attilio: fedelissima, costante, difesa con una certa fermezza, mai in conflitto con i propri doveri di stato. Tutte le mattine, per esempio, Attilio partecipa alla Messa, prega sul Vangelo; e durante la giornata non mancava la visita al Santissimo, né la devozione alla Madonna: ma prima di andare a Messa, sveglio all’alba, faceva i mestieri di casa, sollevando così la moglie dalle incombenze più pesanti. Poi la Messa, la preghiera. E solo dopo – quando ancora la mattina era iniziata da poco – cominciava la sua operosa giornata: c’era un ordine, in Attilio, una vocazione alla famiglia che deboradava verso una paternità più ampia attraverso la famiglia stessa. Attilio sarà sempre e solo un giovane, un fidanzato, uno sposo e un padre, e la radice di tutto il resto troverà qui il suo segreto. Così, quando la fidanzata Noemi – dopo averlo un po’ frequentato – coglie come un divario tra loro, un «abisso di bontà» che la spaventa (e comincia persino a pensare che sposarsi non fosse la vocazione giusta per Attilio, che dovesse lasciarlo libero), lui le risponde con una magnifica lettera. Comincia in tono scherzoso, com’era suo solito, ma l’argomento è invece serissimo: «Siccome tu sai che il primo requisito per diventare santa è di essere morta, ti pregherei proprio di attendere qualche centinaio di anni […] vuoi che te lo dica in faccia che la mia felicità, con l’aiuto di Dio, sarai tu?». Le ribadisce quindi, a distanza di qualche giorno: «Non diventarmi santa in un colpo solo, perché i progressi miei spirituali sono piccini assai e temo che, se tu vai troppo in alto, dovremo tirare una linea telefonica per stare in comunicazione». Era la consapevolezza che non fosse vera quella santità che allontana dagli altri: al contrario, la carità si abbassa, unisce, facilita, guarda al bene e vi guadagana l’altro. ‘Nella vita’ – spiega Attilio in Brasile il 18 dicembre 1972, – ‘non serve tanto il dire le cose che dobbiamo fare. Non serve tanto il predicare, conta ciò che si fa. Bisogna dimostrare con la vita ciò in cui crediamo. Non ci sono prediche da fare. La predica è vivere’. Pochi istanti dopo, improvvisamente, nasce al cielo. Il suo cuore, che già aveva fatto preoccupare anni prima con un infarto, aveva smesso di battere.
Attilio, papà di famiglia, è stato dichiarato Venerabile nel 2013. Oggi continua a essere d’esempio per molti, maestro nel “dare Gesù” perché lo si vive. Ricorda un prete salesiano: «L’amore del Signore operava in lui veri prodigi. Sinceramente sono vissuto accanto a lui persuaso di essere con un santo». Così Attilio, magro magro, con un naso imponente, attore che aveva avuto paura del palco, signore semplice e non particolarmente abile con le parole, piaceva perché – paradossalmente, ma non troppo – quello che attirava in lui non era Attilio: ma Gesù.
«Il Signore ci aiuti a non essere dei buoni alla buona,
a vivere nel mondo senza essere del mondo,
ad andare contro corrente»
Da una lettera di Attilio alla fidanzata Noemi
Attilio Giordani nasce a Milano il 3 febbraio 1913 e muore in Brasile il 18 dicembre 1972. Ragazzo cresciuto dai Salesiani di Milano, animatore d’Oratorio, catechista, attivo in Azione Cattolica, soldato durante la guerra, poi professionista e soprattutto sposo e padre di tre figli, Attilio attraversa quasi sei decenni del Novecento senza che nulla, in apparenza, lo distingua dagli altri. È un “laico impegnato” la cui serietà nel vivere la lettera del Vangelo – a partire da alcune sue impegnative pagine, come la condivisione dei beni e l’aiuto al povero – si fonde con l’invariabile allegria che è anzitutto dono di Dio e segno della sua pace: la sua “Crociata della bontà” farà storia in Italia. Tra le pieghe d’una vita ordinaria e bellissima, si tesse intanto la storia della sua santità. Per meglio conoscerlo: Teresio Bosco, Attilio Giordani una vita donata. Una piccola biografia, Elledici, Torino 2001; Vittorio Chiari, Attilio Giordani. Un Angelo di seconda categoria, Centro Ambrosiano, Milano 2011.