Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore
Il numero 4 della rivista esce nel cuore dell’estate. Viene ricevuto in un periodo in cui forse è più facile trovare un momento per riflessioni “di fondo”. Magari durante un corso di Esercizi spirituali o un campo vocazionale o – perché no – durante la sosta di una passeggiata in montagna, come ama fare il Papa, o al fresco della sera dopo una giornata al mare… un numero come questo arricchisce e fa davvero pensare. Ci sono temi su cui ogni tanto dobbiamo tornare: segnano il cammino e il passo. Questo forse è il tema su cui dobbiamo tornare più spesso perché nella nostra cultura si fa di tutto perché la mente non ci si posi e il cuore non ci si confronti. Il mistero della morte che da senso alla vita ed una vita che acquista ogni giorno di più senso se si rapporta al mistero della morte è il vero argomento al centro di questo numero.
Chiamati alla vita. Sì ma quale? Chiamati all’amore: sì ma quale? Le vie dell’amore: sì ma quali? Quale vita è certa di essere riconosciuta come quella del “servo buono e fedele” e spalanca le porte della Vita?
Nel messaggio inviato qualche anno fa dal Papa al Congresso Europeo che si celebrava a Roma si legge ancora con immutata attualità e bellezza:
La vita ha una struttura essenzialmente vocazionale. Il progetto che la riguarda, infatti, affonda le radici nel cuore del mistero di Dio: “in Lui – in Cristo – Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1,4). Tutta l’esistenza umana, pertanto è risposta a Dio, che fa sentire il suo amore soprattutto in alcuni appuntamenti: la chiamata alla vita; l’ingresso nella comunione di grazia della sua Chiesa; l’invito a rendere nella Comunità ecclesiale la propria testimonianza a Cristo secondo un progetto del tutto personale e irrepetibile; la convocazione alla comunione definitiva con lui nell’ora della morte. Non v’è dubbio pertanto che l’impegno della Comunità ecclesiale nella pastorale vocazionale sia uno dei più gravi e urgenti. Ogni battezzato, infatti, deve essere aiutato a scoprire la chiamata che, nel progetto di Dio, gli è rivolta e a rendervisi disponibile. Sarà così più facile, a chi è destinatario di una vocazione particolare a servizio del Regno, riconoscerne il valore ed accettarla generosamente. Non si tratta, infatti, di educare le persone a fare qualcosa, bensì a dare un orientamento radicale alla propria esistenza ed a compiere scelte che decidono per sempre del proprio futuro (Giovanni Paolo II, Messaggio al Congresso Europeo, 29 Aprile 1997, n. 2).
Nel documento conclusivo dello stesso Congresso Europeo “Nuove vocazioni per una nuova Europa” fa riflettere un passaggio del n. 11 c che constata con amarezza e realismo:
Fa un’immensa tristezza incontrare giovani, pur intelligenti e dotati, in cui sembra spenta la voglia di vivere, di credere in qualcosa, di tendere verso obiettivi grandi, di sperare in un mondo che può diventare migliore anche grazie ai loro sforzi. Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco e nel dramma della vita, quasi dimissionari nei confronti di essa, smarriti lungo sentieri interrotti e appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale. Senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che tutt’al più, sarà una fotocopia del presente.
E non si può che continuare affermando al n. 12 che:
Tutto questo apre nuove strade e chiede nuovo impulso allo stesso processo di evangelizzazione della vecchia e nuova Europa…Specie attorno a questi punti si concentrano la tensione e la sfida. Di qui dipendono l’immagine d’uomo che si vuole realizzare e le grandi decisioni della vita, del futuro della persona e dell’umanità: dal significato della libertà, del rapporto tra soggettività e oggettività, del mistero della vita e della morte, dell’amare e del soffrire, del lavoro e della festa. Occorre chiarire la relazione tra prassi e verità, tra istante storico personale e futuro definitivo universale o tra bene ricevuto e bene donato, tra coscienza del dono e scelta di vita. Noi sappiamo che è proprio attorno a questi punti che si concentra anche una certa crisi di significato, da cui derivano poi una cultura antivocazionale e un’immagine d’uomo senza vocazione. Dunque di qui deve partire o qui deve approdare il cammino della nuova evangelizzazione, per evangelizzare la vita e il significato della vita, l’esigenza di libertà e di soggettività, il senso del proprio essere al mondo e del relazionarsi con gli altri. Di qui potrà emergere una cultura vocazionale e un modello d’uomo aperto alla chiamata. (…) Possiamo anzi dire che la vocazione è il cuore stesso della nuova evangelizzazione alle soglie del terzo millennio, è l’appello di Dio all’uomo per una nuova stagione di verità e libertà, e per una rifondazione etica della cultura e della società europea…
Al n. 13 l’argomento prende accenti ancora più precisi e concreti in ordine al nostro tema:
Questi elementi stanno progressivamente penetrando la coscienza dei credenti, ma non ancora fino a creare una vera e propria cultura vocazionale, capace di varcare i confini della comunità credente. Per questo il S. Padre, nel suo Discorso ai partecipanti al Congresso auspica che la costante e paziente attenzione della comunità cristiana al mistero della divina chiamata promuova una “nuova cultura vocazionale nei giovani e nelle famiglie”. Essa è una componente della nuova evangelizzazione. È cultura della vita e dell’apertura alla vita, del significato del vivere, ma anche del morire. In particolare fa riferimento a valori forse un po’ dimenticati da certa mentalità emergente (“cultura di morte”, secondo alcuni), come la gratitudine, l’accoglienza del mistero, il senso dell’incompiutezza dell’uomo e assieme della sua apertura al trascendente, la disponibilità a lasciarsi chiamare da un altro (o da un Altro) e a farsi interpellare dalla vita, la fiducia in sé e nel prossimo, la libertà di commuoversi di fronte al dono ricevuto, di fronte all’affetto, alla comprensione, al perdono, scoprendo che quello che si è ricevuto è sempre immeritato ed eccedente la propria misura, e fonte di responsabilità verso la vita. Fa parte ancora di questa cultura vocazionale la capacità di sognare e desiderare in grande, quello stupore che consente d’apprezzare la bellezza e sceglierla per il suo valore intrinseco, perché rende bella e vera la vita, quell’altruismo che non è solo solidarietà d’emergenza, ma che nasce dalla scoperta della dignità di qualsiasi fratello. Alla cultura della distrazione, che rischia di perder di vista e annullare gl’interrogativi seri nel macero delle parole, va opposta una cultura capace di ritrovare coraggio e gusto per le domande grandi, quelle relative al proprio futuro: sono le domande grandi, infatti, che rendono grandi anche le risposte piccole. Ma sono poi le risposte piccole e quotidiane che provocano le grandi decisioni, come quella della fede; o che creano cultura, come quella della vocazione. In ogni caso la cultura vocazionale, in quanto complesso di valori, deve passare sempre più dalla coscienza ecclesiale a quella civile, dalla consapevolezza del singolo o della comunità credente alla convinzione universale di non poter costruire alcun futuro, per l’Europa del duemila, su un modello d’uomo senza vocazione. Continua, infatti, il Papa: “Il disagio che attraversa il mondo giovanile rivela, anche nelle nuove generazioni, pressanti domande sul significato dell’esistenza, a conferma del fatto che nulla e nessuno può soffocare nell’uomo la domanda di senso e il desiderio di verità. Per molti è questo il terreno sul quale si pone la ricerca vocazionale”.
Proprio questa domanda e questo desiderio fanno nascere un’autentica cultura della vocazione; e se domanda e desiderio sono nel cuore d’ogni uomo, anche di chi li nega, allora questa cultura potrebbe diventare una sorta di terreno comune ove la coscienza credente incontra la coscienza laica e con essa si confronta. Ad essa donerà con generosità e trasparenza quella sapienza che ha ricevuto dall’alto. Tale nuova cultura diverrà così vero e proprio terreno di nuova evangelizzazione, ove potrebbe nascere un nuovo modello d’uomo e potrebbero fiorire anche nuova santità e nuove vocazioni per l’Europa del duemila. La penuria, infatti, delle vocazioni specifiche – le vocazioni al plurale – è soprattutto assenza di coscienza vocazionale della vita – la vocazione al singolare -, ovvero assenza di cultura della vocazione. Questa cultura diventa oggi, probabilmente, il primo obiettivo della pastorale vocazionale o, forse, della pastorale in genere. Che pastorale è, infatti, quella che non coltiva la libertà di sentirsi chiamati da Dio, né fa nascere novità di vita?…
Finalmente veniamo condotti per mano sulla soglia delle risposte che ogni uomo che viene alla vita cerca per dare un senso alla vita e specialmente al frattempo esistenziale che si consuma tra la nascita e la morte ascoltiamo ancora Nuove Vocazioni per una Nuova Europa al n. 14:
Alla scuola della parola di Dio la comunità cristiana accoglie la risposta più alta alla domanda di senso che insorge, più o meno chiaramente, nel cuore dell’uomo. È una risposta che non viene dalla ragione umana, pur sempre drammaticamente provocata dal problema dell’esistere e del suo destino, ma da Dio. É Lui stesso a consegnare all’uomo la chiave di lettura per chiarire e risolvere i grandi interrogativi che fanno dell’uomo un soggetto interrogante: “Perché siamo al mondo? Che cos’è la vita? Quale l’approdo oltre il mistero della morte?”. Non va però dimenticato che nella cultura della distrazione, in cui si trovano imbarcati soprattutto i giovani di questo tempo, le domande fondamentali corrono il rischio di essere soffocate, o di essere rimosse. Il senso della vita, oggi, più che cercato viene imposto: o da ciò che si vive nell’immediato o da ciò che gratifica i bisogni, soddisfatti i quali, la coscienza diventa sempre più ottusa e gli interrogativi più veri restano elusi. È dunque compito della teologia pastorale e dell’accompagnamento spirituale aiutare i giovani a interrogare la vita, per giungere a formulare, nel dialogo decisivo con Dio, la stessa domanda di Maria di Nazaret: “Come è possibile?” (Lc 1, 34).
E si giunge alla risposta che dà titolo all’editoriale e in qualche modo a tutto il numero. Ce la offre il documento stesso al n. 16:
In questa prospettiva della chiamata alla vita una cosa è da escludersi: che l’uomo possa considerare l’esistere come una cosa ovvia, dovuta, casuale. Forse non risulta facile, nella cultura odierna, provare stupore dinanzi al dono della vita. Mentre è più facile percepire il senso di una vita donata, quella che ridonda a beneficio degli altri, ci vuole invece una coscienza più matura, una qualche formazione spirituale, per percepire che la vita di ciascuno, in ogni caso e prima di qualsiasi scelta, è amore ricevuto, e che in tale amore è già nascosto un consequenziale progetto vocazionale. Il semplice fatto di esserci dovrebbe anzitutto riempire tutti di meraviglia e di gratitudine immensa verso Colui che in modo del tutto gratuito ci ha tratti dal nulla pronunciando il nostro nome. E allora la percezione che la vita è un dono non dovrebbe suscitare soltanto un atteggiamento riconoscente, ma dovrebbe lentamente suggerire la prima grande risposta alla domanda fondamentale di senso: la vita è il capolavoro dell’amore creativo di Dio ed è in se stessa una chiamata ad amare. Dono ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato.
L’amore è il senso pieno della vita. Dio ha tanto amato l’uomo da dargli la sua stessa vita e da renderlo capace di vivere e voler bene alla maniera divina. In questo eccesso di amore, l’amore degli inizi, l’uomo trova la sua radicale vocazione, che è “vocazione santa” (2 Tim 1, 9), e scopre la propria inconfondibile identità, che lo rende subito simile a Dio, “a immagine del Santo” che lo ha chiamato (1 Pt 1, 15). “Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell’essere – commenta Giovanni Paolo II – Dio inscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è pertanto la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano”.
Appare davvero di disarmante bellezza ed incisività quanto ci ricorda San Giovanni della Croce: “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore” (Parole di luce e di amore, 1,57).