N.04
Luglio/Agosto 2021

Maria Gabriella Sagheddu

Una vita per l'unità

Nel paese di Dorgali, con il suo magnifico scenario naturale, le vie strette, il carattere forte della sua gente, una bimba deve svuotare il recipiente con le bucce di patata. Non vuole, si impunta, protesta. Punita per questo, dapprima prende il recipiente. Tuttavia, rimasta sola, dopo mezz’ora ritorna a casa con le bucce nel grembiule e le depone per terra: non voleva prestare quel piccolo servizio e non vi si era piegata. Quasi vent’anni dopo, la stessa bambina ormai cresciuta sta salendo la scala che nel monastero di Grottaferrata conduce al dormitorio delle novizie. «Stanca, sfinita, si era fermata a metà per riprendere respiro»: ma quando arriva una compagna balza in piedi, rifiuta l’aiuto con il sorriso. 

Tra gli estremi inconciliabili di un carattere indomito e di un’arrendevolezza che si piega a tutto, si era dipanata in quegli anni la vita di Maria Sagheddu: “Maù” in famiglia, suor Maria Gabriella nella sua famiglia religiosa. 

Nata il 17 marzo 1914 e rimasta presto orfana di padre, viene educata alla scuola esigente della mamma – donna di fede e di vivo senso pratico che le insegna il primato dei fatti sulle parole –. Vivacissima e talvolta collerica, Maù adolescente si reca in chiesa solo per “assolvere al precetto”; rifiuta – cosa allora inaudita – l’iscrizione all’Azione Cattolica e non disdegna invece di giocare a carte e a tombola, arrabbiandosi quando perde, leale però sempre. Rifiuta, anche, alcune proposte di matrimonio. Rifiuta di indossare il costume dorgalese con i suoi rossi, i suoi viola e i suoi ori, preferendogli la compagnia delle amiche che non lo posseggono. Rifiuta – Maù – di farsi ammirare e di guardarsi essa stessa: «Non lo guardo io il mio viso; non voglio che lo guardi nessuno!». Vive dentro, si potrebbe dire: senza appariscenza, senza indulgenza, senza fare le cose per sola consuetudine. Cerca una verità più profonda e – figlia «asprigna» come sua madre l’aveva definita – è però vivamente cosciente dei propri limiti e ricerca intanto la ragione profonda delle cose. E così anche lei cambia: sceglie l’iscrizione all’Azione Cattolica, sperimenta il «richiamo irresistibile alla Messa» e si impegna in una carità fattiva. Diventa dolce, aiuta una malata dal carattere intrattabile, gusta la preghiera. «Non scatta più, la si può ormai contrariare». «Si dà senza risparmio nel lavoro, nel servizio». Come sottolinea Monica della Volpe, firmando una sua intensa biografia, comprende allora che si può «preferire il tu amato a questo io». 

Fino a quando aveva inteso porre se stessa al centro, Maria Sagheddu non aveva scelto né si era lasciata scegliere: difendeva una libertà che non regalava a nessuno. Ma nessuno si definisce in relazione a se stesso: ci si definisce in relazione a un “tu”, ed è qui che si origina il richiamo di Maria alla vita religiosa. Prima, quando un giorno la madrina di cresima le aveva detto: «Se non hai altro da fare, vattene in convento anche tu», lei non aveva detto di sì, aveva risposto: «Basta che Dio mi chiami ed io son pronta». Ora questa chiamata che non è ripiego, ma appello netto pare farsi strada. Maria vi riflette, si consulta ed è indirizzata al monastero trappista di Grottaferrata. Alla mamma lo comunica all’ultimo e, in poco tempo, parte. Quel giorno lei, che rifiutava il costume sardo, il suo costume lo sfoggia in piena sicurezza: grida al mondo la propria decisione. «Preparata in fretta la dote, con meraviglia di tutti, si mise in viaggio con il costume dorgalese della festa, tutto uno scintillio; era come se andasse alla festa delle sue nozze». «Quando tornerai Maù?». «Zio Ciprià, ci ritroveremo in Cielo, ma sulla terra mai più». «Partì piena di gioia», ma non smise di interessarsi alla famiglia. 

A Grottaferrata, dove arriva dopo un viaggio che deve esserle parso lungo come il giro del mondo – perché da casa non si era mai allontanata –, trova una realtà sobria, secondo il cenobitismo benedettino-cistercense rivissuto con la tonalità trappista che gli aveva impresso l’abate de Rancé. La Badessa Madre Pia Gullini, donna volitiva e forte, con una formazione religiosa nella trappa francese di Laval, contatti internazionali e una viva sensibilità per l’unità dei cristiani, la descrive così: «Occhi profondi e luminosi. L’anima vi traspariva pura e piena di stupefazione dinanzi al mistero della casa del Signore e della vita religiosa». 

Novizia il 13 aprile 1936 e professa il 31 ottobre 1937 (quell’anno festa di Cristo Re), Maù alla Trappa «era poco espansiva, ma molto fattiva». Seppe nascondersi con cura – forse persino troppo se un giorno le fu detto: «Questa sorella ha sempre il viso scuro» (e dovette allora ricordarsi di sorridere) –. Eppure, un po’ come a Dorgali quando non voleva alcuno la vedesse, c’è tutta una vita che scorre dentro. E questa vita è autentica: «Lei dalla Comunità è giudicata la più felice e la più contenta e in realtà non sempre lo è», aveva detto un giorno la Badessa a una suora: «Viceversa Suor Gabriella è giudicata la più triste ed avvilita, al contrario ha l’animo pieno di letizia, di pace e di riconoscenza verso Dio e la Comunità». La sua unica paura era non farcela, dover tornare a casa. Aveva per questo chiesto la grazia di arrivare alla professione. Ma dopo la professione, davvero, non si appartiene più, e nessuno può più cacciarla. Allora, Signore, “fa’ Tu”: non c’è più niente da difendere. 

È in questo clima che, poco dopo, la raggiunge dunque un particolare appello: offrire la vita per l’unità dei cristiani. 

Nel 1937, Madre Gullini aveva già proposto l’ideale: a raccoglierlo era stata allora una monaca quasi ottantenne, con le parole: «Questo è per me. Se permette, offro il poco di vita che mi resta». Ma nel 1938 è il suo momento, suor Maria Gabriella capisce che è una vera vocazione e fa la sua offerta, prima sottoposta a discernimento attento, ma infine riconosciuta autentica dalla stessa Badessa che pure teme per lei. E quella giovane sanissima contrae la tisi, vive un ultimo intenso anno di vita e nasce al Cielo il 23 aprile 1939, Domenica del Buon Pastore. «Mi lasci offrire la mia vita […] che cosa vale? Io non faccio niente, non ho mai fatto niente»: umiltà di chi si sente piccolo e dà tutto. Sofferente, racconta: «Il mio cuore si stringe e gli occhi piovono […] mi sento debole come una pagliuzza». Ma afferma anche: «La malattia è la mia ricchezza. Il Signore me l’ha data»: attentissima a non contagiare le sorelle, “vive allora più che mai “nascosta”. Voleva farsi santa davanti a Dio e non agli uomini. 

«Un tempo» – ammette – «pensavo ai miei peccati, ora non me ne ricordo più»: è l’amore perfetto, che scaccia il timore. L’ultima volta che sale in noviziato è per bruciare i propri scritti: chi si è offerto non ha parole da dire, è invece fatto “parola” perché un Altro scrive in lui. 

Beatificata da Giovanni Paolo II nel gennaio 1983, suor Maria Gabriella non ha mai conosciuto le articolate vicende dell’ecumenismo, ma ha colto nel «Ut unum sint» il cuore del Vangelo. Oggi, la sua comunità attesta una fecondità vocazionale che le ha permesso di fondare numerosi monasteri. La “grazia di unità” è infatti grazia di fecondità e, se alcuni nella Chiesa sono chiamati a difendere la causa dell’unità dei cristiani con l’apologetica, Maù ha scelto la via di far sorgere luoghi dove l’unità si realizza nella testimonianza corale della carità. 

 

 

Si ricordino tutti i fedeli, che tanto meglio promuoveranno, anzi vivranno in pratica l’unione dei Cristiani, quanto più si studieranno di condurre una vita più conforme al Vangelo. 

Decreto Unitatis Reintegratio, 7. 

 

 

 

Maria Gabriella Sagheddu nasce a Dorgali (Sardegna) nel 1914, in una famiglia numerosa segnata anche dalla sofferenza. Bambina volitiva e con punte di irruenza, riesce ad addolcire il carattere e lo orienta alla carità. Entra nel Monastero trappista di Grottaferrata (poi trasferito a Vitorchiano) nell’autunno 1935. Muore nel 1939 dopo essersi offerta per la causa dell’unità dei cristiani. È stata beatificata da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983 e numerose sono le pubblicazioni su di lei. Qui si segnalano: Maria Giovanna Dore, Suor Maria Gabriella, per l’unità della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1940 (ristampa 1983); Paolino Beltrame Quattrocchi, La Beata Maria Gabriella dell’Unità, Monastero Trappiste Vitorchiano, Vitorchiano (Viterbo) 1980; Monica della Volpe, La strada della gratitudine. Suor Maria Gabriella, Jaca Book, Milano 1995; Cipriano Carini, Suor Maria Gabriella Sagheddu. Agnello immolato per l’unità, Velar, Gorle (Bergamo) 2008; un’antologia di scritti – Lettere dalla Trappa, a cura di Mariella Carpinello – edita per “San Paolo” nel 2006. 

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