Giuseppe Puglisi
La direzione è il Signore
A Villafrati, un paese sulla direttrice che collega Palermo ad Agrigento, il bambino Giuseppe ripara suole e tacchi: imita e aiuta come può il papà calzolaio, negli anni della Seconda Guerra Mondiale che ha costretto la sua famiglia, i Puglisi, a sfollare dal quartiere palermitano di Brancaccio e a scegliere un luogo più defilato dove però si patisce la fame. Papà Carmelo e mamma Giuseppina, sarta, i fratelli Gaetano, Nicola, che morirà adolescente, quindi il piccolo Francesco, nato nel 1945, sono il suo mondo, il punto di riferimento. Da Villafrati, terminato il conflitto, la famiglia ritorna infatti nel capoluogo siciliano, stavolta però sul lungomare, zona “Romagnolo”.
La parrocchia è titolata a San Giovanni Bosco e a Giuseppe s’imprime incancellabile nel cuore l’esempio di don Calogero Caracciolo, un prete anziano e integrale che lo affascina e conquista, da cui traspare la verità del sacerdozio. In quegli anni che diventano di scoperta e servizio ecclesiale, arriva a Giuseppe la domanda – diretta e senza margine di interpretazione – dell’allora Arcivescovo di Palermo, il Cardinal Ruffini: «Perché non diventi prete?». E lui da questa domanda si lascia interrogare, rivede i propri progetti e la scelta dell’istituto magistrale, si fida e si affida anche se la famiglia è povera e i soldi per farlo studiare sono un problema. Ma una vocazione è sempre di tutti: di chi la riceve, di chi la accompagna. La vocazione di un figlio, di un fratello, in un modo o nell’altro diventa quella d’una famiglia, d’una comunità e allora i Puglisi – per la gioia di un figlio prete – lo sosterranno senza contare i sacrifici. Gaetano, il fratello maggiore, gli si fa solidale cedendo parte dei propri guadagni di meccanico; ritarderà persino le nozze, che potrà essere il fratello a benedire.
Negli studi, il seminarista Giuseppe Puglisi scopre la bellezza della Parola di Dio, coglie in essa il volto di quel Gesù che, incontrato davvero, non può essere dimenticato, che va annunciato a ciascuno e a ogni costo.
Sacerdote il 2 luglio 1960 – 23 anni ancora da compiere – i suoi primi tempi da sacerdote sono una successione di incarichi, uno dei quali non ha durata lunga perché la sua forte capacità attrattiva, la sua presa sui giovani, il suo ardore di innamorato di Cristo non sempre risultano compresi.
Il suo Arcivescovo però lo comprende e così, nel 1967, don Pino (anzi: padre Pino Puglisi, o “3P” come si firmerà) è viceparroco a Mondello, vicerettore al seminario minore, viceassistente dei giovani di AC. Tanti “vice-ruoli” in cui fare esperienza, atteso anche su fronti più caldi come quello da cappellano del “Roosvelt”, un istituto per orfani dove si incontra con ragazzi segnati dalla vita e, tra i loro educatori, con militanti di sinistra. Vi lascia risuonare in tutta la loro esplosiva potenza le domande più forti, senza tacitarne l’impatto: incontra nella condivisa umanità quelli che avrebbero dovuto essere suoi nemici, non indietreggia di un passo. È un’esperienza che segnerà loro e lui, una palestra per ciò che don Pino avrebbe dovuto vivere quasi 25 anni dopo.
Comincia così a diventare il prete degli ultimi: quelli di cui la gente ha paura, quelli cui nessuno vorrebbe essere mandato. Dopo tre anni, parroco a Godrano, ci si chiede cosa don Pino ci faccia in quel paese sperduto, di montagna: se non fosse una punizione. La sua risposta arriva chiara come la domanda con cui il Cardinal Ruffini gli aveva chiesto un tempo di farsi prete: «Non sono figli di Dio anche questi?». «Sarò il parroco più altolocato della diocesi», commenta di quel suo paesino di montagna. E compra un furgone per portare i giovani a vedere per la prima volta il mare, mentre ritesse la paziente trama di rapporti che si erano contrapposti in faida, in un paese lacerato da odi profondi. Qui insegna il perdono e la sua canonica viene chiamata «il Colosseo»: sempre aperta! Tra i ragazzi di questo paese, abbandonato da tutti, fatto rivivere, c’è anche un futuro Vescovo. Dove passa, ribalta tante vite, apre le porte chiuse.
Sono molti i compiti affidati a don Pino Puglisi: l’insegnamento, per esempio. O il Centro Diocesano Vocazioni di cui sarà dal 1979 direttore, animando profondamente, spiegando che delle vocazioni c’è bisogno, illustrandone la complementarietà – con un pensiero, forse, in fondo al cuore, a suo fratello Gaetano che rinunciava allo stipendio e posticipava le nozze, ma voleva lui diventasse prete –.
Ancora in cammino, nel 1990 arriva a Brancaccio: torna a casa, dove era nato ma ora non c’è più la campagna con gli agrumeti, c’è povertà e corruzione, abusivismo edilizio, spaccio e prostituzione e soprattutto c’è la mafia. Mancavano anche le fogne – quelle del comune e della vita –: a Brancaccio il male restava a galla, vi si viveva immersi. Il Roosvelt e Godrano erano stati solo atti previ: ora il gioco si fa duro, comprende intimidazioni, aggressioni fisiche, una violenza strisciante. Quando don Pino – che trova intanto alcuni amici veri, quelli delle battaglie memorabili, delle prime conquiste di bene per la sua gente – vuole acquistare davanti alla sua parrocchia “San Gaetano” un immobile da destinare poi al Centro “Padre Nostro”, il prezzo lievita da 180 a 290 milioni: è il segnale del non gradimento ma, ancora, don Pino non retrocede. Dall’Arcivescovo arrivano 30 milioni, donazioni da ogni dove, anche dall’estero. Alla fine, ha vinto: nel nome del Centro, un aggettivo che dice comunità (Padre Nostro cioè di tutti, all’opposto di Cosa nostra che è solo di alcuni). Padre Pino Puglisi a Brancaccio inaugura il Centro “Padre Nostro” il 29 gennaio 1993: nel maggio e nel luglio precedente erano stati uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel settembre successivo toccherà a lui, alle 20.40 sotto casa, con Gaspare Spatuzza che gli intima “rapina” e intanto Salvatore Grigoli a puntargli addosso la pistola. Don Puglisi se lo aspettava, sorride. Grigoli Spara. È il 15 settembre 1993, giorno del suo compleanno. L’aveva festeggiato celebrando due matrimoni.
Non era, dunque, questione di avere suole e tacchi lavorati dal calzolaio, scarpe nuove o riparate. La questione non stava nelle scarpe, ma nella direzione del cammino: dove andare, con le scarpe ai piedi. «A che serve», dice don Puglisi, così attento alle vocazioni, «se sbagliamo direzione? Venti, sessanta, cento anni, la vita… Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come lui, annunciare il suo amore che salva».
Nell’omelia dei funerali, l’Arcivescovo di Palermo lo definirà «Come gli antichi profeti, […] una sentinella di Dio in una trincea avanzata».
Nella sua vita, beatificandolo il 25 maggio 2013, la Chiesa ha riconosciuto un modello di vita cristiana portata all’eccesso dell’amore, sino alla testimonianza del martirio, nel dono totale. Proprio la sua morte, così violenta e ingiusta, diviene criterio per ripercorrere a ritroso tutta la storia e trovarvi una bellezza che la morte martiriale aveva compiuto, senza esaurire né sostituire quanto l’aveva preparata nella pazienza dei giorni.
Abbiamo bisogno di vocazioni autentiche!
Padre Pino Puglisi, Intervento al Convegno Regionale Vocazioni
Giuseppe “Pino” Puglisi nasce in Sicilia, a Palermo, il 15 settembre 1937 nel quartiere di Brancaccio. La vocazione al sacerdozio lo raggiunge presto ed è giovanissimo prete a soli 22 anni. Numerosi gli incarichi, affiancando al ruolo di viceparroco e parroco la presenza in realtà diverse, anche come insegnante. Nel 1990 diventa parroco di San Gaetano a Brancaccio: fronte avanzato di missione nella sua Palermo, dove la mafia lo contrasta palmo a palmo, sino a ucciderlo nel giorno del suo 56esimo compleanno. Era stato direttore del Centro Diocesano Vocazioni e tutto, in lui, illustra cosa sia una vita alla sequela del Signore. Per conoscerlo, tra i numerosi contributi, si rinvia a: https://padrepinopuglisi.chiesadipalermo.it; Rosaria Cascio, Salvo Ognibene, Il primo martire di mafia. L’eredità di Padre Pino Puglisi, EDB, Bologna 2017 (2016). Si segnala inoltre il prezioso volume dell’editrice Velar, a cura della sua comunità parrocchiale di Brancaccio, corredato da ricchi materiali anche fotografici (Beato Giuseppe Puglisi Sacerdote e Martire. La forza silenziosa di un sorriso).