Il coraggio lo dà chi lo può dare
Una celebre pagina del Manzoni
Il 2023 è l’anno del 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni (1873). Trattandosi di una rubrica della rivista Vocazioni approfittiamo di questa ricorrenza per rileggere una pagina giustamente famosa, ma ugualmente assai ricca di indicazioni spirituali per riflettere sulla figura del sacerdote. Mi riferisco al rimprovero che il card. Federigo rivolge a don Abbondio, nel dialogo che essi hanno nei capp. 25-26 dei Promessi Sposi.
Il cardinale ha appena chiesto spiegazioni al curato sul perché non abbia celebrato il matrimonio. Don Abbondio racconta la sua versione della cosa e davanti al richiamo al proprio dovere che egli avrebbe dovuto compiere, don Abbondio risponde «Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grande incomodo, ma quando si tratta della vita…». E la risposta del cardinal Federigo apre improvvisamente uno stupendo ritratto della vocazione sacerdotale,
La paura di perdere la vita non può essere un motivo per fuggire dal prendersi cura del gregge. Nella missione del sacerdote si riflette li amò sino alla fine di Gesù, e questa missione si presenta sotto la veste del prendersi cura fino a dare la vita. Nel discorso di Federigo vi è il richiamo a una gerarchia spesso dimenticata: per salvare la vita sulla terra, ovvero, “qualche giorno in più” a spese di questo amore e del dovere sacerdotale, vale la pensa tradire la propria identità. Don Abbondio cerca di rispondere che la forza del male vince comunque (“…non si può né vincerla né impattarla”). Federigo richiama il tremante curato al fatto che, come Cristo – per dirla con von Balthasar – è lo Sconfitto che vince, ciò che è necessario al sacerdote è non dimenticare che “E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere?”.
Alla fine, don Abbondio gioca una carta che sembra chiudere la questione, con il celebre “il coraggio, uno non se lo può dare”. La risposta sul coraggio apre la conclusione del capitolo 25, che riportiamo come il nostro passo di questo numero della rivista. Il card. Federigo richiama la fonte di questo coraggio, in fondo, per amare fino alla fine: “Come non pensate che… c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate?”. In questo testo l’amore praticato è ciò che prepara il cuore del pastore a dare la vita per il suo gregge, comunicando la sua propria intrepidezza. Il finale, quando Federigo aspetta in silenzio la risposta di don Abbondio, resti una domanda aperta per ciascuno di noi, per chiunque abbia un’azione pastorale di qualsiasi genere.
«E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava… Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?
E tacque in atto di chi aspetta».
(Fine del cap. XXV di A. Manzoni, I promessi sposi, Classici Deluxe, Rizzoli, Milano 2020)