Zappa e badile
«Nel monachesimo cristiano è sempre stato tenuto in grande onore il lavoro, non solo per il dovere morale di provvedere a sé stessi e agli altri, ma anche per una sorta di equilibrio, un equilibrio interiore: è rischioso per l’uomo coltivare un interesse talmente astratto da perdere il contatto con la realtà. Il lavoro ci aiuta a rimanere in contatto con la realtà. Le mani giunte del monaco portano i calli di chi impugna badile e zappa» (Francesco, Udienza generale, 9 giugno 2021).
In ambito specificamente vocazionale, spesso la proposta formativa si articola a partire dalla convinzione che nutrire la mente e la preghiera siano due cardini indispensabili e sufficienti per il discernimento e la trasformazione spirituale. Così, capita che gli sforzi maggiori si concentrino tra l’approfondimento teologico e il colloquio spirituale e psicologico: il resto della vita – nella sua disarmante concretezza – rischia di diventare un semplice banco di prova dell’efficacia del lavoro formativo.
Il lavoro è alla radice di ogni vocazione perché è la stessa opera di Cristo, il suo lavoro che diventa il nostro, quello della Chiesa e quello di ogni credente che nel Battesimo si assume la missione di lavorare la terra per trasformarla spianando la via all’avvento del Regno dei Cieli.
Ci può aiutare una contemplazione della Trinità che Giuliana di Norwich (1342–1416) ci regala: «Il vestito del Servo era una tunica bianca, unica, vecchia e tutta logora, macchiata dal sudore del suo corpo, stretta e corta, una mano sotto il ginocchio, consunta, vicinissima a sfilacciarsi, pronta ad andare a pezzi e brandelli. E questo mi stupiva grandemente e pensavo: “Questo vestito è veramente brutto per un servo che è così profondamente amato da stare alla presenza di un così glorioso Signore. C’era un tesoro sulla terra che il signore amava. Mi chiedevo e pensavo che cosa potesse essere e mi fu risposto: ‘È un cibo amabile e che piace al Signore”. […] Riflettevo pensando quale potesse essere il tipo di lavoro che il servo doveva fare. E allora compresi che egli doveva fare il più grande lavoro e la più dura fatica che ci sia. Doveva fare il giardiniere, cioè zappare e scavare e sudare e rivoltare la terra su e giù, e vangare in profondità e innaffiare le piante al tempo giusto. E doveva perseverare nel suo lavoro, e far scorrere dolci ruscelli, e far crescere nobilissimi frutti da portare davanti al suo Signore per servirlo secondo i suoi gusti. E non doveva tornare indietro fino a che non avesse approntato questo cibo che egli sapeva gradito al suo Signore» (Giuliana di Norwich, Il libro delle rivelazioni, 51). Sia questa stessa passione ad abitare il cuore di tutti noi.
Un ringraziamento all’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e del lavoro che ha collaborato alla realizzazione di questo numero della rivista. Buona lettura.