Mario Borzaga
Dire “sì” sempre
Alla fine degli Anni Cinquanta, un giovane prete trentino Missionario dell’OMI comincia a scrivere uno strano Diario in cui un certo Armando «partì […] pieno di gioia perché si sentiva forte e bello nell’anima: se lo sentiva e ne andava superbo come di una cosa strettamente sua. [Ma] Armando s’accorge che, pur avendo pregato, è […] una mezza figura, un prete fallito, pieno di timori e di paure; Armando non prega più». Questo Diario è la storia di un consacrato che passa dalla percezione di una forza spirituale alla lacerazione del limite, del fallimento, della più totale mancanza di senso: la durezza dell’esperienza che sta vivendo tocca il suo cuore e fa saltare ogni certezza.
Dietro a quel Diario immaginifico, scritto in terza persona e con un nome di fantasia, quasi a trovare la forza di confidare ciò che sarebbe altrimenti troppo duro ammettere, si cela però un uomo vero: è nato nel 1932 e, ancora ventenne, si trova nel Laos dove tutto – d’un tratto – gli fa paura, patisce fame e nostalgia e deve più volte scappare perché «i Viet sono arrivati» e, se arrivano e lo trovano, lo uccidono. Si chiama padre Mario Borzaga, un trentino tutto d’un pezzo che, nel Laos, aveva conosciuto, come la chiama, «una paura maledetta» e quel disgusto di sé che può talvolta assalire nelle situazioni estreme se – scriveva nel suo Diario vero, in prima persona – «Io mi sento molto cattivo […], nervoso nelle risposte e pessimista nei miei pensieri […]. Chiedo perdono a Dio di tutto e voglio ancora una volta tentare di ricostruirmi santo per la Chiesa di Dio». Era cresciuto in una bella famiglia, arguto, con una vocazione precoce «custodita come un tesoro», alla quale seguirà quella della sorella Lucia.
A 11 anni, a Drena (in provincia di Trento), Mario entra in Seminario. La mamma quel giorno lo affidò per il viaggio «a un uomo che andava al medesimo paese», ma «a un’ora di cammino» – scrive Mario – «mi lasciò solo e io non piansi»: sarebbe stata una donna a soccorrerlo, confortarlo.
In Seminario, gli si apriva un mondo nuovo ed egli vi è felice. Della sua quarta ginnasio ricorda che amava Gesù Sacramentato e Maria, pregava, la scuola riusciva bene, sognava. Chi lo conobbe, ne parlerà come d’un «ragazzo completo», di «finezza spirituale superiore agli altri», che ricordava san Luigi Gonzaga: non il «san Luigi romantico», quello tutto delicatezze, ma il san Luigi vero «che di notte soccorreva gli ammalati di Roma» e nella notte portava la luce, chinandosi su ogni ferita.
È per questa adesione totalizzante al Vangelo, meditando la Parola di Dio, che padre Mario desidera la vita missionaria: un modo per “camminare” nel buio dei tanti che patiscono le tenebre perché Gesù vera Luce ancora non è stato annunciato. Lui, trentino, comincia allora con l’OMI il noviziato vicino a Campobasso: la prima volta in cui un giovane confratello, di Barletta, racconta una barzelletta, Mario ride come si fa in queste circostanze, ma poi ammetterà di non averci capito niente. Le parole e la realtà erano, lì, da capire di nuovo, da apprendere da zero: è la via dell’obbedienza.
«Il programma della giornata», scrive, «è obbedire e imparare […], dalle situazioni», «in silenzio », imparare anche a «pescare», «camminare nella foresta», «la tecnica del legno, delle macchine, dei motori». Dietro però c’è un’obbedienza più grande che si tesse nella prosa del quotidiano: «“Fiat voluntas tua” in qualsiasi istante della mia vita». Così Mario Borzaga, professo perpetuo il 21 novembre 1956 e sacerdote il 24 febbraio 1957, aveva capito che questa del fiat, dell’obbedienza, era, tra tanti cammini sulla terra, la prima strada da percorrere per il Cielo. Scriveva: «Se voglio essere come l’Eucaristia un buon Pane per essere mangiato dai fratelli […] devo per forza prima passare attraverso la morte di croce»; «se mi distribuisco senza passare prima a sublimarmi nel sacrificio, do ai fratelli affamati di Dio me stesso, un cencio d’uomo»; «se accetto la mia morte in unione con quella di Gesù, è proprio Gesù che io riesco a dare con le mie stesse mani ai fratelli».
La vita missionaria, che egli aveva scelto con tutto lo slancio della giovinezza, diventa così per lui palestra esigente di un amore tutto da riapprendere, di una realtà lontana dalle aspettative e dove “vocazione” significa continuare a “dire di sì” a qualcosa che non si capisce più, tenendosi però saldi a quel filo d’Amore di Dio che in fondo al cuore, nonostante tutto, è impossibile si spezzi.
Nel Laos dove i cristiani vengono massacrati, la guerriglia si diffonde ed egli è appunto costretto più volte a fuggire e nascondersi; nel Laos dove è «assalito dalla paura di morire, di impazzire, di essere abbandonato da Dio», di «sbagliare a somministrare le medicine» e far così danni senza volerlo, di «lavorare fino a sfiancarsi»… padre Mario Borzaga, tenuto per mano dal suo Signore, giunge infine a una elementare consapevolezza: «Non c’è più d’aver paura, o da lamentarsi: Dio mi ha messo qui e ci sto». «La santità è dono di Cristo a persone fatte di niente e di debolezza»: tutto, allora, poteva, doveva condurre a Lui ed essere esperienza di Lui. Fino al 25 aprile 1960 (Mario ha 27 anni), quando si incammina verso vilaggi del Nord del Laos dove gli abitanti erano in attesa del Vangelo. Mario non tornò più, ma si seppe infine che era stato ucciso da alcuni guerriglieri del Pathet Lao: con lui un giovanissimo catechista laico che sceglie di restare accanto al missionario nel sacrificio supermo.
Come il giorno in cui doveva entrare in Seminario ed era rimasto da solo ma non aveva pianto, c’era stato quell’istante in cui a padre Mario era parso di essere rimasto solo: ma, infine, era arrivato a Casa.
Il suo corpo non sarà mai ritrovato, ma la sua vita, il suo Diario serissimo e pieno di arguzia hanno continuato a farsi strada. Oggi è venerato martire, in linea con una netta intuizione che egli aveva avuto del martirio ben prima del precipitare degli eventi. «I martiri sono quelli che nella via della santità hanno bruciato le tappe», dice Mario: «Per farsi santi ci vuole più coraggio che tempo». Anche lui aveva avuto paura e questo coraggio non lo aveva trovato. Sino al «sì» finale: “sì” non alla morte – perché Mario amava la vita –, ma al Vangelo da annunciare ancora; “sì” alle persone che lo attendevano, “sì” alla sua più profonda natura di uomo, sacerdote e missionario. Ne era consapevole: «La realtà di essere santi è infinitamente superiore all’imaginazione di diventare santi in questa o quella maniera». A lui, infine, era stato richiesto di essere santo in quel modo, così diverso da ciò che aveva e avrebbe scelto.
«Domani farò i voti perpetui: metterò la firma a una parola d’amore che mi sono provato di dire a Gesù. Gli darò una stretta di mano, così di passaggio, dato che anche il 21 novembre è uno dei tanti 365 giorni del [Millenovecento]cinquantasei. Quasi indifferentemente, ma so che Gesù non lascerà la mia mano per tutta la mia vita, a meno che con l’altra non gli dia una pugnalata».
Parole di Padre Mario Borzaga alla vigilia della sua professione perpetua
Mario Borzaga nasce a Trento il 28 agosto 1932, terzo di quattro figli e, undicenne, entra in seminario. Compiuto un cammino che lo vede presenza esemplare tra i compagni, si orienta alla vita missionaria tra gli Oblati di Maria Immacolata (OMI), fondati nel 1816 da sant’Eugenio de Mazenod. La sua destinazione sarà il Laos, dove verrà ucciso nella primavera del 1960; il suo corpo sarà più ritrovato. È stato beatificato come martire l’11 dicembre 1916. Per conoscerlo: Fabio Ciardi, Il sogno e la realtà. Beato Mario Borzaga martire, Ancora, Milano 20162; Lorenzo Cuffini, Mario Borzaga. Dirsi tutto, darsi tutto, Effatà Editrice, Cantalupa (Torino) 2018. Edito, da Città Nuova, anche il suo Diario di un uomo felice. Presenti on line ulteriori materiali (per esempio https://www.youtube.com/watch?v=hqjd49b93g0) e testimonianze della sorella Lucia, consacrata laica nella medesima famiglia religiosa del fratello.