N.06
Novembre/Dicembre 2003

Il contributo di un Istituto religioso alla pastorale vocazionale

Per iniziare questa condivisione prendo in prestito le parole di S. Paolo: “Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me!” (1Cor 9,16). Per noi Apostoline annunciare il Vangelo è, in modo del tutto speciale, il “dovere” di annunciare il “vangelo della vocazione” (NVNE 31). È questo il motivo per cui il Beato Don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, sempre in ascolto della voce dello Spirito e attento ai “segni dei tempi”, ha voluto consegnarci questo carisma chiaro, specifico, con l’unica finalità di “dare la vita” perché tutti possano scoprire e vivere la propria vocazione (Don Alberione ci diceva: “Consumare la vita per le vocazioni”). Tra i primi destinatari del “lieto annuncio” della vocazione vi sono soprattutto i giovani a cui va un’attenzione speciale attraverso il servizio dell’accompagnamento e il discernimento vocazionale, perché possano comprendere la personale chiamata e decidersi per quel particolare stato di vita a cui il Signore li ha da sempre pensati e chiamati. In questo contesto ci sentiamo particolarmente responsabili di quei giovani che Dio chiama alla vocazione di speciale consacrazione.

Anche l’attenzione agli educatori, porta a condividere con loro la ricerca di come arrivare ad aiutare tutti nel popolo di Dio (e ancora una volta, in particolare i giovani) a crescere e maturare vocazionalmente, facendo della pastorale vocazionale la “dimensione costitutiva ed essenziale” di tutta la pastorale (NVNE 26 a). Questo significa per me oggi, condividere con voi qualcosa della mia e nostra esperienza di Apostoline, per cercare di capire qual è il vero bene dei giovani e crescere insieme, io e voi, nell’annuncio del Regno e nel servizio alla Chiesa. Il “dovere” e non il “vanto” di poter annunciare il Vangelo della vocazione ai giovani – in genere ragazzi e ragazze che frequentano i nostri incontri vocazionali, o più specificatamente le ragazze quando stanno nelle nostre comunità per tempi più o meno lunghi –, mi pare innanzitutto che abbia un’accezione specifica che toglie la durezza del “dovere” e apre a una passione educativa “femminile-materna” (ma che vale anche per gli educatori uomini!) che mi piace chiamare dedizione di sé.

Vivere la dedizione di sé nell’ambito del “vieni e vedi” che offriamo nelle nostre comunità, mi pare significhi far spazio a quella/quel giovane che, cosciente o meno, chiede di capire qual è la chiamata di Dio per lei/ lui. C’è sempre una domanda, un perché, che muove il giovane a chiedere di venir accompagnato nel cammino di fede. A questa domanda mi pare siamo chiamate a dare sempre credibilità, sapendo però che questa è solo il punto di partenza per un dialogo. La vera domanda che abita il cuore di quella ragazza/o è ben più profonda e non è immediato raggiungerla: è domanda di pienezza di vita, che esige un cammino lungo per imparare a leggere la storia personale come personale storia di salvezza che la porta a scoprirsi destinatari dell’amore personale di Dio a cui è invitata/o a rispondere.

Quando mi rendo disponibile per accompagnare la/il giovane nel meraviglioso e difficile incontro con la propria storia e la volontà di Dio, dedizione di sé significa anche portare, cioè prendersi cura, dare tempo, lasciarsi disturbare e impegnarsi attivamente in questa relazione. Un accompagnamento che è sempre personalizzato e mai fatto in serie, perché ha come obiettivo incontrare “quel” particolare giovane, con la sua storia, i suoi doni, le sue fragilità, le sue ferite, il suo desiderio di bene e di vivere intensamente la vita… Per cui, se oggi concretamente mi domandate cosa facciamo quando le persone stanno nelle nostre comunità, non saprei darvi altro che le coordinate, in cui al primo posto collocherei la possibilità di condividere ciò che siamo, viviamo, facciamo: preghiera, vita quotidiana, piccoli aspetti della nostra missione. Quello che non può mai mancare è il dialogo, l’incontro personale, il verificare, sostenere e rileggere l’esperienza all’interno della storia personale di quella/quel giovane.

Ancora dedizione di sé mi pare possa significare per noi, fare esperienza del generare alla vita, quella di Dio, quella che è da sempre custodita nel Suo cuore di Padre e che sola può dare senso e pienezza alla vita umana. Per questo il ritrovarsi madri nello spirito fa sperimentare in ogni cammino di accompagnamento, insieme ad una gioia intima e profondissima, anche il dolore per i vari passaggi di crescita che il giovane attraversa prima di giungere alla scelta. Alcune volte questo genere di gioia mista a dolore è presente quando ci pare di comprendere a quale vocazione il Signore chiama la/il giovane ma sperimentiamo che la nostra intuizione ha preceduto la sua comprensione e allora non può esserci altro che attesa perché non c’è da forzare la mano, non possiamo imporre mai il nostro punto di vista ma possiamo solo proporre e attendere che Dio “faccia crescere” (cfr. 1Cor 3,6).

E infine dedizione di sé mi pare abbia per noi il significato di nutrire attraverso l’annuncio e la testimonianza dei valori tipici della vita cristiana e della vita religiosa ma anche, e soprattutto, nutrire con la preghiera i tanti slanci e gli inevitabili ritorni propri di chi sta cercando di capire cosa piace al Signore.Questa premura per la/il giovane che passa o si ferma nelle nostre comunità, non è questione di alcune convinzioni o capacità personali, o di persone incaricate, in questo specifico servizio ma… mi pare di poter dire con tranquillità, è un sentire comunitario, è lo stile della comunità che ha a cuore la promozione vocazionale di tutti.

È nostro desiderio, esplicitato in diversi modi tra noi, far sì che ogni volta che un giovane entra nella nostra comunità, possa sentirsi bene, come a casa sua, perché ha trovato un luogo in cui, non solo non gli è stato chiesto niente, ma primariamente ha avuto la possibilità di ritrovare se stesso, anzi molto di più, in qualche modo è stato restituito a se stesso, perché ha avuto la possibilità di sentire la propria vita accolta, amata, preziosa, valorizzata.

Mi è capitato spesso di percepire in alcune ragazze un po’ di resistenza ad incontrare la vita religiosa femminile perché in qualche modo si sentono subito oggetto di attenzioni più finalizzate alla meta della scelta che al cammino di crescita per arrivare a capire la propria vocazione. È per loro molto liberante quando scoprono che non c’è nessun tipo di attesa nei loro confronti, ma c’è per loro un desiderio unico, molto chiaro e molto profondo: far scoprire chi sono nel disegno di Dio.

Credo sia questa la più bella profezia della vita religiosa: avere uno sguardo capace di scrutare lontano, fino ad arrivare allo sguardo creativo di Dio sulla persona e scoprire che Lui non smette mai di guardarla così. Quello stesso sguardo di Gesù, che prima di pronunciare la parola della chiamata “vide Simone e Andrea, mentre gettavano le reti in mare… vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello” (Mc 1,16.19), e nell’intensità di quello sguardo ha fatto loro comprendere: tu non sei solo barche, o reti, o lavoro, o legami familiari. Tu sei nel disegno di Dio! E per questo “ti farò diventare” pescatore di uomini, cioè ti affiderò una missione capace di attivare in te tutte le possibilità per dedicarti ai fratelli (cfr. Mc 1,20).

Per esercitarsi in questo sguardo profetico, specifico della vita religiosa, è necessario crescere continuamente noi per prime nella confidenza con Dio. Per questo la nostra preghiera non può che essere vocazionale: cioè ricordo attivo di chi “accompagniamo”, luogo di discernimento di ciò che è il bene per lui. La preghiera è il luogo in cui ascoltare i desideri presenti nel cuore di Dio e che liberano da ogni tentazione di voler vedere accomodato la/il giovane in questa o quella vocazione… Mi pare sia proprio nella preghiera che si impara ad assumere lo stesso atteggiamento del Padre che accoglie sempre la persona per ciò che è, ma, nello stesso tempo, non dimentica mai ciò che la persona è da sempre nel Suo disegno e non dubita che la/il giovane possa giungere a comprendere e rispondere al Suo progetto.

Quante volte mi è capitato di sentirmi dire, proprio da alcune giovani che hanno condiviso tempi di esperienza più lunghi: “come fai a fidarti di me, se non mi conosci?”. La mia risposta credo sia stata un po’ imbarazzata ma per alcune ha centrato nel segno: “Non lo so. Mi fido… credo che anche il Signore faccia così con te!”. Questa risposta è diventata sfida per lei ad esplorare le proprie possibilità e a costatare che, anche se in piccola parte, avevo capito bene! E questo ha dato la forza del rischio. Quando nella giovane i muri della difesa si sono un po’ allentati, credo sia più facile che possa sperimentare la gratuità dell’incontro con “quella suora” o “quella comunità” e costatare come non esistono coincidenze ma solo appuntamenti di vita fissati dalla Provvidenza di Dio!

Questo può diventare riconoscimento che la vita religiosa ha come unico significato l’“esserci per Cristo” e testimonia “la gioia che Dio dona a chi ascolta la sua chiamata” (RdC 16). La testimonianza dell’incontro personale con Gesù, e il vivere quel continuo processo di conformazione a Lui, proprio di ogni persona che ha donato tutta la propria vita a Cristo, può diventare una reale relazione educativa nei confronti della/del giovane. La gioia comunicativa di stare bene nella personale vocazione e nella propria comunità mi sembra sia un altro ingrediente indispensabile di quel pane buono del “vieni e vedi”.

Questo non significa mettere “sotto silenzio” le difficoltà del vivere insieme, volere che la vita religiosa sia accostata come un romanzo rosa. Al contrario! Mi pare di poter dire che sostanzialmente nella mia comunità non c’è differenza nel modo di relazionarci quando ci sono ragazze che stanno con noi per l’esperienza e quando non ci sono. Ciò che è importante è quell’atteggiamento di trasparenza che è “volere il vero bene, pensare bene, parlare bene, desiderare il bene, delle sorelle”, come ci chiedeva Don Alberione. Il fatto che ci sia sempre qualche persona di passaggio in comunità, ci chiede sempre e solo di essere più autentiche in tutto, ci dispone ad essere più capaci di attenzioni, di fedeltà alla preghiera e al nostro specifico servizio apostolico, più pronte a lasciare perdere ciò che è relativo per riorientare tutto nel Signore Gesù. È importante che le giovani comprendano che non esistono comunità ideali, ma esistono solo comunità in cammino nella risposta!

Mi pare di poter dire che questo è il desiderio più profondo che ogni Apostolina custodisce nel cuore e, se è normale sbagliare, questa rettitudine di fondo però fa verificare insieme i passi falsi… e ci si aiuta reciprocamente a cercare un modo migliore per crescere nella nostra missione. Dobbiamo certamente fare tanto cammino e farlo soprattutto meglio, ma credo che c’è stato tanto impegno da parte di tutte per crescere nella fedeltà al carisma che ci è stato affidato.

Le/i giovani che vengono in contatto con le nostre comunità non dovrebbero trovare la freddezza dei muri della casa! Se nelle loro famiglie, per svariate situazioni fanno esperienza di maternità e paternità fragili, l’incontro con le nostre comunità dovrebbe far costatare che realmente la comunità è una casa costruita sull’amore. È importante cercare insieme di offrire un clima affettivo caldo e sereno, fondato sul bene reciproco, sulla comune passione per la missione affidata a noi attraverso il carisma, sulla vita spirituale e apostolica che contraddistingue e orienta il quotidiano, sulla stima reciproca e l’interesse profondo per quanto la nostra sorella vive. E questo esige soprattutto che ci sia chiarezza nel comunicare – più che con le parole con lo stile di vita –, l’ideale dell’Istituto, la specificità del carisma che è possibile trovare vissuto così solo in questa Congregazione-comunità, e che per noi è il carisma vocazionale.

Insieme a questi spazi di vita, che mi sembra non possano non esserci nel “vieni e vedi”, mi sembra importante che nella comunità ci sia una sorella incaricata di accompagnare nell’esperienza: non dobbiamo invitare il giovane a conoscerci e poi lasciarlo solo e senza riferimenti! Potrebbe capire o vedere male, potrebbe volere cose che non esistono… potrebbe trovare più persone disposte ad aiutarlo tanto… da non capire chi ascoltare! E poi credo anche sia importante rispettare quella “legge di gradualità” specifica di ogni crescita vocazionale. La giovane che accosta le nostre comunità non è una “suora in miniatura”! Quanto ci sarebbe da dubitare se fosse così… Non possiamo pretendere cose che la giovane non può dare, avanzare pretese o spingerci su giudizi di autenticità o meno. Spesso i giovani oggi non hanno tempi regolari di preghiera, abitudine a frequentare l’Eucaristia quotidiana, a scandire la giornata con la Liturgia. Credo che la valutazione sulla capacità di incontro con Dio non sia tanto su quando e come esso è vissuto ma soprattutto che ci sia, e la testimonianza di una comunità può far sempre sorgere quel desiderio forse semplicemente assopito. C’è una gradualità da rispettare quando invitiamo la/il giovane a pregare con noi, quando facciamo conoscere la nostra spiritualità, o il nostro carisma, o quando permettiamo di fare esperienze apostoliche…

Quale vantaggio ne viene alla comunità per aver offerto alle/ai giovani l’opportunità di conoscere la nostra comunità? Credo che ne venga quello che per me è il dono più bello e prezioso: la restituzione di quel che dobbiamo essere nel popolo di Dio, la conferma della preziosità e necessità del carisma specifico della propria Congregazione… E insieme a questo la riconsegna di un’identità personale che mi viene rivelata nella mia vocazione di Apostolina tanto da farmi comprendere che non potrei mai pensarmi al di fuori di questa chiamata…

Nei confronti dei giovani stessi abbiamo noi per prime un debito di riconoscenza perché essi ci permettono di vivere la nostra vocazione e missione. Ed il centuplo (Mc 10,30) è già presente nel grazie che ci ripetono in mille modi – anche quando si sono incontrate difficoltà nel cammino e non tutto è proprio andato bene – perché li abbiamo aiutati a crescere come persone e li abbiamo portati con decisione al Maestro. Se siamo riuscite a fare questo… anche il servizio della comunità e di chi ha accompagnato nell’esperienza è realizzato e quel che rimane è… rendersi inutili.

Se c’è stato concesso di intonare il canto della Festa, perché per primi abbiamo risvegliato nel cuore del giovane il desiderio di Dio, la nostra voce deve diventare sempre più sommessa fino a tacere, perché sia il giovane stesso a riconoscere quali note compongono il canto della propria vita e imparare a cantarle per e con il Signore. Questo servizio appassionato al Regno, proprio della vita consacrata, permetterà che siano in molti, i giovani passati nelle nostre comunità a scoprirsi dono e a desiderare di farsi dono. È il più bel servizio di accompagnamento che il Signore ci può permettere di fare. E se poi Lui concederà che sia stato seminato nel cuore anche il desiderio di condividere quanto facciamo, perché abbiamo testimoniato uno specifico modo di servire il Regno… la gratitudine diventerà nuova responsabilità, e il “consumare la vita per le vocazioni” diventerà una sinfonia a più voci!