N.04
Luglio/Agosto 2003

Insegnamento della religione e mondo giovanile

Mi riferirò, in questo intervento ai giovani di età compresa tra i 15 e i 19 anni, che conosco meglio, essendo insegnante di religione in un liceo. Insegnare religione è, insieme, difficile ed entusiasmante, in un momento non facile per la scuola, nelle quale spesso sembra carente la “passione educativa”.

 

Difficile:

– per la tipicità dell’insegnamento;

– per la collocazione all’interno del tessuto culturale, sociale, ecclesiale, scolastico… italiano;

– per le attese diverse che sono sottese a tale insegnamento (culturali-catechistiche).

 

Entusiasmante:

– per il contatto con tanti giovani che percepiscono tale insegnamento in modo più libero, meno strutturato, meno “giudicante”;

– perché i giovani oggi sono “assetati” (consapevolmente o meno) di senso, di vita, di felicità;

– perché i giovani oggi sono soli e alla ricerca di adulti significativi;

– per il confronto/dialogo sulle diverse esperienze vissute nella Chiesa;

– per il confronto costante con colleghi credenti e no.

È solo in questo quadro che si può collocare anche un discorso vocazionale, che è, generalmente inteso in senso ampio, come orientamento, ricerca di senso, capacità di giudicare e prendere in mano la propria vita…, data la natura, le finalità, i modi dell’IRC nella scuola.

 

Quali giovani hanno davanti gli insegnanti di religione?

Per capirli e parlare loro è necessario capire questo tempo che è il “nostro”, ma anche “altro” rispetto a quello della nostra giovinezza, rispetto a quello che fu dei loro genitori. I giovani che abbiamo davanti, in questo mondo in rapido mutamento, sono i figli del tempo della “frammentazione” e della crisi, ma anche del tempo della globalizzazione, della tecnologia e delle comunicazioni, della multimedialità, della secolarizzazione. Tutto questo crea uomini e donne “diversi”, perché modifica i modi di apprendimento, gli approcci cognitivi, allarga gli spazi e, insieme, crea e dà vita ad un mondo virtuale, dove la conoscenza virtuale sostituisce una conoscenza diretta, il contatto con l’altro, più faticoso e conflittuale.

I giovani, che frequentano oggi la scuola, vivono nel mondo del benessere, del consumismo… e le loro attese, come quelle dei loro genitori, sono soprattutto di tipo materiale. Sono i figli del tempo nel quale “tutto ha un prezzo, ma niente ha valore” (Oscar Wilde); il tempo della competitività (non sembra esserci posto per chi non riesce, per chi non regge il ritmo e non risponde alla attese… anche a scuola); i figli dell’esteriorità, dell’apparenza più importante dell’essere. Si ritengono detentori di molti diritti, forse non più convinti che questi diritti siano universali, per ogni uomo, in quanto uomo. Sono loro, infatti, che hanno diritto ad un organo nuovo per il trapianto, non importa da dove viene; sono loro che hanno diritto ad un lavoro, hanno diritto ad un figlio, come, non ha importanza…

Non sembra che possa esserci per loro la Verità, ma solo verità parziali, frammentarie, personali… come nell’opera di Pirandello, per le quali non ha senso lottare e battersi, provare passioni. “Nel clima della decadenza tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la passione e la fatica del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile con il solo interesse della consumazione immediata”[1].

In classe capita spesso che uno dica di essere credente e l’altro no, senza che questo generi discussione e confronto. È spesso difficile instaurare una discussione, un confronto critico; per gli studenti è difficile anche utilizzare gli spazi di autogestione, gli spazi delle assemblee e degli incontri tra loro. I rapporti personali sono spesso difficili a partire dalla famiglia, fino ai rapporti di coppia. Non è insolito vedere i giovani tra loro, in silenzio, senza che sappiano di cosa parlare, senza che ci sia una comunicazione profonda, in questo tempo delle comunicazioni rapide, universali, troppo spesso superficiali, emotive e distratte.

Eppure, quando sorge una certa fiducia, quando pensano di poter essere ascoltati, i giovani si aprono con facilità, raccontano di sé, della loro vita, in modo così sincero e ampio da lasciare stupiti. In questo tempo fatto di “attimi fuggenti” in cui ciò che conta è il frammento e la felicità che esso può dare, non ha apparentemente senso parlare di eternità, di impegni duraturi che richiedono cammini seri, ciò che conta è vivere ora, al massimo, mettendo in atto tutte le possibilità che il mondo offre per provare ogni tipo di emozione passeggera, ma intensa, per gustare il proibito, per uscire da una quotidianità dorata che è spesso inutile routine di gesti che ti tiene lontano da quella pienezza di sensazioni che il corpo (questo grande protagonista del nostro tempo) può dare.

Non a caso alunni capaci e apparentemente partecipi, confessano di sopportare con fatica l’impegno quotidiano di sei giorni di scuola, con l’unica speranza di potersi “scatenare” il sabato, in quelle notti che sono un tempo “altro” dal tempo del giorno/lavoro/ monotonia.

 

Dove si colloca l’IRC?

A guardare dall’esterno, questi giovani avrebbero tutti i motivi per essere felici, eppure non lo sono. Non lo sono nelle lunghe e attese notti spese nella speranza di trovare emozioni e passioni forti. Non lo sono nelle relazioni interpersonali spesso basate sull’interesse, sul prestigio, sull’avere… Non lo sono nel rapporto con se stessi spesso in fuga, non solo nelle droghe, ma nell’incapacità, o meglio nella paura del silenzio, della solitudine, del guardarsi allo specchio… Sanno di non essere felici e di essere assetati di vita e, talvolta, chiedono: “Esiste davvero la felicità? Come trovare un senso alla vita? Tu lo hai trovato?”.

Sono convinta che questo è un tempo favorevole, un tempo (kairos) di Grazia. Il cuore dell’uomo è fatto per “un di più”, per un orizzonte diverso da quello solo materiale. C’è oggi, una nostalgia del Totalmente altro (Horkheimer), che si avverte in modo forte nel contatto con i giovani, nelle ansie e attese del loro cuore. Inevitabilmente l’uomo porta in sé quest’ansia, questo bisogno di non “viver come bruti” (Dante), ma di andare oltre, di porsi domande di senso. C’è un bisogno di trascendenza, di risposte di significato, che porta i giovani ad aprirsi con facilità al “mistero”, al soprannaturale. È difficile incontrare un giovane, oggi, che si dichiari ateo, che difenda o sostenga la convinzione di un mondo solo materiale, la fine di tutto dopo la morte. Al contrario è facile incontrare giovani che credono con facilità ad ogni cosa (basta pensare al diffondessi di certe trasmissioni televisive), che accettano, con semplicità e convinzione indicibile, sincretismi religiosi, che rifiutano la fede tradizionale trasmessa loro non per una convinzione contraria, ma per ignoranza e insufficiente formazione e cadono in un fideismo a-razionale e illusorio.

Credo che sia importante allora soffermarci a pensare, talvolta, quale Dio cercano questi giovani, assetati di vita, di tenerezza, di sicurezza… per capirli meglio, per capire le loro attese, ma, anche, per mettere in discussione, con coraggio, il nostro insegnamento, la nostra presenza di adulti vicino a loro, il nostro modo e stile di comunicare… Chiediamoci anche, quale Dio incontrano i giovani nel mondo occidentale, quale Dio vedono quando guardano i cristiani, quando partecipano alla catechesi, quando partecipano all’Eucaristia nella comunità parrocchiale?

Spesso incontrano un Dio lontano dalla vita, perché non sempre è facile coniugare coerentemente fede e vita; oppure un Dio “perbene”, che, in fondo, non dice altro che ciò che dice la società “perbene”; o ancora un Dio che è rito, tradizione, ma non tocca la vita, non la coinvolge, non riesce a trasmettere una forte spiritualità (sembra allora che le religioni orientali lo facciano di più, pur essendo, in genere, assai esigenti); un Dio che ognuno vive da “sé”, privatamente, perché anche se si parla di comunità tante volte queste comunità non ci sono, si è individui, non conosciuti e non accolti con i propri problemi e la proprie gioie…

A scuola è da questa realtà che partiamo quotidianamente, ascoltandoli e chiedendoci perché si avvalgono dell’IRC, quali attese hanno?… Mi aiutano due icone bibliche, quella dei discepoli di Emmaus e quella della Samaritana.

 

I discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)

Sono anche loro “in fuga”: fuggono dalla delusione, fuggono dai sogni che credono traditi, fuggono dall’impegno, dalla persecuzione, dalla responsabilità, dalle domande che sembrano non poter avere risposta. Mi ricordano i tanti giovani che hanno ricevuto una formazione religiosa. Hanno partecipato e provato entusiasmo per le iniziative proposte loro, hanno creduto di aver trovato il Messia (la fede vera, il senso della vita, la risposta alle loro attese).

Non sono pochi questi giovani. Molti frequentano ancora la catechesi, gli incontri parrocchiali, le giornate mondiali della gioventù… Rimane in loro qualcosa, qualche conoscenza frammentaria, ma si ha l’impressione che “crescendo abbiano continuato a nutrirsi col latte”. Che sappiano qualcosa, ma che la loro vita non sia stata trasformata, che non abbia un senso, un orientamento. Succede qualcosa come per i discepoli di Emmaus e loro “smarriscono Gesù”, “credevamo fosse Lui, ma sono passati tre giorni”. Se ne vanno, tornano alla vita ordinaria, di tutti, col cuore deluso.

Gesù si fa loro compagno di strada e li ascolta. Mi sembrano due indicazioni forti. Gesù non parla subito, non giudica, non rimprovera… si fa compagno di strada, sulla loro strada che pure porta lontano da Gerusalemme. Non ha fretta, perché ciò che gli sta a cuore è la persona; non ha paura di percorrere una strada che apparentemente allontana, la strada di chi fugge. E mentre si fa compagno, ascolta. Ascolta le loro delusioni, le loro paure, l’amarezza del cuore, il non senso della vita, come un viandante, uno che è sulla stessa strada, uno che, come loro, ha conosciuto dubbi e paure.

È questo che avviene spesso anche durante l’ora di religione. Emergono dubbi, paure, critiche, delusioni, attese inutili… Solo dopo Gesù inizia a “spiegare le Scritture”. Forse hanno già conosciuto le Scritture i discepoli di Emmaus, ma non sono capaci di “leggerle”; non hanno senso per loro nel momento della delusione, dell’imprevisto, della difficoltà.

Molti giovani conoscono la Bibbia, anzi credono di sapere tutto, ma non sanno leggere, non è una Parola viva, significativa, efficace che hanno davanti, è solo un libro fra tanti. Hanno bisogno di “cibo solido”, sono cresciuti sotto tanti aspetti umani e sono ancora bambini nella conoscenza della fede. Nell’epoca del linguaggio scientifico e tecnologico, l’uomo ha bisogno di “riscoprire” altri linguaggi, altri modi di porsi di fronte alla realtà. “Spiegare le Scritture”, significa avvicinare la Parola con sapienza, ma anche imparare a comprendere, a leggere e interpretare la storia alla luce della tradizione cristiana, che anche solo a livello culturale ha segnato profondamente e segna la nostra storia.

Mi sembra che, per i giovani, questo significhi anche scoprire la necessità di uno spazio di silenzio, di riflessione, per diventare critici nei confronti di una mentalità comune, che, come i discepoli di Emmaus, li porta a vedere solo alcuni aspetti della realtà. È necessario acquistare, progressivamente, una certa autonomia di giudizio. È questo uno degli obiettivi della scuola, un obiettivo trasversale ad ogni disciplina, perché è un aspetto centrale della formazione della persona, chiamata ad acquisire autonomia di giudizio e di decisione. Per i discepoli di Emmaus come per i giovani, è però necessario essere guidati in questo cammino, trovare un “maestro”, un compagno di strada.

Questo ci fa interrogare sull’importanza di educatori significativi, di insegnanti significativi! Qui si colloca anche l’insegnamento della religione o meglio l’insegnante di religione, che, in un’età critica e di scelte, spesso, è l’ultimo contatto con le domande di senso, l’ultima possibilità di un confronto e di una conoscenza di ciò che è la fede cristiana, un aiuto per analizzare i fondamenti di credibilità del cristianesimo.

Non è solo una comunicazione che non ci riguarda personalmente; come insegnanti di religione non ripetiamo una lezione imparata a memoria. È un annuncio che coinvolge anche noi, in prima persona, ed esige esperienza e coerenza. Credo si possa vedere anche così, l’idoneità ecclesiale dell’IRC. “Ciò che abbiamo udito, ciò che le nostre mani hanno toccato”… che la nostra vita ha accolto… questo comunichiamo a voi. Come educatori e annunciatori non basta avere “frasi fatte”, verità astratte. Bisogna metterci, insieme, in discussione, lasciarci inquietare, avere il coraggio, anche, di non avere subito risposte. Quando si instaura un dialogo, una relazione, il “cuore si scalda e arde”, allora la vita cambia e gli occhi si aprono. Allora si può vedere ciò che prima non si vedeva e riconoscere il segno dello “spezzare il pane”. Questo gesto è legato, per noi, all’Eucaristia, che è celebrazione e memoria della morte e risurrezione di Gesù: “Fate questo in memoria di me”. Ma proprio per questo indica anche il senso più profondo della vita e dell’esistenza umana: spezzare la vita, come il pane, per essere cibo per gli altri, dare la vita per amore.

È una logica nuova che questi discepoli “vedono”; accolgono uno stile che cambia la loro vita. Tornare a Gerusalemme è tornare nel luogo delle persecuzioni e della croce, ma ora non hanno più paura, non hanno più il gelo nel cuore. Ora il “cuore arde” nel petto, perché sanno perché spendono la loro esistenza.

Solo dopo l’incontro vivo con Gesù, per i discepoli di Emmaus, nasce una condotta diversa. È ciò che ci presenta la Scrittura: “Io ti ho scelto, salvato, amato. Io sono il Signore Dio tuo, Io sono santo… per questo tu sarai santo…” (Deuteronomio) Il decalogo è la conseguenza di un incontro di amore: l’Alleanza! Non si può appartenere al Dio della vita, se si disprezza la vita, non si può amare il Dio della giustizia e vivere nell’ingiustizia… Non ci si innamora senza cambiare profondamente la vita. La “morale” non può essere il punto di partenza per presentare il cristianesimo, per parlare del senso della vita.

Mi sembra che i giovani siano particolarmente sensibili a questo aspetto. Desiderano capire; non si possono solo imporre regole, spesso con un linguaggio lontano dal loro; desiderano trovare un senso alla vita e all’agire, ma questo richiede un cammino, un percorso, soprattutto nasce dall’incontro con esperienze vitali di amore, con persone che sanno mostrare la gioia di una vita piena. La morale non può mortificare la voglia di vivere, anzi, nella Scrittura, è per la vita che Dio dona all’uomo la legge: “Io pongo dinanzi a te la vita e la morte, scegli dunque per vivere felice…”.

È questo aspetto di vita che possiamo annunciare ai giovani. Una vita che, certo, spesso è in contrasto con quella presentata dei mass-media o della cultura generale. Ma è davvero vita quella che ci presenta la pubblicità? Mi piace uno spot televisivo di questi mesi che ripete: “Tu devi essere bello, tu devi essere forte, tu devi essere…”.

I giovani sentono il peso di questo dover essere e sanno bene che, in fondo, lì non è la felicità vera. I discepoli tornano a Gerusalemme e a Gerusalemme incontrano una comunità, è permesso loro raccontare la “loro” esperienza, nella condivisione reciproca. È questo narrare a vicenda, per me fondamentale.

Quali “comunità” ci sono per i giovani? Spesso le famiglie sono in crisi, non c’è tempo per parlare in profondità, spesso le esperienze con gli amici sono difficili, il dialogo duro. Anche in questo caso è significativo uno spot televisivo, che invitava ad ascoltare gli altri, senza chiudersi nel proprio “Bla, bla…”. È questa anche una difficoltà di insegnare religione, perché poi dovrebbe esserci un riscontro, un luogo dove incontrare e vedere ciò che si è intuito.

I giovani sono, oggi, bisognosi di un’esperienza ricca di accoglienza, di fraternità, di comunicazione profonda. Una società individualista, dove ciascuno deve essere autosufficiente, fa nascere il bisogno di comunità vere, umane, fraterne. Anche le parrocchie, le Chiese… non sono sempre capaci di questa accoglienza, di questa fraternità, di questo essere famiglia perché c’è un Padre comune e tra noi siamo fratelli. Ancora una volta anche la comunicazione della fede rimane solo comunicazione di parole? Si crede che anche chi era andato lontano dal cenacolo, può testimoniare la ricchezza della sua esperienza e aiutare i fratelli? Si crede che i giovani hanno qualcosa di importante da insegnare?

 

La Samaritana (Gv 4,5-30)

La seconda icona mi aiuta a presentare un altro gruppo di giovani, quelli che vivono un’esperienza personale, talvolta anche spirituale e religiosa, al di fuori dei canali e dei contatti abituali e tradizionali della Chiesa. Oggi questi giovani sono in aumento. Giovani che non hanno ricevuto nessuna formazione religiosa, che provengono da altre esperienze religiose, che non hanno avuto contatti con nessuna parrocchia. Alcuni di loro scelgono di avvalersi dell’insegnamento della religione a scuola, altri, pur non avvalendosi, pongono spesso domande all’insegnante di religione. (Spesso sono domande profonde, interessanti… alle quali non è sempre facile dare risposta!!!).

Se Gesù non poteva evitare di passare per la Samaria, sicuramente poteva evitare di fermarsi, di parlare… Mi piace pensare che si reca nel territorio dei Samaritani intenzionalmente. È una provocazione per noi a cambiare mentalità, ad avere coraggio, a cercare contatti personali, a comunicare con tutti, anche nei luoghi “lontani”, “nemici”, di frontiera. E spesso il mondo dei giovani ci appare come questo luogo “lontano”, diverso, ostile. Può darsi che sia tale solo in apparenza.

Per l’IRC è una sfida continua! Certamente noi stessi, tante volte, osserviamo come coloro che sono, almeno apparentemente, lontani della fede sono magari tanto generosi e aperti ai bisogni degli altri da ricordarci il buon samaritano del Vangelo! Gesù inizia a parlare con questa donna samaritana, usando il linguaggio che lei può intendere, anzi partendo dalla concretezza del suo essere al pozzo e ponendosi Lui stesso nella condizione di colui che ha bisogno di ricevere. Anche questa donna può dargli qualcosa: acqua per la sete del corpo, poiché è per questo che è giunta fin lì.

Aprirci al dialogo con il mondo dei giovani è metterci noi stessi nella condizione di chi ha prima di tutto da ricevere; è cercare un linguaggio adatto, che riesca a raggiungere il cuore, che permetta un incontro vero, autentico; è accettare il punto di partenza dell’altro, qualunque esso sia; è essere esperti in umanità. Piano piano, come è nello stile di Giovanni, il discorso si “innalza”, tocca i bisogni più profondi del cuore. Dalla sete del corpo si passa ad un’altra sete, dall’acqua del pozzo, si passa ad un’acqua che disseta per sempre, che diventa sorgente zampillante, che dà pienezza di senso e di vita.

Non c’è bisogno di tante parole, la donna capisce, apre la sua vita allo stupore e alla speranza, libera le attese del cuore, per troppo tempo represse, che ha, forse, cercato di colmare con false illusioni, con cinque mariti, e uno che non lo è, con una vita sregolata… Assomiglia molto questa donna a tanti giovani che colmano la sete con acque che non dissetano, perché non trovano l’acqua vera; perché non hanno altro per colmare il vuoto del cuore che le effimere ricette della droga, del sesso, del potere, del denaro… “idoli delle mani dell’uomo”.

I giovani aspettano un messaggio globale, che riempia tutta la vita. Non possiamo, infatti, frammentare la vita. Per noi è prevalso l’aspetto razionale (la ricerca su Gesù, i criteri di autenticità) per i giovani prevale, oggi, l’aspetto affettivo, relazionale. I discepoli di Emmaus e la Samaritana sperimentano la gioia e la festa! In un tempo nel quale tanto si parla di qualità della vita, di tempo libero, di divertimento… riscoprire il senso profondo della festa, così come nasce nella cultura biblica, è interessante.

Festa non come evasione, ma come autentica dimensione umana, per un uomo che non è fatto solo per produrre e consumare, ma che è creato per l’incontro con l’altro uomo, per la contemplazione del vero e del bello, per la ricerca di se stesso e di orizzonti ampi, di Dio… È, mi sembra, il senso del sabato ebraico!

Mi sembra urgente, per i giovani, evidenziare l’utopia, pensare in grande, aprire spazi ampi, permettere che la barca, fatta per il mare, possa finalmente prendere il largo, accettando i rischi che questo comporta, senza aver tutto garantito, assicurato, già sperimentato, calcolato… Certo è necessario che chi accompagna il giovane in questo cammino, chi accetta o sceglie di essere educatore, a tutti i livelli, sappia per primo per cosa spende la propria vita, abbia per primo accettato i rischi e la fatica di voler vivere in pienezza e non si accontenti di… sopravvivere!

Allora sia la Samaritana che i discepoli di Emmaus sono capaci di correre liberi, di andare verso gli altri, di costruire un mondo più giusto, di essere loro stessi testimoni, con le parole e la vita, del senso vero dell’esistenza umana, di compiere scelte definitive e autonome.

 

Note

[1] FORTE B., Dire Cristo ai giovani nel tempo della crisi, Ed. Paoline, Milano 1998, p. 10.