N.02
Marzo/Aprile 2018

Nel cuore del discernimento vocazionale

Il discernimento inizia con la Creazione, anzi ne è lo “stile”. Il libro della Genesi presenta l’atto stesso della creazione come un enorme “discernimento” di Dio. Secondo la narrazione biblica Dio crea distinguendo. Separa la luce dalle tenebre, le acque dall’asciutto, ecc… Si ha l’impressione che il testo biblico non sia tanto interessato a una creazione “dal nulla”, quanto piuttosto a un creare che rassomiglia a un “mettere ordine”, cioè a formare un “kosmos”.  Creare è far uscire dal magma dell’indifferenziato, dell’indistinto. Nel racconto Dio continua infatti creando gli essere viventi “ciascuno secondo la propria specie”, cioè come un ulteriore lavoro di discernimento. Perciò la “conoscenza del bene e del male” sta al centro del giardino, ne è la cifra più profonda. Questa conoscenza è riservata a Dio: l’uomo non può appropriarsene, non la può “mangiare”.

L’uomo è chiamato solo a fidarsi di Dio. Ma il testo biblico racconta come l’uomo si lascia ingannare e finisce per non fidarsi. Allora Dio fa coincidere l’umano “non fidarsi” con un dono straordinario: la scoperta del bene e del male. Cioè Dio trasforma il peccato in insegnamento. Nell’atto stesso di peccare l’uomo inizia a capire la differenza fra il bene e ciò che sta facendo. Si può dire che l’uomo riceve da Dio il dono del discernimento proprio perché fa fatica a fidarsi.

Il discernimento è la salvezza dal peccato più profondo ed originario: la mancanza di fiducia, la mancanza di fede. In altre parole: il discernimento è “la fede in cammino”, oppure “la più profonda guarigione dal peccato originale”. Perciò i Padri descrivono il battesimo (che toglie il peccato originale) come “illuminazione” ed elencano fra i suoi frutti la capacità di “distinguere il bene dal male”.

Ricevendo il dono del discernimento, l’uomo non solo impara di nuovo a fidarsi, ma si ritrova ad agire con lo stesso stile di Colui che ha creato “discernendo”.  Quando Dio affida all’uomo il discernimento sta affidando all’uomo il proseguimento della Sua opera creatrice. Discernere è continuare la Creazione.  La vera creatività dell’uomo risiede proprio nel discernimento, cioè nell’agire distinguendo il bene dal male o distinguendo ogni cosa “secondo la propria specie”. La vera creatività dell’uomo risiede nel “mettere ordine nella propria vita”.

Perciò nel resto della Bibbia, questa capacità dell’uomo di fare della propria vita il proseguimento della Creazione, viene spesso designata con il termine di “Sapienza”. Il termine ebraico (“hokmah”) designa in primo luogo l’abilità tecnica dell’artigiano, del lavoratore che “crea”, dell’artista. Così come Dio ha creato tutto attraverso la Sapienza, cioè come un artista, adesso l’uomo può fare della propria vita un’opera d’arte, una nuova creazione, o meglio: il punto culminante della Creazione. Dio, il Creatore, l’Artista, Colui che discerne il bene dal male, lascia l’ultima parola del suo discernimento, l’ultima parola della Creazione, all’uomo stesso. E questa è la vita dell’uomo. “Mettere ordine nella propria vita” è quell’opera d’arte che porta a compimento la Creazione.

Nel Nuovo Testamento questo discernimento dell’uomo che diventa “storia di Dio” è la persona stessa di Gesù. Gesù è Dio che sceglie definitivamente l’uomo e l’uomo che sceglie definitivamente Dio. Ma questo processo di scelta che è Gesù, è un processo “inclusivo”, cioè in cui possiamo entrare con la nostra vita. Anzi, è il processo nel quale ci troviamo.

In particolare il Vangelo di Giovanni mette in scena il discernimento dell’uomo come un processo fatto a Gesù. Tutto il Vangelo può leggersi come un lungo processo in cui l’imputato è Gesù, che si ritrova fra le istanze dell’accusa (i farisei, i dottori della legge, molti dei potenti,…) e la difesa (i guariti, i perdonati, … un ladro condannato a morte).  Il processo storico in cui sarà condannato, non si allarga solo all’intera vita di Gesù, ma prosegue anche attraverso la storia nel cuore di ciascuno. La struttura narrativa del Vangelo “obbliga” il lettore a situarsi in questo processo. Nel cuore di ciascuno l’accusato è Gesù stesso perché nel cuore di ciascuno c’è il non fidarsi di Dio e della sua salvezza. Gesù (in ebraico “Jeshua”) significa “Dio salva” o “Salvezza di Dio” ed è esattamente ciò che viene messo in discussione nel cuore dell’uomo. L’“accusatore” cercherà di convincerlo che “Dio non salva”, o che non è vero che “Dio-salva”, non è vero che “Jeshua”.

“Accusatore” in ebraico si dice “Satana” ed è la voce che in ciascuno di noi si oppone direttamente alla fede. Quando le prime generazioni cristiane hanno dovuto tradurre questo termine in greco, hanno scelto il verbo “dia-ballo” (da cui “diavolo”). Esso significa sia “accusare” che “dividere” e infatti l’effetto dell’accusa è la non relazione fra noi e il Cristo, fra noi e noi stessi.

Invece “avvocato difensore” si dice in greco “Paraclito” che significa anche “Consolatore”. Dal Vangelo di Giovanni in poi, “Paraclito” designa lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è Colui che in noi ci “ricorda” che “Dio-salva”, ci fa credere nella Salvezza di Dio. Come accenna più volte San Paolo, solo nello Spirito Santo possiamo dire che quell’uomo appeso alla croce è il Cristo, il Salvatore, la Salvezza stessa di Dio.

Premessa a ogni discernimento è dunque riconoscere che il nostro cuore è come una “sala del processo” in cui parla sia l’accusatore che il Paraclito e in cui siamo di fronte a Gesù stesso. Perciò non c’è discernimento all’infuori dalla preghiera. Il discernimento non è una tecnica psicologica o un metodo “manageriale” ma inizia col mettersi davanti alla croce di Cristo.

E’ interessante considerare che nel sec. IV, quando i cristiani hanno potuto costruire i propri edifici di culto, non hanno scelto lo schema architettonico dei templi pagani, ma hanno scelto la “basilica”, che era, fra le altre cose, l’aula in cui si amministrava la giustizia (originariamente, l’aula del “basileus”, il re-giudice). Entrare nello spazio sacro cristiano, cioè entrare nella preghiera, è entrare in un “processo interiore” dove l’accusato è Gesù stesso e dove ascoltiamo due “voci” (l’accusa e la difesa) che non sono identiche al nostro “io” ma che il nostro io deve accettare o rifiutare. In questo processo non si può non prendere posizione.

Già nel Vangelo di Giovanni il lettore è portato alla scelta di campo. E se sceglie di associarsi alla voce del Paraclito, allora si pone come “testimone” in favore dell’imputato. “Testimone” si dice in greco “martys” (da cui martire). Punto di arrivo del discernimento è dunque il “martirio” nel senso di “testimonianza radicale” in favore di Gesù con tutta la propria vita. Non c’è vero discernimento se non si traduce in testimonianza di vita.

I Padri hanno riflettuto in tanti modi questo insegnamento sul discernimento, cioè sul decidersi nell’ascolto interiore del Cristo. Agostino parla del “maestro interiore”, Gregorio di Nissa paragona l’anima alla sposa del Cantico in cui alternano desiderio e paura, abbraccio e assenza. Ma sono i “padri del deserto”, che raccolgono gli insegnamenti più “pratici” su come distinguere la voce del Paraclito dalla voce dell’accusatore. Essi insegnano come difendersi dai tanti “logismoi” (pensieri) inviati come altrettanti inganni dal “nemico della natura umana”.

Anche i maestri medievali riattualizzano la pratica del discernimento in particolare attraverso tanti criteri operativi per la “lotta spirituale”, come per esempio Kempis nella sua “Imitazione di Cristo” o Santa Caterina da Bologna nelle sue “Sette armi spirituali”. Quest’ultima distingue sapientemente i diversi cambi di strategia del “maligno” e scrive: “Con vero discernimento dunque conviene usare tutte le virtù spirituali e umane, poiché il nemico, quando vede che non può impedire alla serva di Cristo di ben fare, cerca di ingannarla con il troppo fare” (Sette armi, I,1). Ma è probabilmente Ignazio di Loyola che sintetizza con una pedagogia più lineare gli insegnamenti della Tradizione nelle sue “Regole per riconoscere gli spiriti”, pensate per chi sta facendo gli Esercizi spirituali, cioè per chi sta dedicando tempi abbondanti alla preghiera silenziosa.

La prima indicazione di Ignazio è che ci possiamo trovare in due  “situazioni vitali” diametralmente opposte. La prima “situazione vitale” è di chi va di male in peggio e la seconda di chi cammina verso il bene. Se stiamo in un momento della vita o trattiamo di un ambito della nostra vita in cui stiamo andando sempre peggio e ci stiamo allontanando sempre più dal Signore, lo “spirito cattivo” –ci dice Ignazio- cercherà di incoraggiarci in questa via del male “proponendoci piaceri apparenti,… per meglio mantenerci e farci crescere nei nostri vizi e peccati”. E’ tipico di questa situazione la “voce nemica” che minimizza il male fatto, che lo autogiustifica, che mi dici “tanto posso smettere quando voglio”, “tanto non faccio male a nessuno”, “tanto lo fanno tutti”. Oppure che improvvisamente mi dice: “tanto ormai sei spacciato, ormai non puoi fare a meno di fare così”. Si tratta sempre di una accusa perché ci giudica  incapaci di andare avanti senza peccare e ci sta dicendo che Dio non mi salverà da questo peccato. Nella stessa situazione –continua Ignazio- lo spirito buono “stimola al rimorso la coscienza con il giudizio della ragione”. Cioè per esempio mi fa capire che il male non solo è male ma “fa male”. Mi fa capire che non ho bisogno di fare il male per andare avanti. Mi fa capire che questo male che faccio contraddice il desiderio più profondo del mio cuore, cioè che questo male mi provoca una contraddizione interna, una divisione, una tristezza.

Se scelgo di ascoltare lo “spirito buono” e cambio rotta, allora mi trovo in una seconda “situazione vitale” che Ignazio chiama “il procedere di bene in meglio”. Da notare che per trovarmi in questa nuova situazione non ho bisogno di essere “un santo”. Basta che la mia “freccia”, anche piccola, anche lontana e tremolante, desideri puntare verso Dio. Posso essere anche il buon ladrone. Ebbene in questa nuova situazione, il meccanismo precedente si inverte. Ignazio dice: “In questo caso, infatti, è proprio dello spirito cattivo rimordere, rattristare, porre difficoltà e turbare con false ragioni, per impedire di andare avanti”. In questo caso si scatenano le accuse del tipo: “non potrai continuare così”, “ci sono delle cose più urgenti da fare e che contano di più”, “se gli dai un dito Dio poi ti chiede il braccio”, “se vai avanti perdi la tua autonomia e perdi il controllo su te stesso”, “è tutta una montatura ideologica che ti sei costruito”, “sei stato influenzato da un contesto che non ti fa essere te stesso”, “nel fondo fai questa strada per puro egoismo”, “quanto tempo stai buttando via!”, “stai basando la tua vita su chiacchiere”, “nessuno ci crede veramente a queste cose”, “tanto Dio non potrà mai perdonare ciò che hai fatto”, “Dio ha altro da fare che pensare a te”, “Se davvero Dio ti amasse avrebbe fatto di più per te”, “ormai è troppo tardi”, “la tua vita è già segnata e già sbagliata in partenza”, “nel fondo sei terribilmente solo”.

Sempre in questa stessa situazione in cui camminiamo verso il bene, Ignazio dice: “E’ proprio dello spirito buono dare coraggio ed energie, consolazioni e lacrime, ispirazioni e serenità, diminuendo e rimovendo ogni difficoltà, per andare avanti nella via del bene”.

In seguito Ignazio, sempre nella prospettiva di chi cammina verso il bene (cioè fondamentalmente di chi si mette in preghiera), passa a definire meglio la grammatica di base del discernimento spirituale. I sentimenti lasciati dallo spirito buono li raduna sotto l’etichetta complessiva di “consolazione” e i sentimenti lasciati dallo spirito cattivo li raduna sotto l’etichetta complessiva di “desolazione”. E’ importante precisare qua che Ignazio presuppone una capacità di ascolto interiore tale da dare un nome ai sentimenti, o meglio, a ciò che lui chiama “mozioni”. Non si tratta di pensieri o di idee, ma piuttosto di stati d’animo, di “lame di fondo” che si muovono dentro di noi e che sono provocate dai pensieri che ci attraversano. Potremmo dire che sono il “retrogusto” lasciato da un buono o un cattivo vino dopo averlo assaggiato. O il profumo (o cattivo odore) lasciato da una persona che attraversa la nostra stanza. Ogni pensiero e ogni azione lascia con sé e dietro a sé un riverbero profondo che parla della sua sintonia o dissintonia con il desiderio di Dio seminato nel più profondo del nostro cuore e nel quale stiamo camminando.

Sant’Ignazio descrive ulteriormente la mozione lasciata dallo spirito buono affinché lo possiamo riconoscere più facilmente. Egli scrive: “La consolazione spirituale. Si intende per consolazione quando si produce uno stimolo interiore, per cui l’anima si infiamma di amore per il suo Creatore e Signore, e quindi non può amare nessuna delle realtà di questo mondo per se stessa, ma solo per il Creatore di tutte; così pure quando uno versa lacrime che lo portano all’amore del Signore, sia per il dolore dei propri peccati, sia per la passione di Cristo nostro Signore, sia per altri motivi direttamente ordinati al suo servizio e alla sua lode. Infine si intende per consolazione ogni aumento di speranza, fede e carità, e ogni gioia interiore che stimola e attrae alle realtà celesti e alla salvezza dell’anima, dandole tranquillità e pace nel suo Creatore e Signore”. Sottolineiamo alcuni termini. Il primo criterio è l’amore. La consolazione è fondamentalmente una fiamma di amore. Che indica la strada dell’amore. Il secondo criterio è che questo amore è amore per Dio. Non è il disprezzo delle cose ma è il distinguere fra Dio e le cose. E’ l’uscita dall’idolatria. E’ amare le cose non come fine ma come mezzo per amare. Segue l’indicazione importantissima sulle lacrime. La consolazione non è una “gioia facilona”, non è un “ma che importa!”, non è “sorrisi e canzoni”. La consolazione assume pienamente la situazione in cui ci si trova e può avere tutte le sfumature delle emozioni forte che si hanno in un abbraccio quando due persone si ritrovano dopo tanto tempo. La consolazione è percezione della presenza di Dio. Quando un bambino si perde in un supermercato e poi ritrova la mamma, la abbraccia e inizia a piangere. Sono lacrime in cui si mischia tutto: felicità per averla ritrovata, sfogo della paura avuta, dispiacere per essersi perso, consegna di tutto il cuore,… tutto questo è consolazione. Poi Ignazio dona la cartina di tornasole perfetta per riconoscere la consolazione: le tre virtù teologali. Un sentimento è consolazione se aumenta la fiducia in Dio, se respiriamo a pieni polmoni guardando il futuro e desideriamo vivere, se amiamo di più e desideriamo amare di più. Infine Ignazio chiude la sua definizione riprendendo le tonalità di base della consolazione che sono la gioia e la pace. Se un pensiero lascia un sentimento o “mozione” che si può descrivere con queste parole o con alcune di queste parole, allora è un pensiero che viene dallo spirito buono. E’, diremmo noi, lo Spirito Santo che soffia nel nostro cuore. E’ la parola che il Signore stesso mi ha dato.

Simmetricamente, Ignazio definisce la desolazione: “La desolazione spirituale. Si intende per desolazione tutto il contrario. Per esempio l’oscurità dell’anima, il turbamento interiore, lo stimolo verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a diverse agitazioni e tentazioni: così l’anima s’inclina alla sfiducia, è senza speranza e senza amore, e si ritrova pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore. Infatti, come la consolazione è contraria alla desolazione, così i pensieri che sorgono dalla consolazione sono contrari a quelli che sorgono dalla desolazione”. Il primo termine scelto, “oscurità”, è indicativo perché richiama la paura e l’impossibilità di vedere, cioè l’impossibilitò di capire. La desolazione toglie la chiarezza sul “bersaglio” della nostra vita. L’idea dell’attrazione verso “cose basse e terrene” suggerisce un “vuoto” sentito nel cuore che si deve riempiere subito con qualche soddisfazione immediata, ma suggerisce anche un cuore che si sente affine a ciò che è sporco, in decomposizione, riprovevole. La parola “inquietudine” indica la perdita della pace, di quella pace data da Dio. Il pensiero della desolazione cerca di togliere il dono che Dio ha regalato al cuore. Il nemico attacca proprio subito dopo che il cuore sia stato visitato da Dio. Perciò a volte i pensieri si alternano velocemente e diventa più difficile distinguerli. Di nuovo qua Ignazio usa come criterio sicuro le tre virtù teologali, ma questa volta all’incontrario. Se una parola toglie la fiducia in Dio, fa sentire il futuro chiuso e oscuro, affievolisce l’amore, allora quella parola non è di Dio, quel pensiero è sussurrato dal nemico. Da colui che Ignazio chiama “nemico dell’umana natura”. Noi potremmo dire: nemico del desiderio profondo che è il desiderio di Dio. Infine Ignazio ribadisce ancora alcune parole chiavi della desolazione: la pigrizia che si oppone alla forza dell’agire data dallo Spirito, la tiepidezza che è lo spegnersi della fiamma, la tristezza che è la tonalità di fondo dominante, e soprattutto la separazione dal Signore perché il “diaballo” è colui che accusa e separa.

E’ importante spiegare che il nemico è il maestro della menzogna. Cioè il pensiero che mi porta desolazione è una bugia, sempre. Ma siccome l’ingannatore sa che non c’è menzogna peggiore di quella che ha una parte di verità, allora sceglie sempre un particolare vero. Una debolezza, un limite, un peccato. E lo ingigantisce fino a farmi credere che tutta la mia persona e la mia vita è quel peccato o quel limite.

L’importante nel cammino del discernimento non è non provare desolazioni. Le desolazioni sono inevitabili perché il nemico parla costantemente al nostro cuore. Ma l’importante è saper rileggere ciò che vive il mio cuore. Rileggendo una desolazione o una concatenazione di inganni imparo spesso di più che se avessi avuto una grande pace e gioia. E’ nell’alternanza degli spiriti e delle mozioni che Ignazio ha capito il “linguaggio di Dio” nel cuore dell’uomo. Perciò è fondamentale fermarsi, ascoltarsi, dare un nome ai sentimenti, distinguere i diversi pensieri e i diversi inganni, segnarsi quelle parole che il Signore mi ha detto.

Possiamo aggiungere un’ulteriore regola che Ignazio suggerisce a chi fa gli Esercizi Spirituali, ma valida anche nella vita quotidiana: “Nel tempo della desolazione non bisogna mai fare cambiamenti, ma rimanere saldi e costanti nei propositi e nella decisione in cui si era nel giorno precedente a quella desolazione, o nella decisione in cui si era nella consolazione precedente. Infatti, come nella consolazione ci guida e ci consiglia soprattutto lo spirito buono, così nella desolazione lo fa lo spirito cattivo, e con i suoi consigli noi non possiamo prendere la strada giusta”. Si tratta di una vera e propria “regola d’oro” nell’arte di scegliere. E’ sulla pienezza della gioia che costruiamo la nostra vita. Ed è lì che dobbiamo tornare con la memoria e con il cuore ogni volta che siamo tentati di cambiare rotta. La volontà spirituale non è tanto allora una sorta di “eroismo stoico” ma la capacità di ricordare il momento della consolazione per poter proseguire sulla stessa strada anche nel tempo della desolazione. Se ho intrapreso una strada giusta devo aspettarmi gli attacchi del nemico e dunque le desolazioni. Esse sono quelle prove in cui imparo a ricordare, a fidarmi anche senza segni, a gridare al Signore ancora più forte il mio desiderio profondo di Lui. Nell’alternanza fra consolazione e desolazione il Signore mi forma, mi plasma, mi crea. Il popolo d’Israele, aveva intrapreso la strada giusta uscendo dalla schiavitù dell’Egitto ma dovette lottare per quarant’anni contro le desolazioni che facevano subito nascere “mormorazioni” e voglia di tornare indietro. Mosè è colui che ha saputo rimanere fermo alla decisione avuta nella grande consolazione del Mar Rosso. Ed è per questo che ogni Pasqua e nel fondo ogni festa ebraica altro non è che il ritorno a quella consolazione.

Più avanti Ignazio aggiunge altre regole per difendersi dal nemico quando questo cerca di ingannare “sotto apparenza di bene”. Queste regole sono particolarmente pensate per chi non deve più discernere fra bene e male ma fra due beni. In genere in una scelta di vita ci troviamo davanti all’alternativa fra due o più possibilità che di per sé sono buone. Allora mi chiedo: quale è la migliore per me? In altre parole: in quale scelta potrò amare di più? Nel fondo discernere è capire dove amare in pienezza, cioè dove portare a compimento quell’opera di amore che è la Creazione stessa.

L’intero processo di discernimento e di scelta può essere graficamente sintetizzato grazie a un’opera geniale del Caravaggio: la vocazione di Matteo, conservata a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. In questo dipinto del 1599, il maestro lombardo descrive la vocazione come una nuova Creazione. In effetti la mano tesa di Gesù che chiama ricorda il famosissimo gesto della Creazione nella Cappella Sistina. Ma a ben guardare, la mano di Gesù non è la copia della mano del Creatore michelangiolesco bensì della mano di Adamo. Come a dire: la vocazione è una nuova creazione che passa attraverso la carne umana (l’Adamo)di chi entra nella nostra vita come strumento di Dio.

Questa nuova creazione non avviene in un attimo, bensì attraverso le tappe di un processo che è appunto il discernimento. Come ormai suggeriscono molti studiosi, Caravaggio non identifica Matteo chiaramente fra i personaggi seduti intorno al tavolo. Questo lascia pensare che tutti siano Matteo, o meglio che ciascuno dei personaggi seduti rappresenti una tappa di questo cammino vocazionale.

Il punto di partenza è senza dubbio il ragazzo seduto all’estrema sinistra, ricurvo, chiuso in se stesso nel contare le monete. Le sue mani sembrano animalesche, quasi fosse un maiale. E sono proprio queste mani che la luce della grazia illumina. Torna in mente la prima regola del discernimento di Ignazio di Loyola che spiega come a chi va di male in peggio lo Spirito buono lo visita con il rimorso e la ragione. Il ragazzo ha ancora il volto nel buio ma si ritrova a scoprire la deformità delle sue mani, la bruttura di ciò che fa. E questa “brutta sorpresa” è grazia.

La seconda tappa è rappresentata dall’uomo maturo della barba. Con la sua mano sinistra sembra chiedere: “chiami proprio me?”.  A ben guardare, il dito rimane ambiguo e può indicare sia se stesso che il ragazzo curvo a sinistra -Indizio in più che si tratta della stessa persona.  Tra l’altro delle due mani “di maiale”, una è proprio sua e non del ragazzo. Ma è appunto la stessa persona.

Il gesto che della mano che rimane ambiguo riecheggia il gesto di Gesù che chiama. Possiamo dire che Matteo “ri-flette” la Parola della chiamata. Una parola simboleggiata dalla mano che sta sotto la finestra a forma di croce. Perché la Parola non è altro, come dice San Paolo, che la “Parola della croce”. E’ il Gesù della croce che chiama. Solo l’amore chiama. Si discerne davanti all’amore assoluto che è la croce.

Riflettere sulla Parola di chi chiama e’ il primo passo positivo di questo itinerario.

Perciò il personaggio ha la barba del saggio. E perciò è la prima volta che la luce della grazia illumina il suo volto. Ma questa luce è appunto una nuova creazione che fa rinascere chi è chiamato. Perciò il personaggio seguente è un bambino. Esso incarna la purezza ritrovata di cui Matteo il pubblicano aveva senza dubbio profonda nostalgia. La vocazione coincide con un cammino di purificazione in cui Dio ci restituisce la purezza perduta. Infine il quarto personaggio seduto è rappresentato nel gesto stesso di alzarsi. Suo sgabello è già in squilibrio, simbolo dello “sbilanciamento” che è ogni scelta. Questo personaggio ha una spada, segno che la “de-cisione” comporta sempre un taglio (“cisione”). E’ una figura giovane, nell’età delle scelte.

E’ interessante notare che intorno al tavolo, oltre ai personaggi seduti, c’è un solo personaggio in piedi, con gli occhiali. Esso è, rispetto alla struttura del quadro, esattamente simmetrico a Gesù e sembra sussurrare all’orecchio fra il giovane rinchiuso in se stesso e il personaggio con la barba. Cosa sussurra questo personaggio che guarda in basso come se fosse “colui che se ne intende”? Possiamo immaginare che cerca di dissuadere Matteo di alzare il capo. Cerca di tenerlo attaccato a quel tavolo, cioè a quel tipo di vita in cui le persone sono solo monete e le relazioni sono solo violenti pretese. Si tratta del suggeritore negativo, il “nemico”.

I Vangeli raccontano la vocazione di Matteo come una creazione perché ripetono il verbo (“seguimi” e “lo seguì”) come richiamo immediato alla Genesi (“sia la luce” e “la luce fu”). Ma per Caravaggio questa nuova creazione si è dispiegata in un processo a tappe che è il “discernimento vocazionale”. Fra “seguimi” e “lo seguì” c’è tutto il discernimento descritto dalla sequenza dei quattro personaggi e dalla presenza inquietante del vecchio nemico. E’ un percorso tra la morte e la vita. E in effetti, nel testo stesso dei Vangeli, fra “seguimi” e “lo seguimi” leggiamo il verbo stesso della Risurrezione: “si alzò”. Si può dire che il processo di discernimento coincide con un’esperienza di Risurrezione. Il discernimento è lasciare che la Parola della croce diventi in noi Risurrezione.

Alzatosi, Matteo inizia a seguire Gesù, cioè ne diventa il testimone, fino al martirio fisico rappresentato da Caravaggio proprio di fronte a questo quadro. D’altronde, se Matteo si è alzato è forse anche grazie alla presenza di Pietro che non è esplicitamente nominato nel Vangelo ma che Caravaggio rende presente in questa scena. Pietro è la Chiesa. E’ la testimonianza di persone imperfette che però permettono ad altri di alzarsi e di diventare a loro volta testimoni. Forse proprio perché Pietro è imperfetto, Matteo si sente autorizzato ad alzarsi anche lui, magari col desiderio addirittura di completare ciò che manca alla testimonianza di Pietro. Il discernimento vocazionale è un processo che si svolge nella Chiesa e con la Chiesa. Ed è ciò che nella Chiesa manca che “chiama” sempre nuovi giovani a diventare “testimoni”.

 

 

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