I consacrati per una pastorale vocazionale di comunione nella Chiesa particolare: quali relazioni?
Credo ce la ricordiamo tutti e magari la cantiamo ancora oggi più di qualche volta: “Siamo carovana di Dio, che torna alla casa del Padre…”.
SIAMO CAROVANA DI DIO:
VICENDE DI ORDINARIA VITA ECCLESIALE DA IERI AD OGGI
La parabola delle battute di caccia
Dunque, un bel giorno, questa allegra e festaiola carovana di Dio giunse nel bel paese di Smemorandia, una località turistica davvero incantevole e tutti insieme – la carovana era composta di gente allegra e felice, tra l’altro, perché, nonostante i gusti ed i caratteri diversi, fino a quel giorno aveva l’abitudine di vivere e decidere e fare ogni attività strettamente d’accordo e tutti insieme – decisero di fare una tappa un po’ più prolungata, almeno qualche giorno, per godersi le meraviglie disseminate dal buon Dio in quel pezzo di paradiso. Ma quello era il paese degli smemorati, dove il fascino delle bellezze portava quasi sempre a dimenticare le cose importanti della vita.
Ed, infatti, dopo appena due giorni di permanenza, iniziò un gruppetto a dire: “Noi andiamo a caccia su quella montagna!”. Un altro intervenne: “Io, invece, vado a pescare al lago!”. Due altri: “E noi ci facciamo una partita di caccia nella grande foresta!”. Il gruppo più consistente: “A noi va di scorrazzare su e giù per quelle colline: troveremo di sicuro qualcosa che fa per noi!”. E così se la squagliarono tutti, lasciando pressoché abbandonata la carovana, posteggiata alla meglio in uno slargo alla periferia del bel paese. A dimenticare in fretta la carovana contribuì anche il fatto che le battute di caccia e pesca furono parecchio fortunate per tutti. Ma, dopo un po’ di tempo, la fortuna non sorrise più tanto: giornate intere senza più prendere nulla; noia e scocciature e nervosismi al posto di lepri, fagiani, pernici e delle trote del lago. A tutti riemerse allora il ricordo della carovana con un forte desiderio di tornarvi. Alla spicciolata, confusi e svergognati, per essersi lasciati portare via dalle magie di Smemorandia, se ne tornavano alla carovana. Ma quale stretta al cuore! La trovarono disastrata ed in condizioni pietose: era stata assaltata da rapinatori ed avventurieri e, certo, sarebbero occorse molte fatiche, oltre che un grande dispendio per rimetterla in sesto. Un certo numero ci si mise di buona lena, invitando man mano i sopravvissuti a rimettersi insieme come un tempo, per riparare i danni e potersi così rimettere in viaggio. Alcuni ci stettero, altri, vedendo lo sconquasso, se ne tornarono alle battute di caccia e pesca, sperando nel ritorno della fortuna per il futuro; altri se ne vanno ancora oggi vagolando da smemorati.
Un passato di cui ancora viviamo
Sì, occorre proprio dirlo: la carovana della vita ecclesiale è andata avanti fino a qualche anno fa sostanzialmente ben compaginata e strutturata. Basta un briciolo di conoscenza storica per trovare una sostanziale solidarietà insieme ad una costante e sana contesa tra vita consacrata e realtà diocesana (vescovi, preti, azione missionaria, …), dall’epoca dei padri del deserto in continua polemica con i vescovi, alle lotte e persecuzioni di alcuni preti diocesani con S. Benedetto, al primo appello ufficiale di intervento, rivolto nel VI sec. alla S. Sede, da parte dei monaci irlandesi, in lotta con i loro vescovi per il potere che accompagna l’esperienza della condivisione e della responsabilità. Una storia che non deve meravigliare più di tanto, perché, più forte delle polemiche e delle tensioni, il dialogo si è mai interrotto nelle continua ricerca di un equilibrio, che rimane sempre fragile ed instabile. Questa tensione spingeva, nonostante tutto, a migliori strategie di appoggio vicendevole, ogni qual volta la Chiesa subiva soprusi o veniva perseguitata. Così è capitato, ad esempio, all’epoca dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese, che avevano tentato di spazzare via la Vita Consacrata e nelle vicende storiche dell’ottocento, in cui sistematicamente i nuovi stati nazionali tentarono di estromettere la Chiesa dal potere civile e politico. La mano misteriosa della Provvidenza fece sorgere più carismi consacrati nell’ottocento che negli altri secoli e con un pullulare tale di iniziative sociali, da portare la Chiesa a riavere, nonostante tutto, un peso decisivo notevole. Oppure, come negli anni dei grandi assolutismi dittatoriali nel ‘900, quando il sorgere della religione della militanza compattò tutti con la parola d’ordine di non recedere mai e di aggredire sempre. In un celebre sondaggio degli anni ‘50, con sorpresa di tutti, la Chiesa cattolica risultò la migliore organizzazione internazionale. Al secondo posto, ad una certa distanza, figurava la General Motors. Migliore organizzazione per compattezza di strutture, scelta di uomini per i vari ruoli, disciplina di gestione e qualità di prodotto, con un numero così grande di iniziative assistenziali ed educative, che la rendevano quasi stato nello stato. Una compattezza che, nel rapporto tensione-collaborazione tra Vita Consacrata e Diocesi, si giocava soprattutto in base alla spartizione dei compiti: un pezzo a te ed un pezzo a me. La spartizione come norma costitutiva della pastorale, per assicurare l’accordo fra le parti, proprio come nelle battute di caccia o l’assegnazione delle riserve di caccia. E per garante bastava l’autorità del vescovo e del superiore religioso, che coordinavano il tutto nella buona vicinanza.
Ma dal 1958 al 1968 questa splendida compagine e roccaforte organizzativa si è semplicemente sfaldata. Si temeva il sopraggiungere del nemico dall’est-Europa, che venisse a soggiogare anche l’Italia e Roma, come aveva fatto con molte altre nazioni, fino ai confini del nostro paese ed invece il crollo è venuto dal di dentro. La radice e le cause sono da ricercare nel primato acquisito dalla persona rispetto all’Istituzione, per cui non sono bastate le linee rivoluzionarie del Vaticano II, rimaste a tutt’oggi in parte disattese, né i vari decenni programmatici dell’impegno della Chiesa italiana a ricostituire la passata compattezza. Non è bastato il primo decennio pastorale Evangelizzazione e sacramenti degli anni ‘70, che tentava di riaggregare i fedeli da una semplice appartenenza anagrafica ad un’altra più forte attorno ai valori, quella che, in seguito, darà l’ispirazione fondamentale al volontariato. Non è bastato il secondo decennio Comunione e comunità degli anni ‘80, che mirava a serrare le fila e a coinvolgere soprattutto i movimenti. Abbiamo in realtà una comunionalità che appare piuttosto come un muro di gomma, tanto la mentalità in proposito è ancora lenta ad approdare a questa linea. Anche i consacrati, nonostante un certo numero di singoli attivissimi, in generale, non dimostrano molto entusiasmo verso questa intonazione comunionale generale. Non è bastato nemmeno il decennio della Carità degli anni ‘90, che ha tentato di fondere in un’unica proposta liturgia, catechesi e carità. Una proposta che non trova molto posto per i religiosi (nonostante si sentano chiamati in causa per la grande parte di servizio alla carità) e la valutazione del loro apporto alla vita della Chiesa. Ma anche i consacrati, con molta probabilità, si sono ben estraniati dal contesto pastorale della Chiesa italiana. Meraviglia da una parte la scarsità della riflessione dei documenti dei Vescovi per capire la presenza dei religiosi nella propria chiesa particolare. Dall’altra stupisce che i consacrati siano apparsi molto lenti se non pigri nel prendere atto del cammino del rinnovamento pastorale, anche solo dei tre decenni della Chiesa italiana. Un fatto sintomatico: negli incontri ufficiali della CISM a Collevalenza e altrove non è mai stata presa in seria considerazione la programmazione CEI. Non ci sbalordiamo dunque se, ancora oggi, all’inizio del 3° millennio, la comunionalità del Vaticano II sia ancora da esplicitare o da trovare, non solo per quanto riguarda la pastorale vocazionale ma un po’ in tutta la vita ecclesiale.
Il “ tornado” dell’ecclesiologia del Vaticano II
Eppure c’è stato il tornado dell’ecclesiologia del Vaticano II. La via da intraprendere in questo momento, mi sembra, è quella di tentare una specie di pellegrinaggio di riscoperta e rimanere saldi sui fondamenti, che sono essenzialmente ecclesiologici. Questi rimandano alla realtà della Chiesa, sacramento di comunione, quale ci è stata consegnata dal Concilio: la Chiesa mistero e popolo di Dio, Chiesa nella quale ciò che è comune – l’essere cristiani e la chiamata di tutti alla santità ed alla missione – viene prima di ciò che è particolare e ci distingue. Con il Concilio è stata superata la Chiesa nella sua visione clericale (= protagonismo assoluto dei chierici, mentre i laici erano considerati puramente ausiliari, anzi definiti in forma negativa: non chierici). In quella memorabile assise la Chiesa è stata definita come Popolo di Dio e si è rivalutato in pieno la vocazione del laicato, non più come semplici ausiliari ma come veri protagonisti. Oggi è giunto il momento di prenderne tutta la coscienza e di attivare in pienezza un nuovo equilibrio della Chiesa come Popolo di Dio, una Chiesa più matura, meno “clericale”, con spazi più ampi per la santità di tutti.
Ma da dove partire per avere il coraggio della svolta, forse la più rivoluzionaria dopo il Vaticano II? Per riflettere bene, occorre tenere davanti, come quadro di riferimento, la scuola di comunità-comunione, che ha inaugurato il Signore Gesù prima della sua Pasqua. All’inizio troviamo un unico gruppo di discepoli animati da un unico senso e con un unico amore: la sua persona. Questo discepolato con un unico amore, che darà il via al percorso dei consigli, è il senso dell’unico sacerdozio, profetismo e regalità cristiane, in vista di fare penetrare l’amore del Regno di Dio nel mondo nell’impatto con la sua drammaticità e fecondità. E questo diventa in particolare la missione della maggioranza del popolo di Dio, che sono i laici. I consacrati emergono come esigenza di testimoniare e dare ai propri fratelli il fuoco dei sentimenti del Figlio e perciò vengono posti accanto a loro come memoria vivente dell’esistenza del Signore Gesù, delle sue scelte di vita e per mostrare il definitivo del Regno di Dio. Progressivamente, quando si profila la croce, deve emergere anche l’esigenza di esprimere e trasmettere di continuo l’obbedienza assoluta al Padre e Gesù istituisce il sacerdozio ministeriale, al fine di riattualizzare continuamente e sacramentalmente la morte e la risurrezione attraverso la Parola ed i Sacramenti. Se tutti gli uomini sono chiamati a formare l’unico Popolo di Dio, presente in tutte le nazioni della terra (LG 13); se a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito, perché torni a comune vantaggio (1 Cor 12, 7); se è vero che nei vari generi di vita e nelle varie professioni deve sussistere un’unica santità, praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e, di conseguenza, ognuno, secondo i propri doni e le proprie funzioni, deve, senza indugio, avanzare nella via della fede viva, la quale accende la speranza ed opera per mezzo della carità (LG 41), ciò significa che la realtà della comunione è di importanza centrale e fondamentale. Ed il motivo è scontato: tutto questo, infatti, rimanda ed è parte viva del mistero trinitario e del corpo mistico del Signore. La pluriformità ecclesiale, che rappresenta vitalità e ricchezza, è costruita sui valori di unità e di unicità propri del mistero di Cristo. Non si tratta semplicemente di sociologia e di diritto ma di una realtà teologica; né risulta un postulato derivato dal pluralismo, che si fa strada a stento fra i pericoli continui e le forze centrifughe delle distorsioni, separazioni, provincialismi, settarismi…
Nella comunione ecclesiale le differenze ministeriali e carismatiche non indicano maggiore o minore grado di dignità, bensì una particolare ed esigente funzione di servizio e testimonianza. La Chiesa è essenzialmente comunione di vocazioni, ma esse hanno senso solo all’interno della grande comunione di tutto il Popolo di Dio. Dovremmo ormai aver capito che prima di tutto viene la Chiesa e la Vita Consacrata, come il Ministero Ordinato ed il Laicato, sono solo una delle vocazioni, che la caratterizzano sulla base dell’unico battesimo. Prima che presbiteri, prima che religiosi siamo cristiani con tutti i nostri fratelli nella fede, con i quali condividere il fatto di essere tutti discepoli del Signore. La comunione, questa comunione, parte sostanzialmente da due poli distinti ma correlativi ed in mutua tensione, perché la Chiesa non può più essere considerata una piramide dalla punta stretta (= gerarchia) e dalla base ampia e piatta (= laicato) ma si deve ritenere un immenso circolo in espansione nella storia, che riceve dal centro energia e stimoli per un continuo avanzamento. Il laico realizza la sua vocazione ecclesiale muovendosi dal di dentro dei valori secolari, cioè dalla base del mondo, verso il vertice dell’atteggiamento religioso. Il consacrato invece realizza la sua vocazione, muovendosi dal di dentro della consacrazione verso il mondo, cioè dal vertice religioso verso i valori umani. Il ministro ordinato è il segno interprete del Cristo vivo, che alimenta ed anima continuamente la sua Chiesa attraverso la Parola e i Sacramenti ed in questo modo tiene uniti i due movimenti dal mondo al vertice religioso e viceversa per la diffusione del Regno. C’è differenza di movimento delle tre vocazioni ma anche mutua complementarità, attraverso una comunione vicendevolmente arricchente tra vocazioni distinte ma complementari nell’unica Chiesa. Ne consegue che la cosa più urgente, oggi come oggi, è di imparare insieme ad essere e a fare Chiesa, attraverso un rapporto rinnovato tra preti, consacrati e laici, in una Chiesa che sia davvero comunione di molte vocazioni. Condividere tra presbiteri, consacrati e laici, in questa logica ecclesiale e di vera partecipazione, esigerà tipi di incontro a livello di valori (= condividere la spiritualità, cioè il modo di concepire la vita e di viverla) e a livello di impegno (= condividere la missione nel senso di incontrarci per un più grande servizio al Regno di Dio, ricordando che quanto più è alto il confronto, più si deve servire!).
Su questo sfondo generale si può parlare di condivisione dei carismi, fino al punto di formarsi insieme e di impegnarsi insieme nella stessa missione. Occorre ricordare, infatti, che ogni carisma ha una natura essenzialmente ecclesiale e rimanda prima di tutto al grande carisma, che è la salvezza gratuitamente donata a noi in Cristo Signore. Solo successivamente questo dono si specifica nella molteplicità delle vocazioni e dei compiti che caratterizzano la Chiesa. Un carisma – anche quello consacrato di uno specifico Istituto – non è mai un possesso esclusivo di qualcuno ma piuttosto una realtà di comunione: esso è dato alla Chiesa e per la Chiesa.
Il frutto prezioso di questa comunione, finalmente riscoperta, ridonda sull’autenticità dell’appartenenza a Dio e della sequela di Cristo e sulla grazia della missione. Quest’ultima si configura essenzialmente come compito, come campo di attività e come gioia di svolgere la mansione affidata. È, infatti, la grazia della missione che fa riscoprire il punto centrale della persona, che, come un magnete, valorizza le energie della sua natura, portandola alla piena realizzazione, secondo i tracciati della propria vocazione. Nessuno, infatti, può trovare la perfezione in se stesso ma nell’esecuzione della missione, che gli viene affidata. Non esiste un altro centro senza questa missione; nessuna gioia profonda tranne l’amore ma esso ha per ognuno la forma del servizio. Deve essere allora ripensata e riprogettata insieme – presbiteri, consacrati e laici – la mistica della missione, che consiste in una soda e profonda interiorità, libera tuttavia dalla paura di “sporcarsi i piedi” per la causa del Vangelo. Si eviteranno, di conseguenza, tendenze spiritualistiche sempre in agguato o il perdersi in attivismi, che fanno annebbiare o perdere il gusto delle cose celesti.
Le “cinque piaghe della santa Chiesa”
“Chiesa, chi sei? Chiesa, cosa fai? Chiesa, dove vai”. Queste domande, che la voce di Paolo VI fece risuonare in una delle sedute conciliari, ci portano a cercare e a trovare che proprio il Vaticano II ha posto le vere basi teologico-pastorali della Chiesa particolare e delle singole comunità cristiane: un organo vivente nel corpo di Cristo, che è la Chiesa, atto a ricevere ed insieme a dare energia di grazia alla comunità dei battezzati. Ma, se non vogliamo fare gli struzzi, che mettono la testa nella sabbia per non vedere e non sentire, occorre il coraggio di aprire gli occhi sulla realtà. Molte delle nostre parrocchie sono, di fatto, chiese chiuse, sedute e mute, chiese che “attendono” più che chiese che “vanno a cercare”. Una chiesa ferma più che una chiesa “popolo di Dio in cammino”; una chiesa muta più che una chiesa che annuncia, interviene e grida la verità sopra i tetti. Oppure una chiesa che è stimata più per essere un’agenzia di servizi sociali, che non lo strumento ufficiale della salvezza del Signore. Una chiesa spesso ridotta ad agenzia della religione per vecchi e bambini. Se volessimo riassumere i punti deboli delle comunità cristiane, credo potremmo utilizzare bene la falsariga famosa del Rosmini: le cinque piaghe della comunità cristiana oggi in Italia.
Missione debole
Si guarda alle singole comunità cristiane più come ad una delle tante istituzione, una sorta di self-service di servizi cultuali e di sacramenti, piuttosto che come realtà di comunione e di servizio. Non si sente ancora a sufficienza l’urgenza pressante di “uscire dal tempio” e di passare dall’edificio chiesa alla strada; dal cultuale al culturale; dalla dottrina all’esistente, dimenticando che il compito della Chiesa è quello di essere perennemente in missione, traghettando i fedeli dalla celebrazione delle missioni al popolo a rendere tutto il popolo di Dio in stato di missione.
Catechesi sclerotizzata
Le singole comunità cristiane italiane dedicano la maggior parte del tempo alla catechesi ma essa si riduce per lo più ad essere solo in funzione dei sacramenti, mentre dovrebbe essere in funzione della vita e della maturazione nella fede. Una catechesi che sembra essere rivolta soprattutto ai bambini ed ai ragazzi, raramente agli adulti, che rischiano di vivere, vita natural durante, solo con una fede di tipo infantile, mentre dovrebbero entrare in un cammino di perenne conversione, di chi cioè vuol fare sul serio palestra di Vangelo ed esige quindi esperienze di vita e non solo conoscenze teoriche, pur con metodi e linguaggi rinnovati.
Disimpegno socio-pastorale
Comunità cristiane materialmente e giuridicamente “ubicate” in un territorio ma con una pastorale disincarnata in atto, una pastorale che non sa guardare fuori dalle sue mura e scoprire nel suo territorio gli immensi campi della missione, riducendosi di fatto ad essere estranea al mondo con proposte spiritualiste, intimiste, devozionali ed astratte.
Scollamento tra comunità cristiana e movimenti
Da quando i movimenti, con la loro vivacità, si sono presentati alla ribalta della vita delle nostre chiese è nata come una specie di antagonismoparallelismo tra comunità ufficiali e comunità di movimento, con dei rapporti troppo spesso problematici e di difficile soluzione. L’unità è possibile ma occorre assimilare ed assumere insieme la visione conciliare della Chiesa e poi cercare insieme di porsi attorno ai bisogni della pastorale del territorio, educandosi insieme ad una pastorale di insieme.
Pastori disattenti alle nuove domande sociali e pastorali
Bisogna che lo diciamo fuori dai denti: la gente a volte – oserei dire spesso – trova nel clero più un freno che un incoraggiamento circa il rinnovamento! Il clero, anche quello giovane, stenta ad uscire per primo dal tempio e ha paura di confrontarsi col mondo, sia per la complessità dell’epoca in cui viviamo, sia per la lentezza nell’assimilare la mentalità conciliare e sia per il retaggio di logiche di potere, che rimangono nella sua impostazione mentale e di azione, ancora troppo sovente di piccolo feudatario.
Conservare o conquistare: il trionfo dell’omologazione ed il tramonto di ogni autoreferenzialità
Di fronte a questa situazione che, al più e al meno, viene a ferire le nostre comunità cristiane, potremmo, dai tetti in giù, affermare con una certa corrente che è finito il tempo della cristianità come cultura cristiana e, se è rispuntata con una certa qual prosperità e vigoria, la pianta della religiosità, il rischio è che essa sia una religiosità senza fede. La debolezza dell’impianto pastorale tradizionale, per cui, se si nasce cristiani, di fatto, non lo si diventa più, è più sul versante amministrativo e di semplice conservazione, centrata sulla sacramentalizzazione, non impegnata nelle dinamiche ed esigenze della nuova evangelizzazione. Don Primo Mazzolari, con intuito profetico, già ai suoi tempi, diceva: “L’apostolo moderno ha davanti a sé due compiti: custodire chi è ancora nella Chiesa; attirare quelli che sono fuori. Non conto i primi, so che i secondi sono legione. Finiamo per leggere alla rovescia la parabola della pecora perduta, trascurando le 99 che sono fuori, col pretesto di curare l’una rimasta. Sarebbe un errore credere che il metodo della conservazione (verso i fedeli) possa, con lievi ritocchi, supplire al metodo della riconquista (verso chi è fuori). La prova è nell’insuccesso continuo dei nostri sforzi. Il mondo – non importa se cammina male – ha imparato a camminare senza di noi e, quel che è peggio, ci sta quasi accantonando in un ‘ghetto cattolico’. Quasi nessuno si accorge di noi come cristiani. Pochi sanno che al mondo c’è una maniera cristiana di guardare la vita, l’uomo, il lavoro, il denaro, il potere. Parecchi dei nostri, o finiscono per accettare i metodi se non gli schemi ideali degli altri, oppure si esauriscono nel riprovare e condannare”[1]. Siamo passati da un secolo che, almeno sociologicamente, si diceva cristiano, nonostante l’abbondanza degli orrori, ad un altro in cui sembrano prevalere la laicità e le logiche del laicismo, nonostante tutti i fermenti nuovi che stanno “premendo” nel tessuto della Chiesa sia a livello universale (pensiamo alla grazia del Giubileo), sia nelle singole realtà delle chiese particolari. Tanti fermenti che danno speranza ma che non riescono ancora né a creare immagine né, tanto meno, a smuovere il cliché culturale del nostro tempo.
E la vita consacrata dove si trova in questo contesto? Immediatamente, di primo acchito, l’impressione è che i religiosi rimangono degli addetti a molti servizi (in alcune diocesi, se si ritirassero tutti insieme forse causerebbero la paralisi della vita ecclesiale), anche se il fronte consacrato sta retrocedendo a vista d’occhio come presenze e come numero complessivo. È cresciuto il genericismo nei servizi da svolgere con un ormai vistoso appiattimento e conseguente omologazione delle diverse forme di vita consacrata, soprattutto quando i diversi religiosi sono chiamati a fare i parroci o quando si trasformano le varie opere tradizionali in case di accoglienza ed ospitalità. In verità, la maggior parte degli Istituti oggi non riesce più a presentarsi con la significatività e l’incisività carismatica di un tempo. E questo non primariamente per mancanza di zelo ma per l’acquisizione degli stessi servizi da parte della società civile, che ne fa un suo diritto. Di conseguenza, si apre lo spazio ad una progressiva erosione di senso nell’identità carismatica, che preoccupa tutti, in particolare i giovani religiosi/e. Sta tramontando quella che gli specialisti chiamano l’autoreferenzialità degli Istituti, cioè il presentarsi con quella chiarezza e forte identità carismatica, che in passato li connotavano come luogo significativo ed affascinante, nel quale realizzare la vocazione alla sequela del Signore. Ciò è tanto vero che molti Istituti devono oggi cercare e dedicare energie e risorse non indifferenti a promuovere la propria immagine, facendone pubblicità. Certo, ci sono anche qui tanti spezzoni di una vita consacrata nuova e “rifondata” ma, come per la realtà ecclesiale più ampia, ancora senza un mordente profetico significativo ed incisivo nella Chiesa e nel mondo.
Con questa breve panoramica noi comprendiamo allora come si renda problematico un qualsiasi discorso di pastorale vocazionale. Siamo ancora troppo sotto l’effetto stregato di Smemorandia, dopo il viaggio della carovana, sostanzialmente unito nei tempi passati. Oggi, anche le battute di caccia particolari rendono poco, nemmeno quanto basta a conservare l’esistente. Rimane un’unica cosa da fare, almeno per chi ci sta: tornare alla carovana e ricompattare in modo nuovo il vivere ed il lavorare insieme, non tanto dividendo le parti come prima ma tentando di costruire finalmente la comunione.
APPUNTAMENTO A BETANIA: IL RILANCIO
DELL’ECCLESIOLOGIA DI COMUNIONE DEL VATICANO II
Tra i vari significati della parola Betania, uno dei villaggi della Palestina prediletti da Gesù, c’è anche quello di casa dell’ascolto e dell’accoglienza. E davvero, quello rimane un punto di riferimento importante nella vicenda terrena di Gesù di Nazareth come casa dell’amicizia, della disponibilità e proprio per il fatto che Lazzaro, Maria e Marta sperimentano la logica del vivere fianco a fianco con il Maestro. I Vangeli, soprattutto Giovanni (cfr. Gv 12,1-11) insistono nel rilevare lo spirito di accoglienza e di disponibilità nei confronti del Signore e Gesù stesso sperimenta a Betania la gioia di rimanere insieme a persone care, intreccia profondi rapporti di scambio e di amicizia, sperimenta la gioia e la serenità del riposo, della distensione, per poi ripartire per le consuete attività apostoliche fino ai giorni terribili della passione. Mi sembra un’icona significativa per rileggere la cosa più urgente da fare oggi, cioè il rilancio dell’ecclesiologia del Vaticano II, al fine di ricuperare la carovana e ripartire bene. Dunque sostiamo anche noi a Betania.
Chiara visione di Chiesa
Ce ne stiamo accorgendo tutti: senza una chiara visione di chiesa, la pastorale di qualsiasi tipo, vocazionale compresa, va a cadere in due pericolosi trabocchetti: l’irrilevanza del messaggio e l’attivismo, che ci fanno produrre tante belle cornici senza quadro dentro o con tele sgualcite ed incolori che non dicono più niente. La pastorale è da concepirsi come la vita stessa della Chiesa. Organizzare e vivere la pastorale equivale ad organizzare e vivere la realtà stessa della Chiesa nostra madre. E la Chiesa rimane il segno più espressivo, tangibile e convincente della verità e concretezza del messaggio cristiano. È allora il modo di vivere il sensus ecclesiae, che deve essere ricentrato, purificandolo da carenze, lacune ed errori di prospettiva, per dirla con Congar, uno dei più grandi ecclesiologi del nostro tempo. Egli insisteva sulla necessità del superamento di tre malesseri pericolosi, per avere e vivere questo sensus ecclesiae. Essi sono il cristomonismo, cioè l’assolutizzazione della persona di Gesù con l’esclusione di fatto del Padre e dello Spirito Santo. Questo ha portato ad un’eccessiva enfasi delle devozioni personali, più che sulla liturgia e ad esagerare gli aspetti visibili della Chiesa a scapito del suo mistero. Il Vaticano II ha ricuperato la visione trinitaria della Chiesa e ci dice che la comunione è essenzialmente dono di Dio, che precede ogni distinzione; da essa solamente può scaturire ogni tipo di comunità, di servizio e missione. Occorre poi superare la gerarcologia, ossia l’assolutizzazione del potere ecclesiastico, con una conseguente eccessiva sottolineatura della visione istituzionale della Chiesa a discapito di quella carismatica. L’ecclesiologia conciliare invece fa passare da una visione di Chiesa rigidamente piramidale ad un’immagine di Chiesa a cerchi concentrici, una Chiesa in cui i battezzati formano un solo popolo con la stessa dignità ed al contempo diversi per carismi e ministeri. Infine il terzo malessere, cioè l’ecclesiocentrismo, ovvero l’assolutizzazione della Chiesa di fronte al mondo ed alla storia, che ha portato ad identificarla con il Regno di Dio, mentre ne è un germoglio vivo. E questo con la conseguenza di chiuderla in forme pericolose di integralismo, narcisismo ed assolutismo. Il Concilio ha dato una visione nuova del mondo, integrandolo come luogo teologico, dove il Signore Gesù ci precede e ci invita a camminare con Lui; una Chiesa dunque china sui bisogni degli uomini nell’atteggiamento di amorevole servizio della lavanda dei piedi.
Coesistenza essenziale della dimensione carismatica e della dimensione gerarchica
Da sempre il Cristo vivifica la sua Chiesa per mezzo dello Spirito attraverso due vie fondamentali: la via istituzionale con i mezzi istituzionali, parola, sacramenti, ministeri ordinati, composizione strutturale dei tre stati di vita (laici, consacrati e chierici) e le tre dinamiche fondamentali (evangelizzare, guidare, santificare). Ma esiste anche la via carismatica. Lo Spirito Santo si riserva anche un altro sistema di azione immediata e diretta, che sono appunto i diversi carismi. È la pluralità dei carismi, in cui la Chiesa si articola, che costituisce il presupposto di ogni opera, ufficio e ministero ecclesiale. Carismi che sono doni di Dio per l’utilità comune. Il Concilio (LG 44) insegna che la vita consacrata non appartiene alla struttura gerarchica della Chiesa ma alla sua vita e santità. La Chiesa istituzionale si riserva tuttavia di riconoscere l’autenticità del carisma della vita consacrata. Entrambe le vie sono dunque essenziali per la vita della Chiesa. I due polmoni della Chiesa non sono solo l’Oriente e l’Occidente ma anche l’Istituzione ed il Carisma. Il modello vincente non può essere altro allora che quello dialogico. I punti di osservazione e le vie concrete di intervento potranno anche essere diverse ma il campo di azione è comune e comune deve essere l’atteggiamento di fondo: scommettere sulla comunione come dono ed obiettivo fondamentali; riconoscimento allora di non essere degli assoluti ma la parte di un tutto; accoglienza vicendevole e riconoscimento dell’importanza dell’altra parte per una mutua compresenza, complementarità e corresponsabilità.
Il territorio come punto di partenza
Campo di azione comune. Il nostro sguardo, con la forte esigenza di concretezza, che tutti nutriamo, va subito a fermarsi sui luoghi del nostro intervento e dei nostri impegni: il territorio. Il territorio non è tuttavia da intendersi semplicemente come fatto geografico ma culturale, religioso e sociale: la gente concreta con tutti i suoi valori, problemi ed attese. Questo è un punto fondamentale per il nostro discorso. Senza riferimento al territorio, il rilancio dell’ecclesiologia del Vaticano II rimane come sospeso e campato per aria. È in questa linea della gente concreta che prende senso il contributo di ogni stato di vita: ministri ordinati, consacrati e laici, insieme per costruire la Chiesa nell’unità del corpo santo del Signore. In questo discorso di inserimento e riferimento stretto al territorio deve essere riconsiderata quella che tante volte diventa il cavallo di battaglia tra consacrati e sacerdoti diocesani con il coinvolgimento più o meno interessato dei laici. Si tratta dell’opera, come presenza tradizionale dei religiosi inseriti nell’apostolato di una Chiesa particolare. Certo, ogni opera, alla quale i consacrati sono particolarmente legati, è situata in un ben determinato contesto sociale e culturale. Ma, tante volte, di fatto, si caratterizza per la sua separazione dalla realtà circostante, con una differenza marcata tra il “dentro” della comunità consacrata ed il “fuori” della gente e della realtà ecclesiale. Evidentemente sono opere che, pur nella scarsità di personale e di mezzi, continuano a fare del bene, ma, forse, c’è da chiedersi se non è pensabile amministrare meglio il tutto, i talenti carismatici soprattutto, in base alle sollecitazioni dei segni dei tempi. Ciò, tanto più che, negli ultimi dieci/quindici anni, lentamente ma inesorabilmente, sembra che una mano misteriosa stia espropriando i consacrati delle loro opere, costringendo ad ammassare e serrare al centro della provincia personale e mezzi. Dunque, allora, che cos’è il territorio? Come identificare questo “luogo di incarnazione” come punto di partenza? Consacrati, perché non iniziare sul serio a pensare il territorio come la vera ed unica opera per fare il bene con tante attività apostoliche carismatiche? Sacerdoti delle diocesi, perché non aprire di più lo sguardo ed il cuore sul territorio, per vederlo non come un sistema chiuso ma come cellula viva di tutto il corpo santo del Signore, oltre ogni tradizione, cultura, istituzione, strettamente locale, davvero come l’unica Chiesa di Dio, che si trova in quella porzione di territorio e di pianeta? Insomma un autentico segno di Dio tra la gente!
Carta di identità della Chiesa particolare
Ma qual è la vera “carta di identità” della Chiesa particolare? È, come abbiamo già affermato, un organo vivente del corpo santo del Signore, atto a ricevere ed insieme a dare energia di grazia a tutti i battezzati. Una Chiesa che deve diventare sempre più se stessa attraverso l’esercizio quotidiano missionario delle singole parrocchie e riflette così l’immagine della Chiesa universale attraverso il compito di evangelizzare, di amministrare i sacramenti, di organizzare la carità: la fontana del villaggio a cui tutti ricorrono per la loro sete. Impegni di Chiesa, dunque, che coinvolgono tutti, proprio tutti. J. Vanier va ripetendo in giro che ciò, di cui oggi abbiamo maggiormente bisogno, è costruire luoghi di appartenenza. Non si tratta di realtà astratte, magari ben delineate nei documenti, ma senza riscontro significativo nella realtà. Si tratta invece di modelli di vita, che siano veri luoghi di appartenenza per come funzionano sia per il clima di fraternità, sia per lo stile dei rapporti ricostruiti tra la gente in nome della comunione. “Dio lo vuole!”, il grido che ha incendiato le contrade di Europa all’epoca delle crociate, oggi dovrebbe incendiare il tramonto della modernità, vistosamente incancrenita nell’indifferenza e nell’individualismo e proprio con la grande scommessa della comunione, lanciata come programma universale ma decisamente avviata anche all’interno di ogni Chiesa particolare. Ecco, a me sembra di vedere e sognare così la carta di identità della Chiesa particolare: un solerte laboratorio di costruzione di luoghi di appartenenza in nome della comunione di Dio. Ma, per fare questo, occorre che, al di là dei diversi stati di vita, vi ci impegniamo tutti quanti.
Il nodo della missione
Ma l’appuntamento a Betania non è solo per prendere coscienza di ciò che siamo e di ciò che siamo chiamati ad essere. Si tratta anche di sapere come orientare le risorse, che – spero e credo l’abbiamo capito – siamo invitati a mettere insieme ed a condividere. Il vero senso della Chiesa è la missione non la stabilità ecclesiastica. A Betania ci si ristora e ci si rianima ma è a Gerusalemme che occorre andare e poi nelle varie contrade, fino agli estremi confini del mondo. Il papa Giovanni Paolo II a Palermo ha affermato che la Chiesa si realizza nell’estroversione, cioè nel rifluire continuo di se stessa verso il mondo. La tentazione ancora in agguato è intendersi ancora una volta su una spartizione di compiti tra addetti alla pastorale ordinaria, la pastorale dei movimenti e le varie attività dei consacrati. Sarebbe semplicemente come costruire la carrozzeria nuova di un’auto con il motore vecchio. Tentare una riconquista con la propaganda unilaterale delle nostre iniziative particolari, oppure, dare la vita al mondo in un servizio gratuito di promozione comune dal di dentro? È su questa questione che dobbiamo misurarci nell’accoglienza dell’orientamento di fondo della missione, ma la missione non può essere data in appalto a delle ditte, per quanto di estrazione carismatica; nessuno può arrogarsene un settore come per una gestione privata. La missione appartiene alla Chiesa nella sua integralità. Tanto più che, come abbiamo visto, la nostra società non si può più dire cristiana ma si trova in fase di paganesimo post-cristiano. Questa situazione richiede una nuova evangelizzazione, la quale, a sua volta, richiede una nuova pastorale, non quella della spartizione ma quella della comunione.
Evangelizzare per risvegliare
Torniamo all’azione evangelizzatrice di Gesù. In Lui non troviamo preoccupazioni di efficienza (anche se la messe è molta), né di organicità, né di sistematicità. Egli è preoccupato dell’annuncio, perché il suo primo obiettivo non è l’organizzazione ma quello di incontrare ogni persona, e portarla alla conversione. Oggi l’impressione è che ci troviamo in una Chiesa molto attrezzata tecnicamente ma una Chiesa che sembra non convertire, cioè sembra aver perso la capacità di generare, una Chiesa fatta non tanto di pochi cristiani quanto di christifideles poco cristiani, come afferma Mons. Lambiasi nella lettera pastorale alla sua diocesi di Anagni-Alatri[2]. Dei cristiani a rischio insomma. Senza conversione non c’è fondamento, si costruisce tutto sulla sabbia. E oggi la conversione si chiama prima di tutto risveglio. Evangelizzare è dunque aiutare qualcuno a svegliarsi, a diventare responsabile della propria vita davanti a Dio, insieme a dei fratelli e a delle sorelle anch’essi risvegliati dalle forti esigenze della comunione. A ben guardare, tutta la pastorale e animazione vocazionale deve giocare qui le sue carte più preziose. Si dice che a fine ottocento/inizio novecento la Chiesa ha perso le masse operaie e che nel rimanente del ‘900 ha perso i giovani. Svegliarsi dal torpore del consumismo e delle varie idolatrie spersonalizzanti è possibile solo se uno prende coscienza della vita come responsabilità unica ed irrepetibile verso se stesso e verso gli altri, secondo quello straordinario disegno di realizzazione inventato da Dio, che è la strada della propria vocazione. E dentro a questo contenitore la vocazione a Gesù Cristo, come consegna incondizionata della propria vita a lui e la vocazione alla Chiesa, occupando in essa il proprio posto, come dimensione fondamentale ed atteggiamento di servizio. Il tutto nella via unica ed irrepetibile della propria personale e particolare vocazione. Tutti in missione dunque, ognuno con la sua particolare vocazione evangelizzatrice, ma tutti a servizio dell’unica e medesima missione senza graduatorie e privilegi.
PER QUALCHE SOGNO E SCOMMESSA IN PIÙ
CIRCA LA CHIESA DEL FUTURO
IMPEGNATA NELLA PASTORALE VOCAZIONALE
“Duc in altum”: l’invito forte e deciso del Papa all’inizio del 3° millennio cristiano, con le parole di Gesù agli apostoli, non possono lasciarci né indifferenti né inoperosi. Prendere il largo della vita della Chiesa nel 3° millennio, scommettendo sulla carità e sulla comunione. Sono ancora parole del Papa della Novo Millennio Ineunte: urge “un deciso impegno programmatico a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari sulla comunione (Koinonia), che incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa (NMI 42)… Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione, la grande sfida che ci sta davanti, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo (NMI 43)… Il nuovo secolo dovrà vederci impegnati più che mai a valorizzare e sviluppare quegli ambiti e strumenti che, secondo le grandi direttive del Vaticano II, servono ad assicurare e garantire la comunione (NMI 44)… Gli spazi della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, ad ogni livello, nel tessuto della vita di ciascuna Chiesa (NMI 45)… Questa prospettiva di comunione è strettamente legata alla capacità della comunità cristiana di fare spazio a tutti i doni dello Spirito. L’unità della Chiesa non è uniformità ma integrazione organica delle legittime diversità… È necessario perciò che la Chiesa del terzo millennio stimoli tutti i battezzati e cresimati a prendere coscienza della propria attiva responsabilità nella vita ecclesiale… Certamente un impegno generoso va posto per la promozione delle vocazioni (NMI 46)”. Dunque, siamo interpellati in prima persona sia nella comunione che nell’animazione pastorale delle vocazioni.
Dalle studiate “mutue relazioni” alla condivisione della vita
Occorre dire subito che il rapporto vita consacrata e Chiesa particolare è in fase di studio e riflessione da pochi anni. Certamente oggi l’accento di attenzione è spostato più sulla Chiesa particolare che sulla Chiesa universale, come invece era prima del Concilio. Oggi, fortunatamente, nonostante i problemi, si va sempre più comprendendo che la Chiesa particolare è la Chiesa nel suo realismo, perciò non è più possibile cercare altrove, in altre direzioni, la comunione effettiva con la Chiesa, nonostante tutte le sicurezze garantite dall’esenzione. Di conseguenza, soprattutto le comunità consacrate devono prendere coscienza del vero significato della loro appartenenza alla Chiesa di Dio, stando in una Chiesa e vivendo di essa, non solo lavorando in essa o per essa. Prima del Sinodo del prossimo autunno sulla Chiesa locale, rimane al momento fondamentale il riferimento al documento Mutuae relationes del 1978, con l’invito ai vescovi a prendere di petto il compito di difendere, promuovere, animare la vita consacrata (MR 52) e con l’esortazione ai consacrati ad un’effettiva partecipazione alla vita della Chiesa locale, poiché ogni istituto è nato per la Chiesa ed è tenuto ad arricchirla con le proprie caratteristiche, secondo un particolare spirito ed una missione specifica (MR 14). Ma, da queste “studiate” mutue relazioni del 1978, occorre dire con verità che fino ad oggi, il più delle volte, il rapporto tra vita consacrata e Chiesa particolare si è limitato ad essere di buona vicinanza e di cordiale collaborazione, insieme con un’immancabile dose di lagnanze vicendevoli e di tira e molla per piccole e grandi rivendicazioni, non assenti nemmeno sul campo della pastorale vocazionale. Insomma, ci si coglie ancora uno di fronte all’altro, senza capire, invece, che è importante esprimere una reciproca appartenenza, quella cioè della comunità consacrata che è a tutti gli effetti Chiesa con la Chiesa particolare e quella della Chiesa locale, che si deve realizzare anche attraverso i consacrati. E, da questa consapevolezza, tirare insieme le conseguenze: moltiplicare i gesti di fiducia, di solidarietà apostolica, di sollecitudine e di concordia, creando una rete di relazioni che ci facciano percepire come discepoli dell’unico Signore; gente che ha messo Cristo al centro in modo più forte ed evidente dei propri carismi e delle proprie strutture e che lo cerca appassionatamente come l’unica verità, che libera e salva. Dunque, riposizionare il primato di Dio, rinunziando anche a ciò che immediatamente può sembrare più sicuro e vantaggioso per la propria istituzione, purché risplenda Cristo al centro del nostro cuore e al centro della Chiesa.
Una rete di relazioni che ci facciano percepire servi per amore, costruendo pazientemente e gratuitamente la via nella comunione. Una cosa senz’altro è più che certa: non si costruisce il domani di Dio nel presente degli uomini, attraverso avventure solitarie o fughe dalle responsabilità del servizio. È finito questo tempo! Oggi è chiesto a tutti i cristiani di testimoniare in maniera corale la possibilità di stare ed essere insieme. Non servi affaticati dal rincorrere i propri interessi, per quanto santi; invece servi inutili, senza diritti, dell’unico Padrone, chiamati a lavorare nell’unica vigna.
Una rete di relazioni che ci facciano percepire testimoni gioiosi del senso. Di fronte a tutte le maschere della verità della nostra epoca e di fronte a tutti gli ingannevoli specchietti per accalappia-allodole, cioè la vetrina delle cose inutili o dannose offerte dall’abbondanza del consumismo, ci incoraggiamo a vicenda ad essere testimoni del senso più grande della vita e della storia; esso infatti risulta la grande vocazione del Regno di Dio, grembo dello Spirito Santo, che concepisce ed opera la gestazione della vocazione di ogni persona e di ogni cosa. Disposti, dunque, tutti a pagare il prezzo per questa verità e per questa testimonianza.
Per una Chiesa più abitabile
Voler essere Chiesa così, amare insieme la Chiesa in questo modo significa rendere questa stessa Chiesa più abitabile, accogliente ed attraente, dove tutti si possono sentire accolti, rispettati e personalmente riconciliati nella carità. Il nostro pianeta sta uscendo con fatica dal naufragio dei vari totalitarismi ideologici ed ha, come non mai, il bisogno impellente di questa carità concreta, discreta e solidale, che sa farsi compagnia della vita e sa costruire comunione. A questo scopo, il vero problema per tutti è tornare ad essere presenti all’uomo ed alla sua storia. Ma qui rimbalza subito la domanda: come arrivarci? La risposta deve comprendere il che cosa fare ed il come procedere. La prima cosa, mi sembra, è imparare a mettere insieme le risorse, moltiplicare le risorse, condividendole insieme. Quante cose importanti abbiamo imparato in questi anni, ma, purtroppo, poche sono state tradotte in vita. Però tutti, pastori, consacrati e laici abbiamo acquisito quanto basta per metterci in cammino. Le acquisizioni tuttavia rimangono per lo più sepolte nei cuori e le impostazioni generali sono rimaste sostanzialmente quelle di sempre. È di qui che bisogna venire fuori. È possibile? Non c’è che da rispondere di sì ma a condizione che la strada sia la comunione a tutti gli effetti. L’affermazione potrebbe apparire la solita trita e ritrita, detta e ripetuta a iosa e in tutti i modi anche in questa relazione. Ma qui si intende una cosa molto concreta. Ed allora occorre parlare di comunità consacrata aperta, composta di gente aperta con i fratelli di fede e con i lontani, aperta ad “intra”, attraverso una reciprocità di rapporti veri e profondi e aperta verso il “fuori” della stretta cerchia comunitaria. È questione di una nuova qualità di vita e le comunità consacrate sono ammalate di qualità di vita, quella qualità di vita che viene generata dalla relazione profonda, perché il comandamento dell’amore è veicolato dalla e nella relazione. La complessità di oggi si deve affrontare con il confronto e l’integrazione reciproca. Ma anche comunità parrocchiali aperte. Se la parrocchia, la Chiesa particolare vuole ricomprendersi e vivere come Chiesa, deve imparare ad essere contemporaneamente luogo e momento di comunione e di servizi multiformi nell’ambito della comunità ecclesiale, nel territorio e nella società. La parrocchia non è e non può essere una delle tante organizzazioni strategiche dell’istituzione ecclesiastica ma un modo vivo e concreto di far esistere il mistero della Chiesa nell’oggi e nel qui della storia umana. Una parrocchia dunque aperta, perché tutta intera comunionale, tutta intera ministeriale, tutta intera missionaria. Comunità consacrate aperte, comunità parrocchiali aperte, famiglie aperte, che, insieme, formano l’unica Tenda Biblica del Convegno, dove si prova il gusto di lavorare insieme e dove vige la legge della tenerezza e della compagnia. Tenerezza come gratuità di dono e di accoglienza vicendevole senza steccati ed emarginazioni di alcun genere e compagnia come responsabilità e solidarietà scambievole, anche a costo di pagare caro una scelta scomoda di questo genere.
Dall’accoglienza del mistero vocazionale alla prassi
“La pastorale vocazionale non è un qualcosa in più da fare ma è l’anima stessa di tutta l’opera evangelizzatrice della comunità ecclesiale”. L’espressione del Piano Pastorale per le Vocazioni in Italia del 1985 (n. 26) rimane di un’attualità sconcertante. Ecco, tutto il discorso fatto finora sulle relazioni tra religiosi e chiesa particolare, per giocare la carta di una vera ecclesiologia di comunione, indispensabile per procedere nel vasto mare del 3° millennio cristiano ha qui, direi, un campo profetico privilegiato, che può avere in sé addirittura la capacità di smuovere e coinvolgere tutto il rinnovamento della pastorale ordinaria, proprio per la sua trasversalità. Quello della vocazione e delle vocazioni è un tema ed un ambito elettrizzante e straordinariamente coinvolgente per tutti i motivi che ben conosciamo. Dunque, può diventare immediatamente il luogo di una più fattiva comunione ed uno stupendo laboratorio di relazioni, per una realtà ecclesiale nuova, dove ogni battezzato può veramente fare esperienza di Chiesa a pieno titolo. E quali potrebbero essere i punti basilari per un itinerario a lungo termine di questo laboratorio?
Formarsi insieme
per conoscere le grandi vie della storia di Dio e della storia degli uomini, e cogliervi i segni dei tempi. Scoprire così che la vocazione è in effetti la storia del destino che Dio prepara per i suoi figli e del cammino per il quale guida ciascuno di loro. In tal modo la vocazione si snoda nel discernimento spirituale, inteso non come semplice ricerca di capire ma come parola di chiamata e parola di risposta, attraverso le quali la sequela prende forma. Formarsi insieme nella spiritualità di comunione, che, oltre le conoscenza chiare dell’ecclesiologia del Vaticano II, punta su un nuovo impegno di santità (è la vocazione fondamentale, di cui le altre sono unicamente vie), santità non solo personale ma di gruppo, santità coltivata attraverso la preghiera e la revisione di vita portate avanti insieme.
Progettare insieme
cammini di annuncio e di accompagnamento vocazionale, mettendo a frutto comune le ricchezze di ogni carisma, senza la preoccupazione immediata di guadagnare ed accalappiare vocazioni per sé ma sinceramente attenti alla maturazione del disegno di Dio in ogni giovane.
Partire insieme
per la missione e l’evangelizzazione, perché un istituto consacrato, una chiesa particolare, una parrocchia aperta ed attenta alla dimensione vocazionale non possono fare a meno di favorire concreti e multiformi servizi socio-pastorali, suscitando nelle persone, in particolare nei giovani, la disponibilità a rispondere a queste esigenze e a mettersi a servizio. Infatti lo abbiamo costatato tutti più di qualche volta: ciò provocherà una reazione a catena, soprattutto se ci vedranno collaborare strettamente insieme, pur con carismi diversi, come ci si deve aspettare dalla carovana di Dio.
Conclusione
Mi piace terminare citando alcune espressioni profetiche, di estrema attualità, di Giorgio La Pira, pronunciate ai tempi della prima fase del Vaticano II. Siamo nel settembre 1962. “Il Concilio Vaticano II è il ‘segno’ più visibile della nuova epoca storica, della nuova pienezza dei tempi, della nuova pentecoste, della stagione storica primaverile. Gli alberi della storia sono fioriti: l’estate è vicina: levate capita vestra. Il Concilio dell’epoca spaziale, il Concilio dell’unità e della pace della Chiesa e del mondo, ‘Porta di ingresso’ dell’epoca nuova. È come il Concilio di Gerusalemme: ha davanti a sé il mondo intero! È come una barca (la Chiesa), che deve avventurarsi in un nuovo grande viaggio. Questo Concilio è lo strumento essenziale per l’edificazione di questa unità, di questa pace e di questa fioritura spirituale e civile di tutte le genti. È il Concilio delle due verghe spezzate, ridotte ad unità, di cui parla il profeta Ezechiele”[3]. Oggi si è compiuto il tempo per realizzare finalmente tutto questo[4].
Note
[1] P. MAZZOLARI, I lontani. Motivi di apostolato avventuroso, Bologna, EDB, 1981, pp. 42ss.
[2] F. LAMBIASI, Riposatevi un po’. Fermarsi per informarsi e poi ripartire in Settimana 3/2001, p. 5.
[3] AA.VV., La Pira autobiografico. Pagine antologiche, Torino, SEI, 1994, p. 149s
[4] Preparando la riflessione ho avuto modo di fare riferimento ad alcuni testi che ritengo opportuno suggerire a tutti per ulteriori approfondimenti: AA.VV. ( PASSARO A. a cura di), Aedificare corpus in cantate, Piazza Armerina, Centro diocesano per la formazione permanente, 2000; AAVV. (GOCCINI L. a cura di), Una comunità per domani. Prospettive della vita religiosa apostolica, Bologna, EDB, 2000; FALLICO A., Pedagogia Pastorale. Questa sconosciuta, Catania, Ed. Chiesa-Mondo, 2000; Vita Consacrata 1/2001.