Don Titus Zeman
Dall’albero, i germogli
9 aprile 1951, confine tra Slovacchia e Austria. Alle prime ore del mattino, la Guardia di Confine dell’allora Stato Cecoslovacco che era attiva lungo l’asse della Cortina di ferro, piomba su un gruppo di sacerdoti e chierici che si stava nascondendo presso gli argini del fiume Morava, dopo un tentativo fallimentare di guadarlo a nuoto. Calci, spinte e percosse rappresentano solo l’inizio di un terribile periodo di torture, detenzione nelle carceri di massima sicurezza, condanna in un processo-farsa nel febbraio 1952.
A capo del gruppo c’è un Salesiano di 36 anni, don Titus Zeman. Con alcuni altri, si era impegnato a portare in salvo in Austria, i sacerdoti diocesani perseguitati dal regime, in Italia, i giovani Salesiani in formazione. Poteva contare su una grande energia fisica e un’attrazione innata per l’avventura; certo non su una predisposizione naturale al sacrificio o un’imprudente sete di martirio. Ma quando, nella notte tra il 13 e il 14 aprile 1950, tutti i religiosi della Cecoslovacchia erano stati imprigionati in una azione a tenaglia, lui – che era provvidenzialmente scampato, trovandosi allora coadiutore parrocchiale – capisce che essere rimasto libero gli pone dinanzi due alternative nette: ingegnarsi a restare nascosto in attesa che la persecuzione termini, esporsi per aiutare molti altri. Sa che libertà significa responsabilità. Con alcuni, don Ernest Macák, don František Reves ed altri, comincia a organizzare spedizioni segrete oltre confine, salvando molte vocazioni: fino a quell’aprile 1951 quando, per essersi attardato ad assistere i più affaticati, viene catturato. A don Titus Zeman si dischiudono 13 anni di carcere duro e 5 di libertà condizionata, ma sempre perseguitato e spiato. Subirà percosse, se ne metterà alla prova la tenuta mentale, verrà trattato con una sostanza chimica oggi usata come diserbante. In quegli anni, Titus si costruirà un rosario in filo e granelli di pane, uno per ogni periodo di torture, e diventeranno oltre 50. Ammetterà che solo l’Ecce homo l’aveva aiutato a sopravvivere a quell’inferno.
Come era maturata, però, quella singolare vocazione a salvare altre vocazioni – che si esprimeva in marce forzate, attraversamento di fiumi e montagne, azione clandestina – per cui la Chiesa l’ha beatificato come martire – martire per la salvezza delle vocazioni – il 30 settembre 2017 a Bratislava? Lo spiega egli stesso in due lettere scritte all’amico “Miško”. Titus in quel tempo era a Linz: attendeva, con una certa impazienza, che il diminuire della neve gli permettesse di riprendere l’attività sul confine. E, d’un tratto, fa esperienza della desolazione, della notte oscura: «Devo lottare contro questo pensiero: già tre volte la cosa è stata rinviata. Non è questo un avvertimento dall’alto, che io non continui […]? Che io mi preoccupi di aiutarli, ma non lo faccia più personalmente? Ti confesso – prosegue Titus in un crescendo di tensione – che prima quasi non conoscevo cosa fosse la paura». Ora sì che la conosce: tutto si fa per lui oscurità, enigma e prova.
Poi, 5 giorni dopo, il 26 gennaio, la svolta decisiva: durante la celebrazione della Messa, don Titus si lascia raggiungere con particolare forza dalla Parola del giorno: «Oggi alla Santa Messa ho avuto due ispirazioni molto forti; se le avessi ricevute prima non ti avrei scritto la lettera precedente sulla mia paura. La prima [ispirazione] è venuta durante la prima lettura: et nos debemus pro fratribus animas ponere:ecco il nostro obbligo ad essere pronti a sacrificare la nostra vita per i fratelli ed ecco perché non si deve avere paura». La seconda ispirazione (Titus letteralmente scrive: “iniezione”) gli arriva dal Vangelo: «Nolite timere… non abbiate paura,nonne duo passeres asse veneunt?». “Non si vendono forse due passi per un soldo?”. Mavoi valete più di molti passeri. È il momento della svolta, della vocazione nella vocazione. Essa – che prenderà per Titus la forma concreta del sacrificio per la salvezza di altre vocazioni – passa dunque da due elementi chiarissimi. Anzituttodalla Parola di Dio, rispetto alla quale Titus non è più il lettore, ma colui che è letto; dunque non una Parola da leggere, ma una Parola che ti legge, «più tagliente di ogni spada a doppio taglio, [che] penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (cf. Eb 4, 12). Passa quindidalla concreta situazione storica ed ecclesiale del suo tempo, con priorità ed urgenze che per Titus diventano primarie rispetto al legittimo desiderio di stabilità personale, all’umanissima paura dinanzi al pericolo e alla morte, alla ragionevole valutazione che le sue deboli forze non sarebbero bastate ad arginare l’aggressione del regime ai consacrati. La verità del cammino di Titus forse sta tutta in quel passaggio: dalla paura alla ferita risanante d’una Parola di Dio viva ed esigente che scruta, consola, illumina e orienta.
In una terza, successiva lettera, Titus Zeman scriverà: «Cari amici e fratelli! Quando voi festeggerete giorni di gioia, saprete che io ancora non potrò. Ma vado perché devo andare[…] che sappiate attuare nella nostra opera tuttoquello che Dio e la Chiesa da voi chiederanno». Il giorno dei funerali, l’11 gennaio 1969, un Salesiano disse: «Quello che hai intrapreso non è stata un’avventura, non è stata incoscienza né desiderio di clamore. Solo è stato amore per le anime. […] Non aver paura, caro Titus. Il tuo sacerdozio non termina oggi, ma continua nel sacerdozio di quelli a cui hai reso possibile diventare sacerdoti. […] l’albero deve estinguersi perché fioriscano i germogli […] e quell’albero sei stato tu, Titus».
Vocazione, allora, è un seme che muore perché altri abbiano vita. È una vita che diventa albero su cui tante altre vite possano trovare accogliente protezione e abbiano occasione di crescere.
Se al beato Titus Zeman è stato chiesto di incarnare tale consapevolezza sino al martirio, essa tuttavia prende forma in ogni vita che voglia essere autentica testimonianza.
«Forse qualcuno lo chiamerà falso eroismo, forse pazzia, forse irragionevolezza. Ciascuno lo chiami come vuole, io lo chiamo dovere che mi è stato affidato dai miei superiori.»
(Titus Zeman, Letteradel 26 gennaio 1951)
«Non aver paura, caro Titus. Il tuo sacerdozio non termina oggi, ma continua nel sacerdozio di quelli cui hai reso possibile diventare sacerdoti».
(Andrej Dermek, Paroleal momento della sepoltura di don Titus, 11 gennaio 1969)
«La coscienza di aver ricevuto il dono, di possedere in Gesù Cristo l’amore di Dio, genera e sostiene la risposta responsabile di un amore pieno verso Dio e tra i fratelli.»
(Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica «Veritatis Splendor», 24).
«[I martiri] hanno realizzato quella carità che il Signore definì la maggiore possibile. Essi, infatti, hanno dato ai loro fratelli la medesima testimonianza di amore che essi stessi avevano ricevuto alla mensa del Signore»
(Agostino d’Ippona, Trattati su Giovanni, 84, 1-2).
Don Titus Zeman nasce a Vajnory, piccolo sobborgo in provincia di Bratislava, il 4 gennaio 1915. Primo di 10 fratelli, ancora bambino viene guarito per intercessione della Madonna e da allora sintetizza nelle semplici parole «sarò Suo figlio per sempre» un fermo proposito di consacrazione. Lo realizzerà tra i Salesiani di don Bosco, emettendo la professione perpetua nel 1938 e ricevendo l’ordinazione sacerdotale nel 1940, in piena guerra. Laureato in Chimica e Scienze naturali, docente, buono sportivo, quando il totalitarismo comunista dilaga nella sua patria egli intraprende con alcuni altri una rischiosa attività a salvezza delle vocazioni. Catturato nel 1951, condannato per alto tradimento e spionaggio nel 1952, Titus affronta 13 anni nelle carceri dure della Cecoslovacchia, in cella con omicidi ed ergastolani di lungo corso, prigionieri politici e credenti perseguitati; poi 5 anni in libertà condizionata, sempre pesantemente vessato; infine viene trattato come cavia da esperimento. Muore l’8 gennaio 1969 e quello stesso anno un Processo lo proscioglie dalle accuse più gravi di cui il regime stesso – auto-contraddicendosi – attesta il carattere strumentale. È stato proclamato beato il 30 settembre 2017. Per conoscerlo: L.M. Zanet, Oltre il fiume, verso la salvezza. Titus Zeman martire per le vocazioni, Elledici, Torino 2017.