N.03
Maggio/Giugno 2019

In vasi di creta (2 Cor 4,7)

C’è nell’aria, spesso intorno a noi, un’immagine di potenza che uccide: o sei al massimo livello o sei pietra di scarto. Una società, la nostra, che avanza pretese sulla vita. E bisogna stare al passo, alla pari con i sogni dei genitori e dei figli, con i sogni dei maestri e degli educatori, con i sogni degli amici e dei colleghi. E non con quel sogno a misura d’uomo che Dio ha chiuso dentro ciascuno di noi.

Sentiamo, talvolta, di ragazzi che se ne vanno e scompaiono nel vuoto a motivo di una corsa che spesso diventa impari, nel tentativo di realizzare i sogni che gli altri avevano costruito su di loro; un’impresa titanica, umanamente impossibile. Impossibile, o quasi, vivere in una società che non accetta, non accoglie e non ama la debolezza. E allora si fugge. E se non si fugge dalla vita, si potrebbe arrivare ad indossare una maschera. Quante maschere intorno a noi! Sono maschere che in alcune circostanze non possiamo fare a meno di indossare anche noi per nascondere la nostra debolezza. Guai, infatti, a perdere la nostra immagine e tradire la benché minima debolezza. E così indossiamo volentieri maschere diverse, come quelle della compiacenza, del perfezionismo, del controllo, mostrando forza, sicurezza e capacità di padroneggiare qualsiasi situazione.

Mentre l’idea di onnipotenza fa strage dentro di noi e fuori di noi, il chinarsi sulle cose umilmente può dare fiato alla speranza. E noi sappiamo che Dio ha deciso di manifestarsi a partire dalle nostre fragilità. Chi conosce un po’ la vicenda di san Paolo sa che nel suo ministero, rispetto ad altri predicatori contemporanei che parlavano con maggiore eloquenza ed erudizione, egli si presenta con semplicità, senza grandi parole suggerite dalla sapienza umana, debole e provato nel fisico. Eppure, proprio a lui Gesù, sulla via di Damasco, si rivela, e da allora Dio continua a fargli brillare in cuore la luce del suo Figlio e lo invia a portare a tutti quella luce. Paolo si rende conto della sproporzione tra la preziosità inestimabile della missione affidatagli e l’inadeguatezza della sua persona: un tesoro in un povero vaso di creta (cf. 2Cor 4,7).

Dobbiamo ammetterlo. È davvero difficile accettare la propria debolezza. Quante volte avvertiamo la nostra povertà, i limiti, l’insufficienza davanti ai compiti che ci sono affidati, l’incapacità di rispondere pienamente alle esigenze della nostra vocazione, l’impotenza di fronte a situazioni che sono più grandi di noi. Come Paolo, ci sentiamo vasi di creta. E ci è facile riscontrare le stesse debolezze e fragilità anche nelle persone che ci stanno accanto, in famiglia, così come nella comunità o nel gruppo di cui facciamo parte.

Il vaso di creta è casalingo, umile, fragile, di utilizzo quotidiano. Non è un oggetto prezioso da esibire all’ammirazione di tutti. Fuori di metafora: Dio non si serve di superuomini, ma soltanto di uomini comuni, fragili che spesso faticano a credere, come i discepoli. Li prende così, deboli come sono, per renderli santi, cioè pienamente affidati alla potenza della sua Grazia.

Questa meraviglia di Dio non cessa di stupire. Se il vaso fosse prezioso, attirerebbe l’attenzione su di sé; nella sua umiltà, invece, rimanda altrove. La sua debolezza è la sua trasparenza. La potenza del Vangelo si fa presente nell’inadeguatezza per rendere chiaro a tutti che la sua efficacia viene da Dio, non dagli uomini, né dai loro strumenti.

Simone Weil, nella sua opera L’ombra e la grazia, una raccolta di pensieri, aforismi e meditazioni, parla dell’esperienza di pesantezza e di grazia che fa chi crede ed ha fatto esperienza del divino. La grazia non toglie la pesantezza, l’opacità e l’argilla refrattaria del vissuto quotidiano. Sono due realtà e due dimensioni che si sperimentano insieme, con la differenza che una – la pesantezza – viene da noi, è nostra, la si vive direttamente, anche se a volte la nascondiamo o la riscopriamo temporaneamente; l’altra invece – la grazia – non è cosa nostra, non si ha su di essa alcuna presa diretta e non se ne può disporre.

La fede è proprio questo: una realtà fragile, «un tesoro in vasi di creta».