Segni di speranza in una cultura “antivocazionale”
Entrare nel mondo giovanile e tentare di darne una lettura in chiave vocazionale è compito arduo. V’è il rischio, ancora una volta, di parlare dei giovani come di un problema, dove analisi pastorali che rivelano una “cultura antivocazionale” frutto di questa società “del pensiero debole”, possano al più far nascere interventi di difesa o di impotente rassegnazione. Ancora una volta alla Chiesa invece è dato di vivere nel tempo e con queste generazioni. Ed è compito del credente dare una lettura cristiana di ogni situazione. Soprattutto lo sguardo sapiente fa vedere dentro la storia la presenza di un Dio che accompagna, interpella e chiama ad alleanza proprio nei momenti apparentemente meno fecondi e fruttuosi.
Non esistono situazioni impossibili per il cristiano ma, con sano realismo, egli guarda “con immensa simpatia al mondo perché, anche se il mondo si sentisse estraneo al cristianesimo, la Chiesa non può sentirsi estranea al mondo, qualunque sia l’atteggiamento del mondo verso la Chiesa”[1]. Sappiamo ora di esprimere una lettura parziale del mondo giovanile. La breve riflessione non ha la pretesa di uno studio analitico e progettuale. Solo cerca alcune costanti che potranno essere rilette come occasione positiva per l’evangelizzazione e per rinnovare la proposta cristiana che interpella e chiama ad alleanza ogni credente.
Costanti “antivocazionali” e novità evangelica
Dalla corporeità l’esigenza di una spiritualità
La riscoperta della centralità del corpo nel vissuto giovanile è divenuto elemento determinante della cultura occidentale. Ne conosciamo le deviazioni e le mali interpretazioni come anche le reazioni contrarie che danno vita a forme nuove di spiritualizzazione. Dentro questa dimensione una novità positiva che può essere espressa nell’asserzione: “Io non mi servo del mio corpo, io sono il mio corpo”[2]. Nel richiamo forte del giovane d’oggi alla corporeità possiamo cogliere la natura intrinsecamente relazionale del nostro essere.
Vedere nella corporeità il centro relazionale della persona non significa affatto proporre una riduzione materialistica della sua realtà, ma consente di cogliere la peculiare spiritualità della nostra condizione. Scoprirci come esseri relazionati e quindi non assoluti è invocazione costante del mondo giovanile che parla attraverso il corpo. Scrive Buber: “Lo spirito non è nell’io, ma tra l’io e il tu”. Così la spiritualità, è apertura, correlazione dinamica tra gli esseri, incontro fra l’io e il tu. In questo senso il contrario dello spirito, non è il materiale, ma la chiusura nel proprio io, l’ostinato rifiuto della relazione. La vita spirituale non ha luogo quindi se non si passa per l’ascolto dell’altro.
La corporeità non è il peso gravoso dell’esistenza umana che ci rende incapaci di comunione con Dio. I giovani con la loro vita chiedono una riconversione della spiritualità perché recuperi la dimensione corporale, fisica, storica. Un’istanza questa che la tradizione ecclesiale ha sempre riconosciuto e che ora, forse, chiede una sapiente attuazione.
Dalla riduzione dello spazio a una logica di interdipendenza
Le distanze del passato si vanno riducendo. Il giovane riesce ad essere, in poco tempo, su più spazi. La comunicazione mass-mediale riduce e elimina lo spazio. È proprio del giovane di oggi non riconoscersi più in certi luoghi tradizionali: la casa, il paese, la patria. È ormai un dato riconosciuto la crescente “deterritorializzazione” e la ricerca di altri spazi che si esprimono nella incapacità di stare fermi in un posto, di cambiare continuamente luogo di aggregazione, di vagare nella notte. Una mentalità dove sono abolite le distanze, una cultura “senza spazio” è una cultura che a lungo andare non ammette la distanza-separazione-differenza-diversità tra l’io e l’alterità. Alla fine questa cultura alimenta un movimento e un modo di pensare fortemente narcisistico: “tutto ruota intorno a me”. Lo spazio è necessario come mediazione come luogo dove l’io e l’altro si incontrano senza fusione totalitaria, senza soppressione reciproca come l’evento dove avviene la piena realizzazione fra i due.
Ma dentro questo “villaggio globale” è il giovane stesso che va alla ricerca di spazi inediti e inesplorati: l’attenzione alle nuove povertà, la conoscenza di nazioni del sud del mondo, la capacità di pensare in termini di mondialità, di affrontare i problemi nei vari ambiti (economico, culturale, politico…) con un’ottica planetaria e di interdipendenza. Ecco un’altra sfida che si pone alla Chiesa: percorrere la strada di questi nuovi spazi che mantengono il giovane aperto a un movimento “ex-tatico”, capace cioè di uscire dalla sua incomunicabilità e individualità.
Dalla frammentazione degli istanti al senso della storia
Un altro elemento presente nel mondo giovanile è il tentativo di riduzione del tempo nella simultaneità degli istanti. Gli attimi rimangono nella totale frammentazione avendo perso il fondamento dell’Eterno che come un “filo rosso” li potrebbe legare. Si è perso il “da dove” veniamo e “verso dove” andiamo. La vita è gioco, concepita come libera invenzione; un gioco in quell’istante, senza passato e futuro. È questa l’apologia della distrazione, è pensare come pulsione continua. “Le generazioni non si colgono più nella necessità del trasmettere e dell’ereditare: più nessuno si sente testatore e, di conseguenza, i giovani non percepiscono neppure che potrebbero essere eredi. Chi ha l’audacia di custodire la memoria? L’affermazione della pluralità, della diversità, della relatività e quindi della tolleranza rende ognuno creatore autonomo di fini e di mezzi, il cui unico limite è nel rispetto di regole necessarie a evitare la degenerazione dei conflitti di interesse. Ma questo, lo si voglia o no, non fa che innalzare un canto all’indifferenza”[3].
Anche questo dato risuona come sfida per l’annuncio del Vangelo oggi. Il ricomporre in uno è urgenza evangelica, è pressante richiamo di un grido di frammenti che non trova senso e armonia. Nella vicenda dell’uomo ha fatto irruzione l’evento del Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, un Assoluto concreto, un Eterno nel tempo. L’unità è accaduta con Gesù di Nazareth, innalzato da terra “per fare dei due un popolo solo”. Un pressante richiamo viene dai giovani a coloro che sono trasmettitori della fede: “i giovani di oggi non professano un’incredulità intellettuale e neppure un’indifferenza giustificata: cercano proposte di senso, vogliono tentare un cammino che trovi senso con gli altri, non apprezzano gli ‘a priori’ e le soluzioni prefabbricate. Su questo punto occorre che ‘i padri e le madri’ si interroghino sulla possibilità di una cultura della presenza, sull’eloquenza della loro fede e della loro vita cristiana quotidiana. Il dialogo è possibile con i giovani: ma si ha la volontà di trasmettere loro un’eredità?”[4].
Dall’Assoluto senza volto al Volto dell’uomo-Dio
Anche per i giovani si va proponendo loro un gran mercato delle religioni. E dato abbastanza diffuso nel mondo giovanile non più il rifiuto e la contestazione ma la fuga in un nuovo “religioso”. Si tratta per lo più di una religiosità che fugge la responsabilità nella storia, la relazione personale con un Dio personale, la comunione nella confessione di un Dio Padre.
Un Assoluto che non incontri mai il concreto esistere dell’uomo, non può interessare, anzi diventa una fuga dalla vita di ogni giorno. Un certo tipo di sacro presente nelle sette e nei vari gruppi agnostici ha rimesso fortemente in scena un religioso anonimo che come tale rischia di cancellare i volti degli uomini.
Di questo i giovani se ne stanno rendendo conto e dopo l’esperienze della ricerca di un “Oltre” generico invocano un esempio concreto, una voce che si possa ascoltare, un testimone che si possa vedere. “L’io è chiamato a deporre la propria sovranità per essere custode di un’epifania, per accogliere l’irruzione di un inatteso. Ma tra i volti diventa decisivo l’incontro con il Volto che in modo inatteso si fa incontro come Risorto, ma con i segni del Crocifisso, e ti domanda: Mi ami tu?”[5]. Questo è il Volto che vogliono vedere i giovani.
Per un annuncio e una chiamata cristiana
La cultura e il mondo giovanile rilanciano alla Chiesa una provocazione forte. E come sempre la Parola ci insegna che il cristianesimo ha sempre da offrire una Buona Notizia da porre all’uomo d’oggi. Ecco, senza preoccupazione di organicità e sistematicità, alcune indicazioni perché l’annuncio e la chiamata cristiana si offra oggi ai nostri giovani da parte della Chiesa. Sono semplice suggerimenti che richiedono una riflessione più pacata sia nell’ambito più generale della evangelizzazione sia per la nostra pastorale ordinaria.
Suscitare la domanda
Sembra così scontato ma è ancora la domanda di felicità che sta nel cure dell’uomo, domanda che è spinta per ogni ricerca. All’inizio, ma anche nel percorso di ogni chiamata, v’è la domanda di senso, la domanda che va alla ricerca di una risposta alla sete di felicità che sta nel cuore dell’uomo.
Questa domanda oggi come ieri è generata in un incontro con persone felici. “La figura di Gesù attira. Come credenti – scrive Fausti – abbiamo la grande responsabilità di offrire comunità che lo testimonino, perché la fede passa attraverso la testimonianza vissuta, della quale altri possono dire: ‘È bello vivere così’. Mi ha colpito vedere amici atei, che conoscevo da trent’anni, approdare alla fede per un motivo che una volta avrei ritenuto banale, cioè perché incontrano un credente. E dicono: ‘È credente; non è disonesto né scemo, e vive con gioia. Perché non esserlo anch’io?’. È importante sapere che il Vangelo è bello per i cristiani, ma è bello per ogni uomo”[6].
I testimoni gioiosi della fede interrogano ancora i giovani. Basti pensare all’incontro dei giovani con il Santo Padre nell’ultima Giornata Mondiale della Gioventù. Lui stesso all’inizio dell’incontro ha posto una domanda: “Che cosa siete venuti a cercare? O meglio, chi siete venuti a cercare?”. E il Santo Padre questa domanda la sta facendo ai giovani ogni qual volta li incontra.
Il coraggio di una proposta
Rinnovare l’annuncio oggi ai giovani significa ribadire nel cristianesimo il primato della fede. Questo va fatto con franchezza e chiarezza. I giovani chiedono questo. Uno sbaglio è riproporre l’esperienza religiosa cristiana facendola corrispondere a un impegno morale o a un semplice servizio nel mondo. L’esperienza della fede è primariamente invece accesso ad una relazione personale, amorosa, con Cristo grazie alla rivelazione di Dio. Anzi “l’evangelo è buona notizia per coloro che si sentono abbandonati da Dio, l’annuncio che ogni persona umana può avere una buona relazione con Dio, nonostante essa sembri prerogativa di un ambito delegato a tale questione”[7].
Da questo i giovani d’oggi sono ancora affascinati. Certo il cristianesimo comporta un’etica che parte da Gesù ma questa “deve essere percepita come epifania della fede: le opere del cristiano sono sempre opera fidei, perché suscitate, motivate, fondate, ispirate e giudicate dall’adesione al Dio vivente”[8]. E per far questo dobbiamo tornare a ridarci tempo per testimoniare questo primato come comunità cristiane, come evangelizzatori, come chiamati. Non ci sarà proposta di fede se non diamo spazio e tempo per pronunciare la sua presenza in ogni luogo perché “la testimonianza cristiana non è trasmissione di idee su Dio, ma annuncio della relazione con lui, degli affetti che Dio suscita e dei legami che Dio rinsalda, della sapienza che la frequentazione di Dio fa crescere”[9].
Con una relazione umana matura
Non c’è buona notizia se non c’è salvezza, se non c’è liberazione. Questa salvezza i giovani la percepiscono dentro le relazioni umane piene. Per questo recentemente il superiore dei domenicani scriveva a proposito delle comunità religiose: “Così le nostre comunità dovrebbero essere non soltanto luoghi ove sopravvivere solamente, ma posti dove trovare cibo per il nostro cammino… È solo a queste comunità che i giovani confratelli dovrebbero essere assegnati. Essi porteranno la semente della vita domenicana futura. A meno che non faccia dei programmi per costruire comunità di questo tipo, la provincia morirà.Una provincia con tre comunità nelle quali i confratelli fioriscono nella loro vita domenicana ha un futuro, con la grazia di Dio. Una provincia con venti comunità nelle quali soltanto si sopravvive non può avere un futuro”[10] .
Semplice intuizione che è avvalorata dall’esperienza della vita consacrata. Per la proposta cristiana che susciti una riposta oggi più che mai si tratta di riabitare gli spazi di umanità, ogni spazio. Nello spazio umanissimo delle relazioni la buona notizia può divenire proposta di vita. “Gli uomini di oggi, soprattutto i giovani, domandano esperienze fondatrici, cioè esperienze che diano senso alla loro vita, e per questo vogliono testimoni, iniziatori, accompagnatori: ma tutto questo avviene attraverso incontri personali in cui la qualità umana deve essere la prima concreta attestazione della qualità della fede cristiana”[11]. Senza questa qualità umana il mistero dell’Incarnazione non può rendersi presente con il suo fascino e incantare ogni uomo in un gioco di chiamata e risposta.
Note
[1] Paolo VI, Betlemme, 6 gennaio 1964.
[2] G. Marcel, Giornale metafisico, Abete, Roma 1976, p. 220.
[3] E. Bianchi, Come evangelizzare oggi, Qiqajon, Magnano 1997, p. 14.
[4] Ib., p. 22-23; cfr. D. Sigalini, I vescovi italiani e l’educazione alla fede dei giovani, in “Note di Pastorale Giovanile” 4 (2000), pp. 10-24: “Esiste troppa frammentarietà che va superata con una scelta vocazionale nella pastorale giovanile: “occorre fare in modo che le esperienze costituiscono una storia”.
[5] A. Giordano, Il Vangelo e le sfide della nostra cultura, in “Gen’s”, 1/1991, p. 94.
[6] S. Fausti, Il futuro è la Parola, Piemme, Casale Monferrato 2000, p. 74.
[7] P. Sequeri, Volgere le spalle a Dio vuol dire morire, in L’amore vince la paura. La relazione come benevolenza, Paoline, Milano 1999, p. 24.
[8] E. Bianchi, Come…, pp. 27-28.
[9] P. Sequeri, Volgere le spalle…, p. 23.
[10] T. Radcliffe, La promessa di vita. Lettera del Maestro dell’Ordine domenicano, in “Regno-documenti” 19/1998, p. 625.
[11] E. Bianchi, Come…, p. 48.