N.05
Settembre/Ottobre 2000

Sacramento della penitenza, direzione spirituale e vocazione personale

In apertura sento fondamentale raccordare il sacramento della penitenza con l’orizzonte della conversione, orizzonte necessario, ineludibile per ogni considerazione di tipo vocazionale. Presuppongo pacificamente condiviso quanto è stato detto nella relazione precedente: altrimenti si ricadrebbe in una prassi pastorale e vocazionale ormai alle nostre spalle, senza un futuro. In questa relazione di tono sapienziale, mi pongo due domande: Quale posto spetta al sacramento della penitenza nella pastorale vocazionale? Nell’accompagnamento personale unire o distinguere il sacramento dalla direzione spirituale?

Di tutti i sacramenti quello della penitenza rimane il meno amato ed il meno amabile, anche nella pastorale vocazionale. C’è una sorta di imbarazzo nel collocarlo dentro gli itinerari relativi, a tal punto che, non di rado, neppure è previsto durante i cammini di ricerca: ci si trova in difficoltà nell’abbinare sacramento, cammino della comunità cristiana, risposta vocazionale. In questa comunicazione evito di dilungarmi nell’analisi delle molteplici ragioni storiche, psicologiche, spirituali che hanno provocato un allontanamento, un’inappetenza dei giovani nei confronti del sacramento della penitenza. È già stato fatto dalla pastorale giovanile con acutezza in molti ambiti. Intendo invece invitare gli operatori presenti ad interrogarsi sulla collocazione, e conseguentemente sulla fiducia, attribuita a questo sacramento nel loro lavoro, nella proposta, nella regola di vita dei giovani che accompagnano in vista di scelte forti. È urgente interrogarsi su quale fruttuosità venga riconosciuta al sacramento della remissione dei peccati in ordine alle scelte definitive della vita…

Come si dirà nella seconda parte della relazione va ripensato il rapporto con la DS. “Il sacramento della penitenza è una celebrazione liturgica e non un semplice colloquio confidenziale. Non c’è dubbio che il colloquio, la DS, il consiglio si inseriscono opportunamente nella celebrazione, ma, per quanto possibile, in situazioni normali, è opportuno e doveroso distinguere i due momenti” (cfr. CIC 246, 4; RP 31, 6)[1]. L’attrazione fatale tra il sacramento e la Direzione Spirituale, sostenuta in particolare dopo il Tridentino, accanto a molteplici frutti spirituali, ha contribuito a clericalizzare la DS e a “privatizzare” il sacramento, impoverendolo dalla sua istanza propria di edificazione della comunità, nonché, ultimamente, a sopravvalutare in alcuni ambiti la dimensione terapeutica. 

Come valutare questa prassi liturgico-pastorale? Si tratta di una prassi impigrita? Come lasciarsi alle spalle stili che banalizzano insieme il sacramento e la DS, senza tuttavia privare il fedele di questo grande aiuto? Il S. Padre ci ricordava: “Giova qui riconfermare il diritto che i fedeli hanno – e al loro diritto corrisponde l’obbligo del sacerdote confessore – di confessarsi e di ottenere l’assoluzione sacramentale anche dei soli peccati veniali. Non si dimentichi che la cosiddetta confessione devozionale è stata la scuola che ha formato i grandi santi” (Giovanni Paolo II, al corso promosso dalla Penitenzieria Apostolica, 13 marzo 1999).

 

 

 

QUALE POSTO SPETTA AL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

NELLA PASTORALE VOCAZIONALE?

 

La riforma del sacramento ormai ha celebrato il suo XXV: se è compresa ed assunta nel suo carattere innovativo, mantiene quello che promette. 

La proclamazione della Parola “ispira” il sacramento, genera l’intima conversione del cuore, libera dal moralismo, illumina il senso del peccato e le vere resistenze all’amore, posizionando l’attenzione del penitente più sul versante del futuro che del passato. Nel cammino vocazionale viene restituito il primato al Mistero di Dio (forte!) più che alla progettualità umana (debole!). L’ascolto della Parola ci radica nella sequela di Cristo: si può allora ripartire da Dio, da una concezione dinamica della cosiddetta “volontà di Dio”. “La proclamazione della Parola, l’imposizione delle mani, unitamente alla preghiera che precede le parole essenziali dell’assoluzione, mettono in evidenza il ruolo primario dello Spirito, anzi della Trinità, che pone pertanto il ministro in una luce più accettabile: non padrone ma servo della misericordia…”[2].

Di fatto nell’accompagnamento delle persone che si interrogano circa la volontà personale di Dio sulla propria vita si è guidati da più modelli possibili, a suo tempo già messi in luce[3]. Può esistere il modello della conflittualità, quello dell’obbligazione e del dovere; oppure in taluni agisce il modello della ricerca personale permanente, ovvero il procedere autentico del Mistero che chiama, secondo il modello dell’esperienza di fede… Tuttavia, la carestia della Parola di Dio fa prevalere spesso nell’immaginario dei giovani il modello antropologico dell’uomo senza vocazione[4]. Dal modo di intendere la volontà di Dio affiora l’immagine che una persona ha di Dio. Solo l’ascolto e la celebrazione costante della Parola di Dio fa irrompere nella nostra vita la presenza di quel Volto che in Cristo manifesta l’Amore che chiama e compie l’esistenza. 

La fede, che risponde, non è un’astratta etica dell’amore o una generica proposta di valori. Esiste una chiamata, (meglio una concatenazione di appelli) all’Alleanza, che emerge nel cuore di questa persona, secondo i caratteri propri dell’Alleanza: unilaterale, offre e chiede la libertà del partner; i segni di Dio non sono un percorso obbligato. La chiamata immette in un orizzonte di amore, l’orizzonte di una Storia di salvezza che fa uscire dal labirinto del non senso. Non ci sono schemi fissi ed immagini fisse di predestinazione.

Nella ricerca vocazionale non si è a caccia di un’unica risposta, magari temuta, da dare e a cui adeguarsi: nessuna caccia al tesoro di tappa in tappa! Neppure si applicano una dopo l’altra tessere di un mosaico in un disegno predisposto. Anche il principio del piacersi di scelta in scelta secondo un modello estetico è falso. Fare la volontà di Dio semmai è come abbandonarsi al ritmo di una danza. All’Amore ci si espone con tutto noi stessi, la nostra storia, i nostri desideri e relazioni, le nostre sconfitte e risorse… “Egli non esige altro che me stesso” (M. Buber). In ciò consiste il carattere difficile e… insopportabile di Dio secondo M. Delbrel. Mossa da questa intuizione compone, a 56 anni, il “singolare ballo dell’obbedienza”: “Signore, insegnaci il posto che, nel romanzo eterno iniziato tra Te e noi, occupa il singolare ballo della nostra ubbidienza. Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni…”[5].

Con un’argomentazione più articolata e stringente don G. Moioli mette in questione quelle visioni della volontà di Dio che incautamente finiscono per umiliare l’immagine dell’uomo o inquinare la rivelazione che Dio fa di se stesso: “In un certo senso, la vita di un uomo è come una complessa, immensa domanda: è Dio l’assoluta, definitiva risposta. Ma in un senso che non è meno vero, i termini si possono rovesciare: e Dio, allora, diventa colui che domanda; mentre l’uomo, con la sua libertà, è colui che risponde. Sia Dio che l’uomo sono, dunque, ciascuno a suo modo, domanda e risposta. Se Dio fosse solo la risposta alla domanda che l’uomo costruisce, avremmo tanti dèi quante sono le proiezioni dell’uomo: il dialogo della vita non sarebbe più tra il Dio vero e l’uomo vero, ma tra un ‘dio’ inventato dai bisogni dell’uomo e l’uomo, che non ha il modo di verificare la propria autenticità. Viceversa, se l’uomo fosse solo la risposta alla domanda di Dio, avremmo un Dio più ‘padrone’ che Padre, e un uomo chiamato ad annullarsi in un’obbedienza senza comunione”[6].

 

Un sacramento che rende responsabili.

Il sacramento della penitenza – e la vocazione personale – educano un modo di intendere la Chiesa. “Se ogni sacramento ha una sua dimensione vocazionale, ogni vocazione ha una sua dimensione sacramentale” (L.M. Chauvet). Il sacramento per un verso è sorgente di un’esistenza vivace, in stato di rinnovamento e conversione continua, per un altro verso esige che tutta la vita sia interpretata dalla conversione intesa come principio ermeneutico. Ora la conversione non va mortificata in un orizzonte individualistico, privato.

Frutto tipico di questo sacramento è plasmare persone riconciliate in grado di aver cura, con il proprio carisma, del volto misericordioso della Chiesa. Fine della riconciliazione è fare Chiesa con il dono di noi stessi, con il dono che noi siamo. In questo senso andrebbe anche ravvivato il senso e l’importanza soddisfazione o riparazione, troppe volte intesa come multa o castigo. Essa è invece iniziale esercizio di responsabilità, per l’edificazione della Chiesa. “… La soddisfazione deve quindi corrispondere, per quanto possibile, alla gravità e natura dei peccati accusati, e può opportunamente concretarsi nella preghiera, nel rinnegamento di sé, e soprattutto nel servizio al prossimo e nelle opere di misericordia: con esse infatti si pone meglio in luce il carattere sociale sia del peccato che della sua remissione” (RP n. 18; cfr. anche n. 6c). 

Così la vocazione e la missione, che alla maggior parte dei giovani non appaiono più come vita ma come problema, grazie allo Spirito effuso dalla celebrazione, sono desiderate e gustate sempre più dal chiamato come apporto urgente e “bello” della propria responsabilità, concertata con la multicolore varietà delle altre vocazioni. In particolare una giusta esperienza del perdono costringe ad uscire dal mito di una salvezza intesa come produttività, come efficienza: si può entrare nel mondo della gratuità, orizzonte unico di ogni vocazione.

Solo chi si sente salvato apprezza la bellezza e l’urgenza della responsabilità e può restare saldo[7].  “Chi resterà saldo? Solo colui che non ha come criterio ultimo la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma che è pronto a sacrificare tutto questo quando sia chiamato all’azione ubbidiente e responsabile, nella fede e nel vincolo esclusivo a Dio: l’uomo responsabile, la cui vita non vuole essere altro che una risposta alla domanda e alla chiamata di Dio. Dove sono questi uomini responsabili?”[8].

Bonhoeffer ricorda che non esiste mai una responsabilità generica verso tutto, ma che in ogni tempo, in ogni epoca, in ogni periodo della storia c’è un discernimento da compiere. Secondo il testimone tedesco una vita responsabile si struttura su alcuni atteggiamenti fondamentali, puntualmente approfonditi, in vista anche di un’azione politica. Il discepolo vive insieme agli altri e per gli altri, con aderenza al reale, che viene conosciuto ed indagato all’interno della sapienza dell’Alleanza, ed assunto nell’interiorità della coscienza: lì risuona l’appello e la risposta che accetta senza ripari il rischio di una decisione concreta. Ovviamente questo è possibile perché il discepolo sa fare memoria e vive riconciliato con se stesso. Il dono del sacramento in questione non è mai generico: crea la risposta libera e personale e la concerta con la risposta degli altri. 

Tra l’altro l’esuberante soggettività dei giovani va educata e trasfigurata. Infatti in molti giovani esiste un rifiuto del rito (Parola e sacramento): esso non produrrebbe effetti “fisici e psichici” apprezzabili, (e la fruttuosità “spirituale”, profonda è difficile da percepire e da capire). Tuttavia non possiamo svendere l’istanza profonda della nostra fede che nel sacramento celebra e vive l’incarnarsi di Dio nella Chiesa e nella propria vicenda personale. Il cristiano vuole così essere raggiunto dalla realtà e verità di questo evento, come da una nuova creazione. I sacramenti lo sono. Dunque al desiderio del giovane, in cerca di riti alternativi, occorre offrire la liturgia come il passaggio del Dio vivente che, guarendo, chiama (cfr intervista al Card. Danneels nel convegno per operatori vocazionali di Francia, tenuto a Lourdes nel 1996: “Di fronte all’incapacità dell’uomo moderno a percepire l’efficacia dei gesti sacramentali, occorre educare all’efficacia di un altro ordine. Insistiamo troppo poco sulla bellezza e la forza dei gesti sacramentali”).

 

Dio si conosce solo nel pentimento del cuore

Nella celebrazione del perdono il discepolo gusta la gioia di sentirsi chiamato a nuovi cammini. Riflettendo sull’irrompere della Misericordia nella nostra vita, alla luce delle Scritture, scopriamo che la chiamata alla conversione genera la vocazione. “La nostra logica religiosa segue il passaggio peccato – conversione – perdono. La grande novità di Osea, che anticipa il NT, è di invertire l’ordine. Il perdono precede la conversione. Dio perdona prima che il popolo si converta e sebbene non sia convertito (cfr. Rm 5, 8; 1Gv 4, 10). Questo non significa che la conversione non sia necessaria, ma che essa si realizza solo come risposta all’amore di Dio e non come condizione previa del perdono”.[9] 

La Misericordia sempre precede e supera la risposta umana: la stessa vocazione è evento di Misericordia. Possiamo raccontare la storia di Dio con tutta la nostra vita perché raggiunti e salvati nel nostro peccato. Il sacramento è il vertice della manifestazione dell’Amore Crocifisso, ne è la memoria: lì siamo pronunciati dalla Misericordia. La vocazione mi “tira fuori” dal mio peccato, amandomi e salvandomi per amore. Dio chiama e ri-chiama salvando e solo dopo che mi ha salvato. Sono chiamato quando e perché sono salvato: Dio chiama salvando. Questa iniziativa si rivela nei cammini di Levi il pubblicano, nella vicenda di Saulo e di Pietro sulla spiaggia del lago dopo la Risurrezione[10]

E in ogni incontro sacramentale succede sempre qualcosa… Il peccato, rifiuto di esporsi all’amore, negazione e fuga dalla dialogicità, è continuamente guarito. Infatti il Signore Gesù non viene a chiamare i giusti ma i peccatori… perdonati. (Teresa di Lisieux ricorda a chi non ha la consapevolezza di grandi colpe, che si vive un “perdono” preventivo, preveniente. Lo apprende contemplando un’icona a lei molto cara, quella della peccatrice perdonata in Lc 7, 36-50).

Il sacramento plasma il cristiano su questa unica, solida certezza: la vocazione è sostenuta dall’Amore che mi raggiunge sempre nel mio peccato, permea la mia vita sino a farne una parola pronunciata dal suo continuo amore. Mi rende capace di accettare me stesso, con il mio carattere, la mia debolezza, senza una perfezione prefissata ed impossibile. Senza questa esperienza percepirei la chiamata come un appello sacrificale, un’esistenza oppressa dalla missione, assunta sempre più nel rammarico e nel rimpianto, oppure nella nostalgia per qualcosa d’altro. 

C’è un ulteriore aspetto che, nell’esercizio del sacramento, matura, per così dire… silenziosamente. La fede impara a raccontare la conversione e prima ancora a far memoria di sé, a partire da quel senso che struttura la propria identità. Io sono colui che la mia biografia racconta di sé nella luce del perdono, tanto quanto mi so rileggere nel perdono. Guardandomi negli occhi del Signore, come Pietro, ricostruisco la mia identità, nel racconto della memoria. (Occorre essere attenti ovviamente a non perdersi in forme di narcisismo, assolutizzando la conversione, come fosse un feticcio)[11].

C’è una grande tradizione autobiografica della rilettura spirituale della propria vita: “Non ti conosce affatto chi non scopre ciò che compi in Lui” (Agostino). Molti testimoni – da Ignazio, a Teresa d’Avila, dalla piccola Teresa a Newmann, da Giovanni XXIII, a Dag Hammarskjold – intendono raccontare di sé e scrivere come memoriale dei doni di Dio, cogliendo nel tempo l’unità creata e voluta dal suo disegno, rileggendo il vissuto sotto lo sguardo di Dio.

 

I larghi frutti del sacramento a sostegno della definitività

In colui che è chiamato lo Spirito effonde, attraverso il sacramento, frutti estremamente preziosi e necessari nella stagione oscillante della definitività. Questa stagione tra l’altro inaugura sempre un lungo periodo di quotidianità, segnando il passaggio dall’eccezionale al feriale. Grazie alla fedele celebrazione ricevo la sapienza per affrontare il quotidiano con gli occhi di Dio, educandomi a rivivere le scelte radicali del Signore Gesù. Nella pluralità delle chiamate, che si susseguono ogni giorno, scopro che non posso volere la definitività né desiderarla, se non batte in me un cuore nuovo. Rischio di desiderare troppo poco o troppo debolmente, perché non amo con il cuore di Dio.

Nella discreta azione del sacramento cresce l’esperienza della affidabilità e fedeltà di Dio, si identificano le resistenze e le inerzie del cammino, si assume con coraggio la propria debolezza. Inoltre si impara l’arte del combattimento spirituale e della perseveranza nella ricerca. Il contesto del discernimento è sempre conflittuale. Nella definitività mi accorgo che il cuore dell’uomo è terreno di lotta infaticabile. Infine si può gustare la remissione dei peccati come sorgente inesauribile di gratuità: una vocazione, comunque, è sempre un amare sino alla fine, come ha fatto Lui (Gv 14,34).

 

Osare linguaggi nuovi

Saranno necessarie alcune attenzioni perché i giovani, almeno i più sensibili, ritornino ad un’esperienza gioiosa del sacramento della penitenza. Occorre ripensare i linguaggi, perché i giovani se ne riapproprino. In genere sembra tuttora debole la proposta della Parola, annunciata in forme obsolete e stantie; in particolare come iniziazione al sacramento stesso, in connessione con la celebrazione. Parola e sacramento vivono (o muoiono?) perché ancora troppo staccati: allora il sacramento del perdono viene travolto da logiche umane o da mentalità magiche. È decisivo allora tracciare itinerari penitenziali, ecclesiali… e gioiosi, per tutto il gruppo: in essi si può “incastonare” il sacramento, aiutando a vivere la celebrazione come momento desiderabile. Lì si accoglie la riconciliazione con Dio e con la Chiesa, segno visibile ed efficace della riconciliazione con l’Amore misericordioso. Una celebrazione che sia punto di arrivo e di partenza! In essa si deve annunciare che “tutta la Chiesa è cointeressata e agisce nella riconciliazione”, intercede per i peccatori. “E con tanta maggior verità questo sacramento di salvezza influirà efficacemente sui fedeli, quanto più allargherà la sua azione a tutta la loro vita e li spingerà ad essere sempre più generosi nel servizio di Dio e dei fratelli” (RP. nn. 7b e 8).

 

Coltivare l’amicizia con i convertiti

La frequentazione assidua dei “convertiti” di tutti i tempi non solo ci stimola nella generosità della risposta, ma ci educa nel quotidiano a desiderare ciò che lo Spirito di Gesù promette nel suo sacramento. Il Signore Gesù compie le sue promesse e, nella normalità, crea uomini e donne straordinarie. Nella fragilità dell’inviato la sua potenza crea forme stupende di testimonianza, a conferma di quanto il suo Spirito venga in aiuto alla nostra debolezza.

A titolo esemplificativo leggo qualche riga di una lettera “dal fronte” di una consacrata. Questa donna “normale” ha già rischiato più volte la vita in uno dei paesi più tormentati dell’Africa, ed è di nuovo ritornata laggiù: “…Mi sento dentro la Grazia, quella della pace e dell’abbandono. Non sono più quella di prima; sono una povera e piccola donna con ferite dove l’Amore è stato capace di sanare, di sollevarmi e di farmi rivivere: in Africa mi sento a casa mia. Non potevo non partire: è l’obbedienza della fede che mi ha fatto ritornare dall’Italia. Sul mio tavolo ho la foto del Figliol Prodigo di Rambrandt… Qualsiasi cosa mi possa capitare sono nella misericordia del Padre. Dirai a tutti che la mia vita è grazia, è dono. Non ho potuto che viverla donandomi. Sai come è bello e pacificante essere qui, perché Lui mi voleva qui? Non sono ripartita per chissà quale opera, ma perché la sua presenza mi ha ‘semplificata’ la vita. Sono venuta perché Lui me l’ha chiesto e non ho potuto rifiutare nulla all’Amore”.

 

 

 

UNIRE O DISTINGUERE

IL SACRAMENTO DALLA DIREZIONE SPIRITUALE?

 

Il cristiano[12], che desidera crescere nella comunione con il Signore lungo i cammini aperti dallo Spirito, da secoli può trovare nella celebrazione individuale del sacramento della penitenza il presbitero che, insieme, gli offre il perdono di Dio ed il consiglio, lo aiuta a ripensare e rinnovare secondo il Vangelo le scelte della sua vita. La connessione tra confessione dei peccati e colloquio spirituale è un bene molto antico nella Chiesa.

Già Simone di Tournai (morto nel 1201) si chiedeva nella sua Summa perché il penitente dovesse confessarsi di preferenza ad un sacerdote più ricco di discernimento e più santo. Rispondeva senza indugio che era da preferirsi il presbitero più esperto nel consigliare, perché al sacramento è connessa l’esigenza del consiglio medicinale, dunque richiede competenza e capacità di discernimento. Così già un canone del IV Concilio Lateranense (1215), trattando degli obblighi del confessore, prescriveva: “Il sacerdote sia discreto e prudente; come un esperto medico versi vino ed olio (Lc 10, 34) sulle piaghe del ferito, informandosi diligentemente sulla situazione del peccatore e sulle circostanze del peccato per capire con tutta prudenza quale consiglio dare e quale rimedio applicare, diversi essendo i mezzi per guarire l’ammalato”[13].

La storia della “cura d’anime” conferma che già nel medio evo, secondo la prassi penitenziale, la Direzione spirituale (DS) ed il sacramento della penitenza erano destinati ad incontrarsi in un connubio assai fecondo, nonostante alcune ambiguità. I manuali dei confessori, ricca miniera anche per la storia dei costumi, con l’abbondanza delle istruzioni e dei riferimenti alla formazione delle coscienze e alla promozione della crescita spirituale, provano quanto la Chiesa non solo favorisca lo sviluppo di un accompagnamento personale in occasione del sacramento, ma intenda preparare dei pastori adeguati, idonei a rispondere alla crescente domanda di accompagnamento presso alcuni settori del popolo di Dio. Si vuole evitare che i confessori siano semplicemente dei distributori di assoluzioni. “Devono diventare medici spirituali, pastori che sanno guidare” (Pacifico di Novara, morto nel 1482). Infatti il confessore riceve confidenze su tentazioni, domande situazioni di aridità, intuizioni nuove, dubbi circa la scelta del proprio stato, così come abbisogna di essere illuminato circa le diverse stagioni e forme della preghiera, nelle opere buone da intraprendere o sulle diverse tipologie che ciascun discepolo rivive (lo scrupoloso, il recidivo, il sensuale ecc.).

Se poi la santità (o la devozione come scrive e predica Francesco di Sales) non è un privilegio riservato ad élites ma è un cammino aperto a tutti i fedeli, è di grande importanza che i presbiteri siano in grado di accompagnare tutti. Grazie a questo convergere dei due “mezzi” della vita spirituale il cammino di santità diviene più popolare, più accessibile alle masse. La DS spirituale diviene più accessibile, più mirata e semplificata sulle esigenze di tutto il popolo di Dio. Il sacramento risulta più personalizzato e protetto dall’insidia del ritualismo, viene radicato dal cammino di conversione del singolo. Questa è l’intenzione anche di quel grande pastore che fu S. Carlo Borromeo. Nelle Avvertenze per li confessori (Milano, 1572), applica le indicazioni del Tridentino, chiedendo ai confessori di amministrare il sacramento in tale modo da  offrire a tutti anche un’aliquale formazione delle coscienze, allude ad una certa direzione spirituale. “…Soggiungiamo a questo punto alcuni altri ricordi per maggior istruzione dei confessori. Devono essi, come Padri spirituali, prendersi somma cura di istruire ed incamminare nelle virtù cristiane tutti i loro penitenti, ma particolarmente quelli dai quali fossero scelti come propri confessori ordinari” (n. 56). “… Il confessore, secondo lo stato e condizione di ciascuno, darà quei ricordi ed aiuti, che stimerà necessari, per confermare e far progredire i suoi figlioli spirituali nelle vie del Signore” (n. 59).

 

Un processo di personalizzazione

Ma oggi non si può semplicemente ripetere il passato. Forse per questo la recente riforma del sacramento della Riconciliazione (1974) non offre indicazioni significative circa la prassi pastorale di unire la DS spirituale e la confessione cosiddetta “di devozione”: sembra anzi ignorare questo rapporto tradizionale. Nei Prenotanda al rito rinnovato della Penitenza, a proposito dell’esercizio pastorale del ministero, si esorta il confessore ad imparare a diagnosticare le malattie dell’anima, in vista dei giusti rimedi, esercitando “il discernimento degli spiriti, che è l’intima cognizione dell’opera di Dio nel cuore degli uomini: dono dello Spirito e frutto della carità” (n. 10 a). Invece nell’esortazione apostolica che conclude il Sinodo dei Vescovi su La Riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa, (2 dicembre 1984) riproponendo come l’unico modo normale e ordinario della celebrazione quello della riconciliazione dei singoli penitenti, sono indicate anche le ragioni di tale preferenza nei motivi che fanno chiedere al cristiano il sacramento. “… Un bisogno di verifica del cammino spirituale e, a volte, di un più puntuale discernimento vocazionale; tante volte un bisogno e un desiderio di uscire da uno stato di apatia spirituale e di crisi religiosa. Grazie, poi, alla sua indole individuale la prima forma di celebrazione permette di associare il sacramento della penitenza a qualcosa di diverso, ma ben conciliabile con esso: mi riferisco alla direzione spirituale (n. 32).

Nella notevole evoluzione storica ed adattabilità della disciplina della confessione, forse la ragione della attrazione reciproca tra DS e sacramento sta nell’emergere del carattere e qualità personale di quest’ultimo. Rimanendo ferma la costante di reintegrare il penitente nella piena comunione ecclesiale, tramite la comunione rinnovata con Dio, viene così alla luce sempre più forte un’istanza di personalizzazione, un’attenzione sempre più marcata al soggetto. Tuttavia questo processo non accade senza  conseguenze negative: la più grave si sarebbe poi rivelata quella di relegare in secondo piano nella coscienza dei cristiani la dimensione ecclesiale della penitenza. Non solo. “Può accadere che non si mantenga l’equilibrio fra le due azioni: la confessione sacramentale perderebbe il suo carattere sacramentale a vantaggio dell’aspetto terapeutico, con il rilievo dato alla persona del confessore e alla sua competenza. D’altra parte i due atti sono distinti per origine e finalità: ci si domanda se convenga mantenerli sempre uniti, nonostante gli innegabili vantaggi, come pure se sia il caso di identificare regolarmente i due ruoli, del confessore e del direttore. Esistono situazioni e momenti per cui la distinzione è possibile e forse auspicabile”[14]. Si può dunque personalizzare il sacramento senza difendere né rilanciare una prassi che potrebbe di fatto favorire la confusione tra le due esperienze cristiane.

Nel vissuto del Popolo di Dio permane tuttora l’insidia di prassi assunte pigramente, di forme che sopravvalutano le esigenze del soggetto. Il penitente, nella sua ricerca non scevra di ambiguità, si rivolge non primariamente  all’atto liturgico, ove accade il mirabile incontro tra il Dio Salvatore e l’uomo, per conformarsi al Cristo tentato e vittorioso. È invece incline a non cercare nell’evento, in ciò che la Parola annuncia e l’azione realizza, la pienezza della sua verità, ma in una comunicazione confortevole e rasserenante. La DS non appartiene piuttosto alle condizioni per celebrare e per lasciarsi assimilare dal dono della Riconciliazione? L’enfasi delle esigenze e pretese del soggetto, accompagnate da una sconfortante ignoranza circa i cammini penitenziali ed il sacramento, generano trascuratezza e disaffezione nei confronti della memoria liturgica. 

 

Conoscere ed amare ciò che si celebra

Non basta rivalutare e rinnovare la DS. Occorre portare a termine il rinnovamento del sacramento. Gli osservatori sono pessimisti. “Da più parti si afferma ormai sconsolati che nella chiesa occidentale il sacramento della penitenza è in una crisi tale che neppure il sinodo dei vescovi, appositamente dedicato al problema, è riuscito a provocare un’inversione di tendenza. Ma forse la crisi è più grave perché non riguarda la pratica del sacramento, quanto piuttosto la concezione stessa di peccato e di rapporto con il Signore della misericordia. La crisi è quindi ben più vasta e profonda e resta estremamente arduo superarla senza riscoprire il fondamento rivelativo del sacramento della riconciliazione”[15].

Se in passato la stretta connessione tra sacramento e DS è stata molto fruttuosa, tuttavia ha generato nella coscienza di molti credenti ambiguità e confusioni tuttora operanti. Anzitutto permane la persuasione che non solo il sacramento ma anche la DS sia competenza esclusiva del ministro ordinato mentre, (come ricordano contributi precedenti di questo stesso fascicolo), il dono del discernere non può essere considerato appannaggio né dei soli chierici, né dei soli maschi. La clericalizzazione del carisma della DS è il risvolto negativo e (purtroppo) duraturo di una prassi peraltro fortemente innovativa nella cura d’anime. Né va dimenticata la confusione tuttora diffusa circa il senso delle due esperienze, dei due metodi, della diversa urgenza in ordine alla crescita nel cammino secondo lo Spirito. A rimetterci oggi è la celebrazione del sacramento, l’atto liturgico del confessare il proprio peccato davanti alla comunità, quando si è raggiunti dalla Misericordia. Una fedeltà creatrice alla tradizione della Chiesa esige un approfondimento del legame della riconciliazione con Dio e della riconciliazione con la Chiesa. Va pure riscoperto il senso della soggettività/libertà del singolo, che si ritrova solo nella conversione verso l’altro, come parte di sé; il riconoscere Dio come Dio, che fa umana la libertà nella comunione con lui, come condizione di una libertà non vuota, e solo così resa capace di responsabilità e relazionalità. Infine nell’esperienza di fede occorrerà fare memoria dei frutti spirituali che la misericordia divina offre con sovrabbondanza nel sacramento.

 

Perché l’annoso albero rifiorisca…

È dunque fruttuoso praticare la DS all’interno della stessa confessione personale frequente? È opportuno rilanciare nel Popolo di Dio questa prassi pastorale? La saggezza della Chiesa incoraggia vivamente ed invita ad accurato discernimento con soluzioni attente in concreto al cammino del discepolo in stato di conversione. Perché ne guadagnino entrambe. Talvolta unire DS e sacramento può favorire un accesso di tutti i fedeli ad un minimo di accompagnamento personale, agevolando una diffusione capillare di elementari e concreti itinerari di DS, per tutte le età e condizioni di vita. Il vecchio albero della prassi penitenziale, tutt’altro che moribondo, viene rinvigorito dalla coltivazioni di atteggiamenti e istanze tipiche della DS. Altre volte invece si ottiene l’effetto contrario ostinandosi a tenerle insieme, per una colpevole ostinazione che acriticamente ripete il passato. La ricca tradizione del passato comunque va reinterpretata, aiutando a difendere da contaminazioni psicologistiche l’originalità dei due classici “strumenti” dell’esperienza spirituale. Lo strapotere delle diverse scienze umane da tempo non ha risparmiato né la DS né il sacramento: a spese anche di una doverosa e autentica sensibilità nei confronti della psicologia. 

Comunque sempre andranno garantite alcune condizioni: custodire con frutto questa connessione rimane sempre una scelta delicata. Il confessore sa che non deve mai contrapporre l’una all’altra, né proporre tendenzialmente l’una senza l’altra, il che oggi può accadere con relativa facilità. Deve invece custodire il senso della differenza dei due “strumenti”, anche quando nel vissuto per utilità si semplificano e si unificano i procedimenti e convergono i cammini. “Non raramente, soprattutto tra i giovani, vi è chi desidera concludere il colloquio di DS con la celebrazione del sacramento. In quei casi sarà necessario assicurarsi che non si perda il senso del sacro, il valore cultuale-liturgico ed il clima di preghiera proprio del sacramento, senza ridurlo ad un’appendice aggiunta al colloquio di DS, che non richiede di per sé tutto questo, e senza che il colloquio di DS, a sua volta venga vissuto come il momento forte e principale di tutto l’incontro”[16].

In sintesi tutto quanto vivifica l’originalità cristiana e la dimensione propriamente spirituale, della DS e del sacramento, rifluisce su entrambi beneficamente. Si pensi agli itinerari di conversione, che devono essere ricondotti con rigore sotto il primato della Parola, nell’autentico itinerario ecclesiale di appropriazione, che è la Lectio Divina. Non si ha più il senso del peccato perché manca il senso della Parola. La stessa domanda di DS, che spinge a cercare una guida, se non vuol soggiacere ad ambigue dinamiche psicologiche, va chiarita ed interpretata dalla Parola. “Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: “Che cercate?” (Gv 1, 38).

Oggi occorre poi fare i conti con non pochi problemi pratici. Taluni hanno abbandonato la frequenza al sacramento perché il direttore spirituale è raggiungibile solo rare volte l’anno. Altri fanno a meno della DS, insoddisfatti della qualità del ministero dei presbiteri senza avere ancora trovato fiducia nei doni di discernimento dei laici. Che fare quando manca il sacerdote idoneo per la DS e se ne sente l’urgenza? Con quali criteri chiedere ad un laico questo servizio?  Quali, dove e ogni quanto tempo incontrarlo? Con quali modalità? È bene praticare la DS durante la celebrazione della confessione quando confessore e guida sono la stessa persona? Per tutte queste situazioni non ci sono risposte univoche. Tra l’altro sovente sono le situazioni a scegliere per noi, quando ad es. il contatto con la propria guida è reso impossibile dalle distanze geografiche o altro. La saggezza orienterà caso per caso.

Rimane un interrogativo difficile. Dove trovare buone guide spirituali? Senza pregiudizi verso i laici, intanto che sono aiutati a prepararsi nell’assumere queste responsabilità, valorizzando tesori di discernimento ancora inesplorati, continuiamo a cercare possibili direttori spirituali tra i confessori. Tra quelli giovani, perché amino questo servizio e diventino sempre più appassionati e competenti nella DS. Tra quelli anziani, perché non sentano inutile la loro esperienza e concretezza, scoprendo questa reale possibilità nell’ultima stagione della loro vita. Se è vero che ci sono poche guide oggi, (una testimonianza  di un anonimo francese del secolo XVI si lamenta per la stessa ragione)[17], è pur vero che pochi diventano buone guide, illuminate e capaci, perché mancano buoni penitenti… La domanda povera purtroppo orienta la dedizione dei presbiteri verso altri interessi.

 

 

 

Note

[1] S. Sirboni, in Riconciliazione, uscire dalla crisi, Settimana del Clero, 4 aprile ’99, pag. 16. L’articolo riporta, a cura di A. Gelardi, ampi stralci di una promettente relazione di prossima pubblicazione presso EDB sul tema.

[2] Ivi.

[3] L. Lorenzetti, in Settimana del Clero, 31 agosto 1997, n. 30, pag. 8-9.

[4] Regno Documenti, 5 (1998)

[5] M. Delbrel, Indivisibile amore, Piemme 1994, pag. 125-133.

[6] G. Moioli, La vocazione e le vocazioni, manoscritto.

[7] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, pag. 60-62.

[8] Ivi, pag. 62.

[9] A. Schokel, I profeti, Borla, pag. 976.

[10] M. Rupnik, Dire l’uomo, Lipa 1996, pag. 277 ss.

[11] Cfr. Le Supplément à la Vie spirituelle n. 176 (1991), pag. 189ss.

[12] Le seguenti riflessioni in parte sono già apparse in Testimoni nel mondo, n. 126 (1995), pag. 53-60.

[13] Cfr. H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, EDB, Bologna 1995, pag. 465.

[14] R. Falsini, Il sacramento della riconciliazione, per una rinnovata catechesi e celebrazione della Penitenza, Franciscanum, 1975, pagg. 92-93.

[15] J.P. Van Schoote – J.C. Sagne, Miseria e misericordia, Qiqajon, 1992, pag. 5.

[16] M. Costa, Direzione spirituale e discernimento, ADP, Roma 1993, pag. 101.

[17] Anonimo, De la direction, in Le Supplément à la Vie spirituelle, n. 32 (1955), pag. 306-311.