N.04
Luglio/Agosto 2000

Come parlare di Dio a nostra figlia…

Raccontare un’esperienza non è semplice: spesso si dà per scontato che chi legge veda le cose con i tuoi stessi occhi, viva esperienze simili nello stesso modo; spesso si tende anche a idealizzare la realtà quotidiana descrivendola più come vorremmo che fosse che non per com’è; talvolta si cade nell’ovvietà o nell’attribuire forzatamente senso e significato inesistenti. Cercheremo di tenere un giusto equilibrio nel parlarvi dell’esperienza di Chiara, nostra figlia che adesso ha quasi sei anni. È un rapporto che non ha proprio nulla per essere definito straordinario e quindi dove tutti – ci auguriamo – possono riconoscersi e capire bene il senso che sta dietro alle nostre parole anche laddove i concetti sembrassero distanti o astratti. Ci sembra inoltre che le indicazioni del titolo che ci è stato affidato: “una coppia di sposi s’interroga su come parlare di Dio alla propria bambina” siano già ricche di spunti e racchiudano in sé una sintesi della nostra esperienza. Pertanto seguiremo proprio questa traccia.

 

Una coppia di sposi si interroga…

Sì, anche questo (come altri) è un momento prezioso per interrogarci, per chiederci se davvero abbiamo saputo cogliere in tutte le occasioni l’opportunità per parlare di Dio a nostra figlia. La risposta è disarmante nella sua ovvietà: non lo abbiamo fatto; ma se da una parte ci riconosciamo ancora inadempienti (se non talvolta inadeguati), dall’altra, contemporaneamente, mettiamo a fuoco di nuovo gli obiettivi a cui tendere, obiettivi che abbiamo dentro, fanno parte del nostro essere che il Signore ha sigillato con il sacramento del matrimonio e che abbiamo rinnovato nel battesimo di Chiara. Perciò consideriamo tutti i momenti come questo, veri e propri “momenti di grazia” in cui il Signore ci parla, ci istruisce, ci sostiene.

 

…su come parlare di Dio…

Probabilmente la cosa migliore per “parlare di Dio” (a tutti e a maggior ragione ai bambini) è cercare di imitare chi meglio di tutti ci ha parlato di Dio: Gesù Cristo. Secondo noi, parlare di Dio ai figli non può stare sullo stesso piano del parlare della scuola, degli amici, dei giochi, delle vacanze… Il “parlare di Dio” dovrebbe essere come lo sfondo, lo scenario costante che Chiara percepisce quando parliamo con lei di qualunque cosa. È un po’ come un quadro dove i singoli dettagli – pur rimanendo uguali – ci danno un’emozione totalmente diversa se inseriti in un panorama o in un altro. E sappiamo bene che per chi deve illustrare un quadro, la cosa più difficile non è spiegare la tecnica usata dall’artista, il gioco di luce, la prospettiva, ma usare questi elementi per trasmetterci una sensazione interiorizzata, lo spiegarci lo stato d’animo dell’autore.

Per riuscire bene in questo non basta la capacità espositiva, bisogna prima di tutto avere dentro ciò che vogliamo comunicare. I nostri figli, con la loro formidabile capacità di percepire prima ancora di capire, sono sempre lì, pronti ad annotare ogni nostra incoerenza… Prima ancora di aver ascoltato i nostri “bei discorsi”, essi sembrano già averli compresi “leggendo” il nostro sguardo, i nostri gesti, il nostro tono di voce. Per questo prima ancora di parlarle direttamente di Dio cerchiamo di spiegare e testimoniare a Chiara che ogni gesto quotidiano può essere vissuto in tanti modi, ma c’è un Padre che ci insegna come viverli “al meglio”.

Riteniamo fondamentale farle capire che quando parliamo di Dio, noi stessi dobbiamo imparare, conoscere, migliorarci; noi stessi abbiamo un modello di “Babbo” da proporle, un modello che è sicuramente migliore rispetto ai modelli reali dei genitori. C’è poi un altro aspetto che ci coinvolge come educatori e di cui spesso ci dimentichiamo facilmente: Gesù ci ha fatto capire che ai bambini appartiene già il regno di Dio e quando ha detto: Lasciate che i bambini vengano a me in realtà parlava agli adulti: la presenza dei figli rappresenta per i genitori l’ambiente in cui crescere per primi nella fede proprio come la parrocchia rappresenta la stessa cosa per il sacerdote o il convento per il monaco. Per questo pensiamo che Chiara è per noi un richiamo a sentirci testimoni e contemporaneamente figli di un Padre che abbiamo conosciuto nei sacramenti. È chiaro che un figlio rappresenta anche un impegno educativo nella fede (lo abbiamo affermato nel matrimonio e nel battesimo) per aiutarli a scoprire quello che in realtà sono già, ma di cui forse non sono consapevoli. E per far comprendere questo, pensiamo che le parole da sole – come già detto – servano a ben poco: Chiara capisce molto meglio quando verifica direttamente il nostro amore di sposi, quando ci vede per primi pregare Dio, quando trova sicurezza nel nostro modo di affrontare serenamente le difficoltà e le incomprensioni di tutti i giorni senza farci travolgere dalla marea di false e comode soluzioni proposte dal mondo a viva voce.

 

…alla propria bambina

Fino “alla noia” e in ogni occasione noi sposi cristiani ci sentiamo ripetere che “i nostri figli non sono nostri” e che il Signore ce li ha affidati. Quindi – senza nulla togliere alla carnalità del frutto del matrimonio che riteniamo sacra e che deve necessariamente godere di un profondo rispetto – possiamo dire che “parlare di Dio alla propria bambina” diventa parlare di Dio ad una figlia di Dio, da parte nostra, da parte di due figli di Dio. Vederlo in questa ottica porta più a pensare ad un rapporto tra fratelli più che tra genitori e figli e non ci dispiace affatto questa interpretazione anche se non siamo più abituati a pensare all’importanza del ruolo di fratello maggiore all’interno di una famiglia.

Proprio in questi giorni Chiara sta per avere un fratello e ci stiamo accorgendo di quanto vorremo trasmetterle l’importanza e la responsabilità di prendersi cura di una creatura così piccola. Così di fronte a Dio, nei confronti di Chiara ci sentiamo un po’ come “fratelli maggiori” di una vita che ci è stata affidata. E mentre cerchiamo di trasmetterle come e cosa dovrebbe fare per crescere “brava e buona”, ci accorgiamo che Dio fa crescere “bravi e buoni” anche noi che ci sentiamo spinti continuamente a testimoniare a nostra figlia la coerenza e la fedeltà al dono della fede.