N.02
Marzo/Aprile 2000

La Chiesa è edificata dall’Eucaristia come comunità di vocazioni e ministeri

Il Concilio Vaticano II ha ripetutamente affermato che l’Eucaristia è fons et  culmen, fonte e culmine di tutta la vita della Chiesa e della sua missione nel mondo (SC 10; LG 11; PO 5). L’affermazione va intesa in senso forte, essa può essere parafrasata con l’indicazione programmatica offerta a sua tempo da H. De Lubac: “La Chiesa fa l’Eucaristia, l’Eucaristia fa la Chiesa”. Se è chiara la prima parte dell’assioma, meno evidente è la seconda: l’Eucaristia fa la Chiesa. Ora invece è proprio su questo contenuto che si comprende il senso dell’affermazione così essenziale del documento “Nuove vocazioni per una nuova Europa” (n. 17 d.):  

Nella comunità che celebra il mistero pasquale ogni  cristiano prende parte ed entra nello stile del dono di Gesù, divenendo come Lui pane spezzato per l’offerta al Padre e per la vita del mondo. L’Eucaristia diventa così la sorgente di ogni vocazione cristiana; in essa ogni credente è chiamato a conformarsi al Cristo Risorto totalmente offerto e donato. Diventa icona di ogni risposta vocazionale; come in Gesù, in ogni vita e in ogni vocazione, c’è  una difficile fedeltà da vivere sino alla  misura della croce.

Il documento afferma che l’Eucaristia plasma la Chiesa secondo la forma stessa manifestata dal Cristo nell’atto di offrire sé al Padre, conferendo figura, dinamismo interiore e impronta strutturale alla comunità ecclesiale come comunità di vocazioni e ministeri nel cuore dell’umanità, diakonia di Dio nella storia. Il problema è di far comprendere l’Eucaristia in questa profonda valenza simbolico-sacramentale. 

 

Superare una lettura riduttiva dell’Eucaristia

A quali concezioni di Eucaristia si richiama la maggioranza dei fedeli? La concezione più diffusa considera l’Eucaristia come un precetto da assolvere, in senso giuridico, un obbligo o un dovere da recepire ed adempiere con maggiore o minore puntualità.  A questa concezione si collega quella che tende a ridurre l’Eucaristia ad un fatto solo rituale, facendo della memoria eucaristica un episodio anonimo e impersonale, come un qualcosa che si fa o un qualcosa che si riceve, senza una reale comprensione del suo contenuto cristologico-ecclesiale. La Messa sta là, i fedeli di fronte, come spettatori di un atto che si realizza al di sopra o a lato della loro concreta esistenza, come un’azione sacra più o meno parallela a quelle che si riscontrano nelle religioni. 

Non c’è da meravigliarsi se la partecipazione alla celebrazione eucaristica si trasforma in una ripetizione di gesti e parole che ben poco hanno a che vedere con la sua capacità di plasmare la comunità cristiana come comunità vocazionale-ministeriale. Non sono esenti da questa visione perfino elementi di comportamento magico. Del tutto assente ad ogni modo risulta l’idea che l’Eucaristia, celebrando il cammino pasquale scelto da Dio per salvarci, chiami coloro che vi partecipano a realizzare un progetto di vita secondo il medesimo cammino, impegnando a vivere la condivisione della diakonia, per vincere, nella potenza dell’amore diffuso nei nostri cuori con il dono dello Spirito (cfr. Rm 5,5), il male, l’egoismo, l’ingiustizia e la divisione. 

Come superare questa forma di demiosi, di frattura reale tra la celebrazione eucaristica e l’esistenza credente? Come reinserire il mistero dell’Eucaristia nel movimento profondo del vissuto dei singoli e della comunità, in modo tale che esso sia effettivamente modellato dal-e-sul mistero eucaristico, e l’Eucaristia sia davvero il centro vocazionale della vita cristiana e di ogni ministerialità?

     

Recuperare il senso pasquale della “memoria eucaristica”

Il superamento di questo riduttivismo eucaristico esige un costante ritorno alla coscienza di fede della Chiesa. Celebrare l’Eucaristia, per la comunità ecclesiale, non è semplicemente adempiere al comando del Signore, osservando ritualmente quanto egli ha fatto o ha detto di fare; è attingere all’evento stesso della propria origine, accettando di lasciarsi modellare da esso per ridiventare continuamente ciò che è diventata una volta per sempre. 

 

L’Eucaristia come diakonia

Associando alla missione di servizio di Gesù, ‘ebed Jahvé, l’Eucaristia edifica la Chiesa come comunità di vocazioni a servizio del Regno e della comunione nuova inaugurata dal Cristo. Questa prospettiva è originaria della natura e del significato del mistero eucaristico quale ci viene testimoniato dai racconti dell’istituzione. 

La tradizione evangelica è unanime nel collocare la missione di Gesù nella linea del “servo fedele” descritto dal Deutero-Isaia. La sua intera esistenza è un ‘abodah, un “servizio cultuale” al Padre, un accettare di fare la sua volontà.  La scena del battesimo al Giordano è interpretata da tutti e tre i sinottici (Mc 1,9-11 e par.) come la proclamazione di Gesù quale “servo” del Signore annunciato in Is 42,1, sostituendo significativamente il termine “servo” con quello di “figlio” grazie al doppio significato del termine greco pais. Esplicitamente Mt 12,17-21, collega la missione di Gesù all’annuncio di Is 42,1- 4. A loro volta, gli annunci di Gesù circa la sua passione fanno risuonare da vicino l’eco dei canti del servo fedele. La passione è descritta con i tratti tipici del servo sofferente. Gesù è la realizzazione della figura del servo di Jahvé. Di estremo interesse, da questo punto di vista, è il detto fondamentale di Mc 10,45 (e par. Mt 20,28 e Lc 22,24-27): Il figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti. Un detto che si pone sullo sfondo del terzo annuncio della passione (Mc 10,32-34) ed enuncia un vero e proprio dettato programmatico. L’espressione “dare la propria vita in riscatto per molti” è ispirata al “servo” di Is 42,14; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12, chiamato a sacrificare se stesso per espiare il peccato del popolo (53,10), con l’“offerta” della propria vita (53,11). L’allusione alla figura del “figlio dell’uomo” di Dn 7,13-14 riceve così una rilettura nuova e originale: Gesù si presenta come il “figlio dell’uomo” che, anziché chiedere di essere servito, pone se stesso a servizio di tutti. Con la libera accettazione della sua morte, egli diviene  “riscatto” per tutti (Is 53,11-12 con Mc 14,24 e Mt 26,28). 

Il detto è peraltro in stretta relazione con le parole di Gesù durante la cena, il cui senso, secondo la tradizione evangelica, si incentra essenzialmente sulla presenza di Gesù come servo fedele. In essa si condensa la missione totale di Gesù, i suoi banchetti con i peccatori e il contenuto della sua venuta come “figlio dell’uomo venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). La diakonia della croce è anticipata nell’ultima cena come banchetto di addio dell’’ebed Jahvè. Il pane e il vino costituiscono i significati vivi, espressivi del suo “corpo dato” e del suo “sangue versato”, “per voi” (Lc) e “per molti” (Mc/Mt). Questo legame tra l’’ebed Jahvè e l’ultima cena non è secondario; fa parte della trama stessa del convito pasquale e del suo significato: la morte di Gesù in croce è un servizio, una diakonia. I racconti evangelici hanno cura di rilevare questo dato, mentre ne omettono molti altri. Indicativo, in questo senso, è il fatto che Luca inerisca nel contesto dell’ultima cena i due detti sull’obbligo dei capi di servire a tavola (Lc 22,24-27). Più degli altri evangelisti, Giovanni – riportando l’episodio della lavanda dei piedi (13,1-15) e ponendolo in relazione all’evento della passione che Gesù sta per vivere (vv. 1 e 3) – manifesta la consapevolezza di un “servizio” che Gesù svolge nell’attuazione del suo mistero pasquale. Al centro dell’episodio sta il Signore e il Maestro che serve i suoi fratelli; un gesto che vuol essere il segno visibile del suo atto redentore, del suo offrirsi per tutti sulla croce. Il gesto viene interpretato da Gesù stesso come un “servizio”, un porsi quale “servo” (doulos) per la salvezza  del mondo (vv. 13-15). La diakonia della lavanda dei piedi si presenta così come un’icona, una rappresentazione simbolica che prefigura la diakonia della croce: un “atto di servizio” in cui si coniuga inseparabilmente la glorificazione del Padre facendo la sua volontà e la salvezza del mondo glorificando il Padre (Gv 17,4). 

 

La diakonia come Chiesa

L’ultima cena va letta in questa ottica pasquale. Lo spezzare il pane e il porgere il calice dell’alleanza ai discepoli rappresentano degli atti sacramentali con i quali Gesù pre-anticipa la sua pasqua di morte e di resurrezione e fonda in pari tempo il nuovo popolo di Dio come comunità pasquale, chiamata a rivivere ciò che egli per primo ha vissuto. I gesti del “dare” e i pronomi personali impiegati da Gesù (“mio corpo”, “mio sangue”, “per voi”, “per molti”) manifestano l’esplicita volontà del Maestro di fare del gruppo dei discepoli la sua comunità, la comunità escatologica della salvezza, quale compimento e manifestazione in atto della sua missione di ‘ebed Jahvé. E tale è il senso ecclesiologico dell’ultima cena. Con il suo banchetto di addio, Gesù crea tra sé e la comunità dei discepoli – per il fatto decisivo di mangiare e bere con loro – un profondo legame di identificazione. Poiché partecipa al corpo offerto, la comunità comunica alla sorte dell’‘ebed, divenendo anch’essa serva di Jahvè, corpo-per-gli-altri. Lo stesso vale per il calice. Passandolo ai suoi discepoli e invitandoli a bere da esso, Gesù li rende partecipi della sua vocazione-missione. Bevendo all’unico calice, durante la pasqua ebraica, ogni israelita sapeva di partecipare alla vicenda di Israele, popolo ’ebed Jahvè. Distribuendo il calice, Gesù chiama i convitati a partecipare al compimento della promessa messianica in lui e quindi al suo mistero personale di ‘ebed Jahvé.

 

La forza plasmante dell’Eucaristia

Questo passaggio dalla vocazione di Gesù-servo alla vocazione della Chiesa-serva risulta ancora più evidente se si tiene presente il concetto biblico di “personalità corporativa” in base a cui nel singolo è la totalità del popolo di Dio che vive il suo mistero. Il comunicare ai segni dell’autoconsegnarsi di Gesù per tutti, al suo corpo-dato e al suo sangue-versato, rende i discepoli partecipi dell’amore del servo di Jahvé e li modella secondo la sua diakonia.  Va inteso in questa accezione globale il comando: Fate questo in memoria di me. Non si tratta di una mera rubrica liturgica, ma dell’invito ad entrare nella comprensione della logica nuova inaugurata dalla morte di Gesù. Attualizzando il passato e rendendolo presente nell’oggi, la memoria eucaristica rappresenta così un atto di meta-storia inaugurale, perennemente generativo della comunità e della sua peculiare configurazione. E dal momento che la “res” ultima di questa memoria è la pasqua, il gesto di amore col quale Gesù di Nazareth, autodonandosi, crea la nuova comunità, la celebrazione eucaristica sarà per sempre l’atto plasmante e la forma costitutiva della Chiesa come comunità-comunione, fondata sul comandamento nuovo dell’amore. 

 

Evangelizzare l’Eucaristia come evento vocazionale 

È a questo punto che si fa viva la questione pastorale: come annunciare un’Eucaristia che plasmi l’esistenza credente come esistenza vocazionale, chiamata al servizio e alla comunione? Più radicalmente ancora:  se tutto questo è vero (e teologicamente è vero), perché non ne vediamo i frutti sul piano concreto? Perché, nonostante le migliaia di Eucaristie che si celebrano ogni giorno, non vediamo di fronte a noi un edificarsi di comunità locali centrate sulla ministerialità? 

Il problema è posto in modo un po’ brutale, ma è ineluttabile; esso non riguarda solo il modo con cui annunciamo l’Eucaristia, ma il tipo stesso di pastorale a cui abitualmente ci si riferisce. Nonostante la moltiplicazione – forse anche in eccesso – di celebrazioni eucaristiche, fino a che punto le nostre comunità si lasciano misurare dal mistero eucaristico? L’Eucaristia fa la Chiesa, se la Chiesa fa l’Eucaristia. I due momenti sono inseparabili. Potenzialmente l’assemblea eucaristica è il momento centrale della diffusione dei doni dello Spirito, dei carismi e dei ministeri, come lo era al tempo di Paolo, ma ciò non si attua concretamente che a due condizioni: primo, che si operi sul piano dell’evangelizzazione per portare a riscoprire la celebrazione eucaristica come il centro e il cuore della Chiesa e della vita cristiana (evangelizzare l’Eucaristia); secondo, che si recuperi il senso mistagogico della celebrazione eucaristica come atto che inizia a se stesso, in quanto evento pasquale, evento d’incontro vivo col Signore Gesù vivente nella sua Chiesa (l’Eucaristia come evangelizzazione in atto). Solo in questo modo l’Eucaristia è ricollocata al centro della vita e della missione della Chiesa, superando ogni forma ritualistica di banalizzazione o di insignificanza, e diventa sorgente della vocazione cristiana e di ogni forma di ministerialità ecclesiale. Allora e solo allora si realizza quanto diceva san Leone Magno: La partecipazione al corpo e al sangue di Cristo altro non fa che farci passare ciò che riceviamo[1].

 

Note

[1] Sermo 63, 7; PL 54, 357.