N.01
Gennaio/Febbraio 2012
Studi /

Chiesa comunione: desiderio e profezia del Vaticano II ad oggi

Parlare di comunione significa, al di là della percezione immediata delle cose, toccare corde profonde in ciascuno e in tutti. Non siamo fatti per la solitudine, la contrapposizione, la divisione, pur nella consapevolezza che queste dinamiche segnano purtroppo le relazioni in famiglia, nella società e nella Chiesa stessa. Non per niente Dio dichiara, quasi verificando la sua creazione e accorgendosi di qualcosa di incompiuto: «Non è bene che l’essere umano sia solo» (Gen 2,18); evidenziando così la vocazione alla quale siamo chiamati, quella appunto dell’essere con.

  1. Chiamati alla comunione

Ogni vocazione è una con-vocazione: una chiamata a vivere l’esistenza tolti dalla solitudine, che impedisce di gustare l’intero creato come paradiso, per essere invece costituiti in relazioni di fraternità, di amicizia, di amore; infatti «piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro» (LG 9). Per questo le vocazioni (al plurale) vanno prima verificate sulla vocazione (al singolare); la chiamata al con della vita e della fede va vista come radicale per tutti, prima e al di là delle specificazioni. Risposte vocazionali, che manchino di questo requisito primo e indispensabile, sono destinate o a dissolversi nell’impatto con le relazioni concrete di vita o a chiudersi in un’autoreferenzialità addirittura patologica. Da questo punto di vista l’esperienza

di Chiesa, oltre ad essere il “noi” della fede, che tra credenti ci fa appartenere gli uni gli altri nel mentre apparteniamo al Cristo, evidenzia il dato essenziale della nostra umanità e il dinamismo presente nel cuore della realtà: uscire dalla solitudine che isola e dal contrasto che oppone, per vivere della e nella comunione. Dire Chiesa significa dire convocazione, è questo il significato del termine in lingua greca; e la convocazione ecclesiale è sacramento, cioè segno e strumento, della convocazione cui è destinata l’umanità intera.

La Chiesa, nel suo nucleo primo e fondamentale, intercetta un desiderio e profetizza un’opportunità di salvezza; se la solitudine infatti non è bene, essere salvati significa poter vivere un’autentica comunione tra persone. Possiamo pertanto affermare che l’esperienza di Chiesa non solo ci fa comprendere in che cosa consista la salvezza, ma se ne fa tramite quale dono offerto al mondo. In quest’ottica va rivisto il nesso tra la salvezza e la sua forma ecclesiale; la chiamata a vivere la comunione come Chiesa non è semplicemente in vista della salvezza, ne è anticipo storico e concreto. In altre parole: non si fa Chiesa per averne in cambio la salvezza, assai spesso pensata ancora in termini individualistici; si è Chiesa per sperimentare già qui ed ora il dono di un noi salvifico, testimoniato ad un’umanità frammentata e dispersa. Per questo in una delle preghiere eucaristiche invochiamo: Ricongiungi a te, Padre misericordioso, tutti i tuoi figli ovunque dispersi; si tratta naturalmente di una dispersione non tanto fisica o geografica, ma dello smarrimento dovuto alla mancanza di unità, di fraternità, di comunione. Di conseguenza, il nostro radunarci ogni domenica per l’assemblea eucaristica, oltre ad essere una ecclesiogenesi continua che di settimana in settimana ci genera come Chiesa comunione mediante il mistero eucaristico, profetizza il raduno dei popoli nel banchetto escatologico: «Preparerà il Signore per tutti i popoli un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6). Come sperimentiamo nella nostra vita, l’eccellenza dei cibi e delle bevande è data assai più dal mangiare e bere insieme che non dalla materialità del pasto, al punto che sedersi in solitudine ad una tavola imbandita fa passare l’appetito.

  1. La Chiesa, mistero e dono di comunione

Quando, al Vaticano II, i vescovi hanno voluto presentare alle donne e agli uomini contemporanei il volto della Chiesa, sono tornati alle origini dell’esperienza ecclesiale e ne hanno evidenziato il dato primo e fondamentale, quello appunto della comunione. Si sa che venivamo da un’ecclesiologia prevalentemente giuridica, preoccupata di tratteggiare in modo sicuro i confini della societas cristiana, in una visione piramidale che partiva dall’autorità. Gli studiosi dicono che ce n’è ancora traccia, nella costituzione Lumen Gentium: infatti ad una lettura critica risulterebbe segnata da due ecclesiologie, quella giuridica e quella comunionale. Non è da meravigliarsi, visto che ancora oggi in ambito ecclesiastico documenti, discorsi e perfino saluti procedono assai comunemente in forma gerarchica, secondo il classico schema piramidale: eminenze, eccellenze, clero, religiosi e religiose, laici… Il testo conciliare, tuttavia, testimonia un passaggio rilevante, che, a dire il vero, non abbiamo ancora digerito del tutto. Lo fa scegliendo di partire dal mistero della Chiesa, visto nella sua derivazione dalla comunione trinitaria del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, collocandosi quindi in prospettiva non certo giuridica bensì di grazia.

Il nucleo incandescente dell’esperienza ecclesiale non viene da noi, non procede dalle nostre decisioni, è dono dall’alto e ci avvolge in totalità come un roveto ardente; va anzitutto contemplato, poi accolto e custodito. Se volessimo usare un riferimento alle nostre esperienze, potremmo riandare al mistero che mette in comunione d’amore donna e uomo, sposa e sposo; qualcosa di ineffabile, pur essendo molto concreto, che supera la decisione dei singoli, pur chiedendo di investire la loro libertà. Se non si sperimenta, almeno per un attimo, che essere Chiesa fa entrare in relazioni calde di un fuoco spirituale, prevarranno inevitabilmente i limiti umani, troppo umani, degli uomini di Chiesa, oppure i calcoli e le convenienze di un’istituzione preoccupata di garantire se stessa. Non a caso un passaggio delle Scritture afferma: «E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,25-27).

Chissà perché usiamo il testo per chiedere agli sposi di verificare la loro relazione, assai meno lo facciamo diventare esame di coscienza per la comunità ecclesiale, per vescovi e preti, religiosi e religiose, operatori pastorali e cristiani tutti. Macchie e rughe si producono nel corpo ecclesiale, quando non si mette al centro la comunione d’amore del Cristo per la sua Chiesa, ma al centro stanno di volta in volta il vescovo o il parroco, il responsabile del movimento o l’animatore parrocchiale. Forse è bene riascoltare il richiamo fatto alla Chiesa di Efeso: «Ho da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (Ap 2,4). Ogni coppia in crisi sa che cosa significa questo; che la crisi della Chiesa non sia fondamentalmente crisi d’amore? Prima di essere una questione di organizzazione ecclesiastica, la comunione è esperienza viva di un amore, che ci raggiunge immeritatamente e ci permette a nostra volta di amare. Sappiamo che l’espressione “carissimi”, con cui vengono interpellati i destinatari delle lettere di Paolo e Giovanni, in lingua greca corrisponde ad “amati”. Amati, amiamo; eccola, la sintesi dell’esperienza di comunione.

  1. Dono accolto storicamente da un popolo

È significativo, peraltro, che il testo conciliare non si limiti a immergerci nel mistero di comunione che è la Chiesa, quasi rifugiandosi nell’astrattezza e dimenticando la storia. Si tratta di un rischio assai presente in certi richiami ai principi, senza che ci si misuri con quanto permette o non permette di praticarli. Si possono fare bellissimi discorsi sulla comunione, altamente ispirati, e d’altra parte gestire l’istituzione in modo da non attivare la corresponsabilità, marginalizzare o escludere chi non è in sintonia con il pensiero dominante, fomentare contrapposizioni e divisioni.

Il secondo capitolo della Lumen Gentium è dedicato alla Chiesa come popolo di Dio e fa quindi la scelta di usare questa categoria biblica per esprimere la forma storica della comunione ecclesiale. Si tratta di un popolo nel quale ci riconosciamo tutti, prima e al di là delle specificazioni ministeriali, al punto che la stessa funzione della gerarchia viene illustrata nel capitolo successivo; analogamente alla famosa frase di Agostino, che dice alla sua gente di essere anzitutto cristiano con loro e poi vescovo per loro. Il desiderio e la profezia del Vaticano II si possono cogliere nella delineazione del volto di questo popolo ecclesiale, accomunato dall’unico sacerdozio di Cristo, radicato nel medesimo senso della fede, arricchito dei differenti carismi, aperto all’universalità che non esclude niente e nessuno, mentre invece include tutto e tutti proprio perché connotato dalla cattolicità. Chiesa comunione significa che «tutti, in forza della dignità battesimale e secondo il carisma di ciascuno, sono al tempo stesso Chiesa che insegna e Chiesa che impara, Chiesa che riceve e Chiesa che dona lo Spirito» (B. Forte). Da questo punto di vista non è possibile vivere in profondità la comunione ecclesiale, se non nella misura in cui si riscopre il battesimo quale prima e fontale vocazione: «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6). La consacrazione, per i cristiani, è una e unica: quella battesimale; la Chiesa è infatti la totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito santo (LG 12).

È fondamentale leggere il tema della Chiesa come comunione, tenendo insieme le due facce della medesima realtà, come ha fatto il Vaticano II: mistero generato dalla comunione divina, popolo che l’accoglie e la concretizza nella storia. Senza la percezione profonda del mistero da cui proviene la Chiesa, il mistero d’amore trinitario, viene a mancare l’anima dell’istituzione ecclesiale e l’appartenenza sarà sociologica; senza la concretizzazione storica della comunione in un popolo di eguale dignità e corresponsabilità, il dono rimane richiamo astratto e non entra a plasmare e modificare la vita. A chi dimentica la radice di mistero, che ha la comunione nella Chiesa, e si butta in attività pastorali vorticose dove è più importante il fare che l’incontrare, vanno ricordate le parole di Paolo: «E se dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3).

Una Chiesa ben organizzata, efficiente in tutti i suoi servizi, che tuttavia non è luogo di comunione nel segno della carità, rischia di snaturare se stessa e diventare altro. A quanti si limitano a richiamare con parole la comunione ecclesiale, ma non cambiano minimamente l’impostazione pastorale in modo da favorire la corresponsabilità di tutti e la vocazione di ciascuno, si deve far risuonare l’interrogativo di Giacomo: «A che serve se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo?» (Gc 2,14). Ripetere che la comunione è tutto risulta inutile, se poi non si riesce o non si vuole operare per dare volto storico al dono ricevuto e lo si riduce a slogan.

  1. Comunione e comunità

Negli anni ’80 la Chiesa italiana ha focalizzato gli orientamenti pastorali proprio su questo tema, interrogandosi sul rapporto tra comunione-dono di Dio e comunità ecclesiale, che ne è sacramento. Lo ha fatto dopo il decennio dedicato all’evangelizzazione e come suo naturale proseguimento, infatti i vescovi affermano che «solo una Chiesa, che vive e celebra in se stessa il mistero della comunione, può essere soggetto di un’efficace evangelizzazione» (CeC 2). Oltre a riferirsi al tema conciliare, ci si sente particolarmente confrontati con l’istanza di comunione per quello che la Chiesa in Italia sta attraversando:

una stagione ricca di fermenti e di attese… non sottovalutando, certo, anche la presenza di alcune esperienze, preoccupanti e talora contradditorie, che provocano qualche sofferenza e qualche disagio (CeC 4).

Si apre la stagione dei movimenti, che se da una parte esprimono la ricchezza dello Spirito, che non va spento, dall’altra faticano a convergere per l’edificazione comune. Per loro natura, i movimenti sono una mediazione di Chiesa che accentua l’istanza comunitaria, in quanto nascono per aggregazione omogenea, condividono una determinata spiritualità, vivono di un’appartenenza forte e si esprimono con modalità emotivamente dense. A un primo impatto, si caratterizzano in modo assai differente dalla mediazione di Chiesa offerta dalla parrocchia, dove le appartenenze sono più deboli, la disomogeneità evidente, la proposta cristiana spesso generica, il grado di calore emotivo normalmente basso. Verrebbe da dire che vivere da cristiani con una semplice appartenenza parrocchiale è meno gratificante. Infatti anche parroci e preti di parrocchia hanno sentito e sentono il fascino della proposta movimentista, che sembra dare più senso al loro ministero. Devono peraltro vigilare su se stessi, per non finire a “fare” il prete in parrocchia e ad “essere” prete nel movimento. Si cerca in ogni caso di intercettare il desiderio di comunione, presente almeno nei cristiani più sensibili, definendo le parrocchie comunità cristiane; anche se, a dire il vero, sembra molte volte di trovarsi di fronte a un’operazione più di facciata che altro, come si cambiasse un’etichetta.

A livello teologico e soprattutto magisteriale viene progressivamente abbandonata la categoria di popolo di Dio, per parlare della Chiesa; alcuni la ritengono troppo sociologica, a rischio di interpretazioni non consone alla natura spirituale di un’esperienza generata dall’alto. Si insiste pertanto sulla communio, evidenziando il mistero della Chiesa più che la sua forma storica, talvolta quasi in contrapposizione con istanze conciliariste ritenute di matrice troppo orizzontalista. In realtà, definire comunità la parrocchia non sempre aiuta ad accogliere concretamente quella mediazione di Chiesa, alla quale si appartiene; provoca anzi sintomi di rigetto in quanti vi cercano quei legami caldi, che si suppone debbano caratterizzare l’esperienza di comunità. Lo si sente dire spesso, in riferimento alla propria parrocchia: ma questa non è una comunità! E si cercano altre realtà ecclesiali, più gratificanti.

Pur essendo la Chiesa generata da un dono di comunione, non si tratta tuttavia di un grembo caldo nel quale rifugiarsi, per attutire i colpi della vita. Ai cristiani è chiesta la sfida di stare immersi nella storia, come lo è stato Gesù di Nazareth, perché da là vengono gli appelli ed è nel cuore delle lacerazioni e dei conflitti che il dono di comunione va speso fino in fondo. Si fa Chiesa a partire da una chiamata, che viene dal Signore, ma è una chiamata che si decifra nella vita, attraverso la lettura dei segni dei tempi. La testimonianza da dare alla comunione emerge dalla condivisione dei cammini accidentati dei nostri contemporanei, sporcandosi mani e piedi, non tenendosene fuori. Ciò vale per la chiamata alla sequela di ciascun cristiano e per ogni vocazione specifica, che non può essere percepita se ci si ritira dal mondo, in un rapporto intimistico con il proprio Dio. La voce di Dio si ode se ci si lascia pro-vocare, cioè chiamare fuori, stanare dal grido della storia; e questo anche se si tratta di una chiamata alla vita monastica. L’esperienza del roveto ardente è paradigmatica per tutte le vocazioni; si tratta di un evento mistico, ma al cuore dell’incontro risuona la motivazione della chiamata, esplicitata da Dio stesso: «Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido. Sono sceso a liberarlo» (Es 3,7-8).

  1. Comunione e missione

Mettendo in relazione il dono di comunione con il compito storico, affidato ai cristiani e alla Chiesa, si comprende perché mai il Vaticano II abbia affermato in modo perentorio: la Chiesa è per natura missionaria (AG 2). Se oggi capiamo un po’ di più ciò che l’affermazione significa, quando è stata pronunciata era tutt’altro che scontata. Infatti si pensava, come in parte ancora oggi qualcuno pensa, che la missione riguardasse i luoghi lontani dove si va a predicare l’evangelo. In ogni caso è più facile ritenere che la Chiesa “fa” missione, mentre il Concilio ci dice che “è” missione; e questo vale per ogni cristiano e quindi per ogni vocazione, non solo per missionari e missionarie. Si tratta di una missione correlata naturalmente alla comunione, secondo una reciprocità che colloca una dimensione nel cuore dell’altra. Immaginando la comunione come il concentrarsi sul dono proveniente dal Dio di Gesù Cristo, in una relazione continuamente alimentata dalla Parola e dai sacramenti, la missione è il dilatarsi alle dimensioni del mondo, per annunciare e testimoniare il Vangelo del Regno.

La concentrazione e la dilatazione fanno venire in mente il movimento del respiro: inspirare ed espirare; è il respiro dello Spirito,

o lo Spirito come respiro, che permette alla Chiesa di vivere senza asfissie dovute o a chiusure impaurite o a un dissennato attivismo fine a se stesso. È anche il movimento del cuore, sistole e diastole, che può drammaticamente cessare o soffrire di aritmie, scompensi, fibrillazioni; mentre un cuore sanamente accordato sul Vangelo articola in modo equilibrato comunione e missione. Già la chiamata degli apostoli ha questo andamento: «Ne costituì Dodici, perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14).

Lo stare con il Signore è il nucleo primo dell’esperienza di comunione, che successivamente darà volto alla Chiesa. È la scelta di Maria di Betania, che non ci verrà mai tolta, dal momento che l’ascolto della sua Parola ci rigenera continuamente nella relazione con il Cristo; e questo rapporto si salda in modo indissolubile quando, mediante l’Eucaristia, sigilliamo la comune unione alla sua sorte e ci comunichiamo al dono per essere dono. Si tratta, tuttavia, di un rimanere in lui anzitutto interiore, ma non certo intimistico, che non può non espandersi in testimonianza, racconto, condivisione. Più ci si immerge nella comunione con il Signore e tra di noi, più ci si apre a tutto e a tutti; vale per ogni singolo cristiano, ma vale anche e soprattutto per la parrocchia che voglia rinnovarsi ed essere significativa, abitando il territorio in modo evangelico.

I vescovi italiani hanno invitato le parrocchie a rivedere il loro volto in senso missionario e nella nota pastorale a ciò dedicata ricordano ancora una volta l’intreccio tra comunione e missione: «Nella parrocchia si vivono rapporti di prossimità, con vincoli concreti di conoscenza e di amore, e si accede ai doni sacramentali, al cui centro è l’Eucaristia; ma ci si fa carico degli abitanti di tutto il territorio, sentendosi mandati a tutti» (n. 3). Proprio come i discepoli, di ieri e di sempre: li chiamò per inviarli. Ed evidenziando i tratti di un volto significativo di parrocchia, la nota episcopale ne illumina l’identità definendola figura di Chiesa radicata in un luogo, quindi capace di intercettare i nuovi luoghi dell’esperienza umana; figura di Chiesa vicina alla vita della gente, che accoglie e accompagna le persone, tessendo trame di solidarietà; figura di Chiesa semplice e umile, in quanto porta di accesso al vangelo per tutti; figura di Chiesa di popolo, avamposto verso ogni situazione umana; figura di Chiesa eucaristica, che ne svela la natura di mistero di comunione e di missione (n. 4).

  1. La missione al cuore della comunione

Il doppio movimento, che misura la salute della Chiesa, vede ciascuna delle due realtà, costitutive della vita cristiana, posta una nel cuore dell’altra. Quando si vive fino in fondo la relazione di comunione, il dono accolto esplode e diviene esigenza di arrivare fino agli estremi confini della terra. È il motivo per cui, con una scelta a dir poco sorprendente, Teresa di Gesù Bambino, monaca carmelitana che non si è mai mossa dal convento, è stata proclamata patrona delle missioni. Aveva profondamente compreso che non si va in convento per salvare se stessi, quasi fuggendo il mondo, ma per assumerlo in sé in modo ancora più significativo. Lo dice lei stessa in modo mirabile: «Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall’amore. Capii che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunciato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l’amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi. La mia vocazione è l’amore. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore e in tal modo sarò tutto».

Solo una comunione così vissuta è vaccinata dal rischio di ripiegamento identitario, dalla tentazione di trovare risposte rassicuranti, dalla deriva consolatoria o semplificatrice rispetto alla complessità del tempo presente. Lo dicono i vescovi, ancora nella nota sul volto missionario delle parrocchie, mettendo in guardia dalla «spinta a fare della parrocchia una comunità autoreferenziale, in cui ci si accontenta di trovarsi bene insieme, coltivando rapporti ravvicinati e rassicuranti» (n. 4). Anche il popolo di Dio, di cui ci racconta la Bibbia, ad un certo punto sembra essersi dimenticato che l’alleanza è un patto di comunione sancito non per chiudersi in una elezione privilegiata, ma per assumere una missione: «E in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3). In questa prospettiva non va idealizzata la comunione ecclesiale, quasi che le relazioni di Chiesa si collochino fuori della storia, in un ambiente dove il volersi bene somiglia alle favole, i conflitti sono banditi, tutto si risolve con richiami zuccherosi alla carità fraterna. C’è una missione continua, un annuncio del Vangelo e quindi una conversione che riguarda la Chiesa stessa, interpella i cristiani affinché sottopongano a criterio evangelico le relazioni, in un cammino mai finito di accoglienza del dono che ci costituisce. È rimasta famosa l’espressione di un vescovo, che ha delineato così l’impegno pastorale qui da noi: non si tratta di battezzare i convertiti, ma di convertire i battezzati. Ritengo non sia un’amara constatazione, ma la delineazione di un compito mai finito, da assumere con consapevolezza e nella gioia di potersi sempre nuovamente convertire al Vangelo.

  1. La comunione al cuore della missione

Purtroppo si è arrivati a pensare, nel tempo, che la missione significasse partire lancia in resta a cristianizzare il mondo, magari obbligando i popoli e segnando di violenza le conversioni e i conseguenti battesimi. Ciò non significa che non ci siano state testimonianze splendide di dedizione alla missione, in tutti i tempi e in tutti i luoghi; ma non sono mancati fraintendimenti e motivazioni poco evangeliche, da riconoscere come colpa e da purificare. Missione è anzitutto testimoniare e contagiare comunione, secondo quanto afferma già Giovanni: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e le nostre mani toccarono del Verbo della vita, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1Gv 1,1-3).

I trenta anni di Gesù a Nazareth, anni di condivisione e di comunione concreta alla nostra umanità, non sono meno missione della sua vita pubblica. Qualcuno ha osservato, a questo proposito, che Gesù per trent’anni ha condiviso, per tre anni predicato, una sera soltanto celebrato; percentuali inversamente proporzionali rispetto a quanto rischiamo di fare noi, nella nostra pastorale. È fondamentale che si comprenda, alla luce appunto della comunione, la missione affidataci dal Vangelo. Non è più possibile pensarla in termini, come si diceva un tempo, di plantatio ecclesiae; di fatto, nella preghiera del Signore non chiediamo al Padre che venga la Chiesa, bensì che venga il suo regno. Il fine della missione è piuttosto la plantatio caritatis, il radicamento di ogni uomo e donna nella comunione d’amore, operato dallo Spirito attraverso la mediazione ecclesiale. Là dove ci si apre al dono di comunione e lo si vive, sarà anche possibile che ci si senta chiamati alla appartenenza ecclesiale; ma nella libertà di chiamata e risposta.

Non va dimenticato che la vita cristiana è e rimane una vocazione, non una sorta di approdo obbligato per tutti… D’altra parte non è l’estendersi della Chiesa che fa venire il regno di Dio, ma il venire del regno di Dio che permette l’esperienza di Chiesa. Andrebbero rivisitati, da questo punto di vista, gli orientamenti pastorali della Chiesa italiana per gli anni ’90, che avevano messo a tema il Vangelo della carità. Purtroppo spesso si pensa che carità significhi anzitutto darsi da fare per risolvere i problemi di chi è in situazione di bisogno, magari appaltando ai gruppi caritativi di rispondervi e al massimo tirando fuori di tasca qualche soldo. Dicono i vescovi, nel documento che mette a tema il nesso tra evangelizzazione e testimonianza della carità: «La verità cristiana non è una teoria astratta. È anzitutto la persona vivente del Signore Gesù, che vive risorto in mezzo ai suoi. Può quindi essere accolta, compresa e comunicata solo all’interno di un’esperienza umana integrale, personale e comunitaria, concreta e pratica. Questa esperienza ha un volto preciso, antico e sempre nuovo: il volto e la fisionomia dell’amore» (ETC 9).

La prima e fondamentale carità è offrire la possibilità di vivere e gustare l’amore, è farsi profeti di comunione in un mondo che la ritiene impossibile, farne venire la nostalgia e suscitarne il desiderio, mostrando una pratica di vita fraterna buona e possibile.