Itinerario vocazionale e maternità spirituale di Santa Caterina da Siena
- Caterina, donna, toscana, domenicana…
Caterina è donna: in un tempo in cui pochi spazi erano riservati alla donna… Caterina fu protagonista, contribuendo in modo attivo alle vicende storiche e politiche del suo tempo.
La donna è portata per sua natura e sensibilità ad accogliere, nutrire, generare, e Caterina si pose vicino alle persone che la Provvidenza metteva sul suo cammino, accogliendo, facendo spazio all’altro e al totalmente Altro nella sua vita; nutrendo i suoi discepoli che chiamava “figli”, con consigli ed esortazioni (pensiamo alle lettere di cui parleremo); generando, anche nel dolore, cristiani adulti, fedeli alla Chiesa e alla vita consacrata (muore a Roma dove si trovava per pregare e assistere quello che riteneva essere il Papa legittimo).
Vorrei ricordare a questo proposito alcune frasi della Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II, che sembrano essere un ritratto della giovane santa: «La donna, chiamata fin dal principio ad essere amata e ad amare, trova nella vocazione alla verginità, anzitutto il Cristo come Redentore, e risponde a questo dono con l’offerta sincera di tutta la vita. Essa si dona al suo sposo divino… ma si apre anche, secondo il proprio femminile dell’essere madre, all’amore verso tutti gli uomini, specialmente i più bisognosi… una donna consacrata ritrova il suo sposo nella persona dei suoi fratelli e sorelle» (MD 20-21).
Caterina, come quasi la totalità delle donne del Trecento, non aveva una cultura accademica: pur dando credito al fatto, come lei stessa racconta, che abbia miracolosamente imparato a scrivere, sono di suo pugno soltanto poche pagine. Essendo mantellata però, ascoltava i predicatori nella Basilica di San Domenico e ancor più poteva confrontarsi con i suoi discepoli, molti dei quali erano professori di teologia, appartenenti a vari ordini: domenicani, francescani, agostiniani. Basti pensare alla Lettera 185: «E se fino a qui non siete stato ben fermo… voglio e prego che a questo punto… Vi comportiate come uomo virile seguendo il Cristo di cui siete Vicario».
Anche dopo il ritorno del Papa a Roma le cose non si sistemarono per la Chiesa, tanto che alla morte di Gregorio XI, nel 1378, la Chiesa cattolica visse un nuovo dramma. Alcuni Cardinali infatti, denunciarono invalido il conclave in cui venne eletto Urbano VI, perché non libero dalle pressioni dei romani ed elessero un antipapa: Clemente VII.Ebbe inizio il terribile scisma d’Occidente che vide la cristianità divisa tra Urbano VI, sostenuto da Caterina e da diversi stati europei, e Clemente VII, sostenuto da altri stati e da altri santi, tra cui il domenicano Vincenzo Ferreri. A questo proposito vorrei sottolineare un aspetto che mi è sembrato straordinario in Caterina: la stabilità con cui rimase fedele ad un’intuizione, come lei stessa racconta, avuta a sette anni, quando vide il Cristo vestito di abiti pontificali, ed in lei si formò la convinzione che il Papa è il Cristo in terra. Partendo da questa visione, possiamo comprendere perché Caterina, pur essendo consapevole delle manchevolezze umane dei sacerdoti, abbia sempre avuto una grandissima riverenza per essi, un forte senso di maternità. La Santa senese in tutta la sua vita invitò sempre, con parole tenere e forti allo stesso tempo, i sacri ministri e il Papa, che chiamava “dolce Cristo in terra”, ad essere fedeli alle loro responsabilità, mossa sempre e solo dal suo amore profondo e costante per la Chiesa, e per il “Vicario di Cristo”. Prima di morire disse: «Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia» (Legenda Maior, n. 363).Otre ai problemi della Chiesa, in quegli anni tutta l’Europa viveva un diffuso senso d’angoscia, in preda allo spirito individualista delle città in lotta tra loro: in Italia, i guelfi si scontravano con i ghibellini e al loro interno i due schieramenti erano divisi in fazioni; i Comuni erano desiderosi di dominio e di indipendenza e non volevano accettare di dividere il diritto di sovranità, ma al tempo stesso erano troppo deboli per estendere e affermare la propria egemonia. Dante descrive con chiarezza questa instabilità politica nel VI Canto del Purgatorio: «A mezzo novembre non giunge quello che tu d’ottobre fili», denunciando come i governi si succedessero l’uno all’ altro, proponendo leggi diverse, ma soprattutto creando nuove inimicizie e cambiamenti di fronte. Per difendere i territori si ricorreva alle armi, spesso assoldando capitani di ventura – come Giovanni Acuto – disposti a combattere per una fazione o per l’altra secondo il guadagno che era loro offerto. Se in Italia i problemi politici erano tanti, oltralpe la situazione non era migliore:
-la Germania era in preda al caos;
– Inghilterra e Francia cominciavano la tragica e interminabile guerra dei cent’anni;
-l’impero d’Oriente era in disfacimento;
– i Turchi premevano minacciosamente ai confini dell’Europa, dove ovunque scoppiavano guerre di contadini che si sentivano oppressi ed emarginati.
In questa complessa situazione, nel 1347 scoppiò la peste bubbonica e in pochi mesi morì più di un terzo della popolazione europea.
In questo tempo, caratterizzato dalla disgregazione morale e sociale, dalla crisi della politica e dal rilassamento dei costumi anche all’interno della Chiesa, operò Caterina. Tuttavia, come ha ricordato il Papa nell’udienza del 24 novembre 2010, nei momenti di maggiore difficoltà il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento.
In questo contesto nacque Caterina.
Caterina era la ventiquattresima figlia di Monna Lapa, fabbricante di ceste, e di messer Jacopo, tintore.
Con Caterina nacque una gemella Giovanna che morì subito e il nome Giovanna fu dato all’ultima figlia dei Benincasa, che nacque qualche anno dopo, dando a Lapa la possibilità di allattare Caterina. Considerando il forte tasso di mortalità infantile, si pensa che alla nascita di Caterina i figli dei Benincasa, vivi e non maritati, fossero circa una dozzina.
Abbiamo già parlato della visione di Gesù in abiti pontificali che Caterina ebbe da bambina, per il resto possiamo dire che visse fino all’adolescenza nel chiuso della famiglia, dove il suo comportamento talvolta caparbio preoccupava i genitori: mangiava pochissimo, si dedicava a dure pratiche ascetiche, si isolava dalla vita familiare, non voleva maritarsi.
- Vita e itinerario vocazionale di Caterina Benincasa
Ai tempi di Caterina una donna o si sposava o entrava in clausura, ma Caterina non si sentiva chiamata a nessuna di queste due vie.
-La prima intuizione della giovane fu quella di voler vivere come gli eremiti, fuggendo sola in luoghi lontani, ma subito capì che quella non era la sua strada;
-pensò allora di fingersi uomo, come aveva ascoltato aver fatto Santa Eufrasia, per essere ammessa in un convento come frate… ma il cugino fra Tommaso, che la famiglia aveva preso in casa perché i genitori erano morti di peste, suo primo direttore spirituale, essendo diventato domenicano, la distolse dal proposito;
-infine, leggiamo nella Legenda Major, che Caterina, ascoltando il consiglio di fra Tommaso, si tagliò i lunghi capelli per manifestare la sua volontà di donarsi a Dio, con la conseguenza che venne costretta a vivere in una piccola stanzetta.
In questo tempo di reclusione forzata Caterina scoprì che ogni uomo può e deve ricavarsi, all’interno della propria vita, uno spazio dove poter, pur trovandosi a contatto con altre persone, vivere nel raccoglimento, ed entrare in contatto con se stesso e con Dio: una “cella interiore”. La reclusione in casa offrì a Caterina l’opportunità di prendere spunto da tutto ciò che notava, per Caterina è sposa: il Beato Raimondo, prima direttore spirituale (impostole nel 1374, sei anni prima della morte, dal capitolo generale dei Domenicani, convocato a Firenze, perché preoccupato per la grande fama che la ragazza andava raccogliendo) e successivamente, alla morte di Caterina, Maestro Generale dell’Ordine, ricorda due esperienze a riguardo. La prima, quando in visione la Madonna la presentò a Gesù che le donò uno splendido anello, dicendole:
«Io, tuo Creatore e Salvatore, ti sposo nella fede, che conserverai sempre pura fino a quando celebrerai con me in cielo le tue nozze eterne» (Legenda Maior, n. 115). Nel dono di quest’anello visibile solo a lei, cogliamo il centro vitale della spiritualità di Caterina: Cristo è per lei lo sposo, e con Lui può vivere un rapporto di intimità, di comunione e di fedeltà; è Lui il bene amato sopra ogni altro bene, a cui ha donato tutto e che si è donato tutto a lei. Questa unione sponsale è illustrata da un altro episodio della vita di Caterina: lo scambio del cuore. Gesù le apparve, racconta Raimondo, con in mano un cuore rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse e disse: «Carissima figliola, come l’altro giorno presi il tuo cuore che tu mi offrivi, ecco che ora ti do il mio, e d’ora innanzi starà al posto che occupava il tuo» (ibidem). Queste esperienze mistiche le donarono la consapevolezza di aver donato tutta se stessa a Dio e la certezza che Dio le si è donato totalmente, tanto da poter dire di frequente: «Voglio», parlando in nome dello sposo divino.
Caterina è madre: i suoi discepoli, perfino i sacerdoti e il già citato Beato Raimondo, la chiamavano “mamma”. Basta prendere una qualsiasi lettera per intravedere uno squarcio dell’amore materno di Caterina per coloro che considerava figli e che a loro volta la chiamavano mamma: «Figlio vi dico e vi chiamo – scrive rivolgendosi al certosino Giovanni Sabatini –, in quanto io vi partorisco per continue orazioni e desiderio nel cospetto di Dio, così come una madre partorisce il figlio» (Lettera 141).
Caterina è toscana: è pienamente inserita nel contesto storico-geografico in cui si trova a vivere, che ama e segue con occhi materni. La sua vita è incarnata in tale contesto (la Toscana del Trecento) e si fatica a comprenderla se non se ne ricostruisce il panorama storico.
Caterina è domenicana: appartiene alle Mantellate. Ricordando che uno dei più noti motti dell’Ordine è contemplare (contemplata aliis tradere), comprendiamo che la vita di Caterina può essere riassunta in questo programma di vita: vivere l’intimità con Dio per poi andare ad annunciare il suo amore ad ogni uomo.
Vi confesso che ho iniziato ad approfondire Caterina, un po’ controvoglia, quando i miei superiori mi hanno chiesto, prima per il lavoro per la Licenza e poi per il Dottorato, di approfondirne la dottrina e il pensiero. Appena ho iniziato ad avvicinarmi alla vita della Santa mi sono spaventata non soltanto per il linguaggio, un volgare toscano trecentesco spesso difficile da traslitterare in italiano corrente, ma anche perché faticavo a comprendere le esperienze mistiche, che apparivano a me, giovane suora, fresca di studi e impegnata nella pastorale, modelli improponibili. Per ubbidienza mi sono lasciata prendere per mano da Caterina e ho accettato, con grande fatica, di leggerne i testi, le biografie. Ho così scoperto la bellezza e la ricchezza di questa giovane donna che ha cambiato le sorti della Chiesa e dell’Europa. Vorrei con voi fare lo stesso percorso, iniziando il mio intervento con un breve sguardo alle opere di Caterina, il Dialogo, l’Epistolario, le Orazioni, per poi vedere le prime biografie.
- Opere e prime biografie della Santa di Fontebranda
Il Dialogo della Divina Provvidenza: un capolavoro che contiene la vita interiore e il pensiero di Caterina da lei stessa dettato al Beato Raimondo, in forma di colloquio tra lei, giovane donna illetterata, e l’Eterno Padre, sui temi fondamentali per la vita di ogni uomo; tra lei che, come le dice l’Eterno Padre al cap. X del Dialogo: «Sai, figliola, chi sei tu e chi sono io? Se saprai queste due cose, sarai beata. Tu sei quella che non è; io, invece, Colui che sono». Un dialogo da cui trasuda l’amore totalizzante della giovane e l’amore del Creatore, che come dice Caterina stessa è folle d’amore per la sua creatura. Un dialogo in cui Caterina rivolge a Dio 4 richieste:
-nella prima, a Caterina che chiedde misericordia per se stessa(convinta che prima di santificare gli altri è necessario santificare se stessi), Dio consiglia la “Discrezione spirituale”, una grande umiltà nel riconoscersi piccola davanti a Dio;
-la seconda è una petizione per la salvezza del mondo e per la pace tra i cristiani. E il Padre le risponde che per salvare il mondo ha mandato suo Figlio, che si è fatto ponte-scala tra l’uomo, caduto nel baratro del peccato, e Dio;
-nella terza, a Caterina che chiede misericordia per la Chiesa, il Padre prima parla della dignità dei sacerdoti, poi le mostra i peccati dei cattivi ministri, dicendole che la salvezza del mondo passa attraverso la loro purificazione, invitandola a pregare per loro;
– nella quarta presenta alla Divina Provvidenza un caso particolare. Le Lettere: sono la raccolta delle 381 epistole che Caterina ha inviato ai suoi discepoli, che la chiamano “mamma”, per illuminarli nel cammino della vita.
I destinatari sono di ogni ceto sociale: uomini, donne, potenti del tempo (papi, sovrani, cardinali, nobili, il re di Francia, la regina d’Ungheria, la regina di Napoli), ma anche frati, suore, gente comune, famiglie, capitani di ventura, uomini di mala vita, persino una meretrice in Perugia, a cui scrive parole piene di affetto.
Le Lettere di Caterina s’inseriscono nel filone letterario religioso trecentista, volto non alla creazione d’immagini poetiche, ma con una finalità pratica: Caterina se ne servì per lenire i dolori del prossimo, per predicare la riforma della Chiesa, per restituire a Roma la sede pontificia, per invitare gli stati Europei ad una nuova crociata, ma soprattutto per parlare ad ogni uomo di Dio.
Le Orazioni: il loro ordine cronologico consente di cogliere l’evolversi del pensiero di Caterina negli ultimi anni della sua vita (estate 1376 – inverno 1380); non furono dettate, ma raccolte dai discepoli e appaiono come una spontanea manifestazione del suo animo.
Per conoscere il pensiero di Caterina, oltre al Dialogo, l’Epistolario e le Orazioni, è necessario ricordare le fonti che parlano di lei:
La Legenda Major, scritta dal Beato Raimondo che, divenendo Maestro dell’Ordine, ebbe la possibilità di far circolare i testi della Santa all’interno dell’Ordine rendendo possibile la riforma auspicata da Caterina. La Legenda Minor, in cui fra Tommaso Nacci, detto il Caffarini, giovane novizio quando incontrò la Santa, poi membro dell’allegra brigata, e infine priore del convento di Venezia, descrive gli episodi (tra cui i vari miracoli) della vita della “mamma”, colmando i vuoti lasciati dal Beato Raimondo, facendo una sintesi della Legenda Maior.
Il Supplementum, all’opera di fra Raimondo, nella quale sempre il Caffarini si sofferma in modo particolare sul dono delle stimmate.
Gli Atti del Processo Castellano che si svolse a Venezia tra il 1411 e il 1416, dopo poco la morte di Caterina, avvenuta nel 1380. La venerazione della Santa si era diffusa tra i fedeli a tal punto che le frequenti commemorazioni, prima della canonizzazione ufficiale, avevano provocato un esposto al vescovo di Castello in Rialto (attuale diocesi di Venezia) per chiedere una vera e propria inchiesta che dimostrasse l’autenticità delle virtù attribuite a Caterina, o far cessare queste pratiche. Il processo costituì la base per la canonizzazione proclamata da Pio II nel 1461. I miracoli di Caterina di Jacopo da Siena, scritto da un anonimo fiorentino. Prima di iniziare a parlare del tema assegnatomi, credo sia indispensabile, dal momento che è la prima relazione del Convegno, inquadrare storicamente la figura di Caterina, forse ripetendo cose da molti già conosciute. Avendo accennato alla necessità di conoscere le coordinate storico-geografiche in cui Caterina visse vorrei soffermarmi sul contesto storico in cui si trovò ad operare.
- Contesto storico in cui visse Santa Caterina
Gli ultimi anni del Medioevo furono tra i più difficili per la storia della Chiesa: alla nascita di Caterina, nel 1347, già da quarant’anni il Papa era assente da Roma e il suo esilio ad Avignone sarebbe durato ancora qualche decina d’anni. Molti hanno attribuito a Caterina il merito del ritorno del Papa a Roma, sicuramente ci furono anche altre motivazioni, ma è certo che Gregorio XI, uomo mite ed indeciso, fu aiutato dalle lettere incoraggianti e dalle parole profetiche della giovane senese. Leggendo le lettere che Caterina inviò al Pontefice, notiamo il grande rispetto, ma anche un sentimento materno, tenero e deciso, che sprona affettuosamente ad assumersi le sue responsabilità, basti pensare alla Lettera 185: «E se fino a qui non siete stato ben fermo… voglio e prego che a questo punto… Vi comportiate come uomo virile seguendo il Cristo di cui siete Vicario». Anche dopo il ritorno del Papa a Roma le cose non si sistemarono per la Chiesa, tanto che alla morte di Gregorio XI, nel 1378, la Chiesa cattolica visse un nuovo dramma. Alcuni Cardinali infatti, denunciarono invalido il conclave in cui venne eletto Urbano VI, perché non libero dalle pressioni dei romani ed elessero un antipapa: Clemente VII. Ebbe inizio il terribile scisma d’Occidente che vide la cristianità divisa tra Urbano VI, sostenuto da Caterina e da diversi stati europei, e Clemente VII, sostenuto da altri stati e da altri santi, tra cui il domenicano Vincenzo Ferreri. A questo proposito vorrei sottolineare un aspetto che mi è sembrato straordinario in Caterina: la stabilità con cui rimase fedele ad un’intuizione, come lei stessa racconta, avuta a sette anni, quando vide il Cristo vestito di abiti pontificali, ed in lei si formò la convinzione che il Papa è il Cristo in terra. Partendo da questa visione, possiamo comprendere perché Caterina, pur essendo consapevole delle manchevolezze umane dei sacerdoti, abbia sempre avuto una grandissima riverenza per essi, un forte senso di maternità. La Santa senese in tutta la sua vita invitò sempre, con parole tenere e forti allo stesso tempo, i sacri ministri e il Papa, che chiamava “dolce Cristo in terra”, ad essere fedeli alle loro responsabilità, mossa sempre e solo dal suo amore profondo e costante per la Chiesa, e per il “Vicario di Cristo”. Prima di morire disse: «Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia» (Legenda Maior, n. 363). Otre ai problemi della Chiesa, in quegli anni tutta l’Europa viveva un diffuso senso d’angoscia, in preda allo spirito individualista delle città in lotta tra loro: in Italia, i guelfi si scontravano con i ghibellini e al loro interno i due schieramenti erano divisi in fazioni; i Comuni erano desiderosi di dominio e di indipendenza e non volevano accettare di dividere il diritto di sovranità, ma al tempo stesso erano troppo deboli per estendere e affermare la propria egemonia. Dante descrive con chiarezza questa instabilità politica nel VI Canto del Purgatorio: «A mezzo novembre non giunge quello che tu d’ottobre fili», denunciando come i governi si succedessero l’uno all’altro, proponendo leggi diverse, ma soprattutto creando nuove inimicizie e cambiamenti di fronte. Per difendere i territori si ricorreva alle armi, spesso assoldando capitani di ventura – come Giovanni Acuto – disposti a combattere per una fazione o per l’altra secondo il guadagno che era loro offerto. Se in Italia i problemi politici erano tanti, oltralpe la situazione non era migliore:
-la Germania era in preda al caos;
– Inghilterra e Francia cominciavano la tragica e interminabile guerra dei cent’anni;
-l’impero d’Oriente era in disfacimento;
– i Turchi premevano minacciosamente ai confini dell’Europa, dove ovunque scoppiavano guerre di contadini che si sentivano oppressi ed emarginati.
In questa complessa situazione, nel 1347 scoppiò la peste bubbonica e in pochi mesi morì più di un terzo della popolazione europea.In questo tempo, caratterizzato dalla disgregazione morale e sociale, dalla crisi della politica e dal rilassamento dei costumi anche all’interno della Chiesa, operò Caterina. Tuttavia, come ha ricordato il Papa nell’udienza del 24 novembre 2010, nei momenti di maggiore difficoltà il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento.In questo contesto nacque Caterina. Caterina era la ventiquattresima figlia di Monna Lapa, fabbricante di ceste, e di messer Jacopo, tintore. Con Caterina nacque una gemella Giovanna che morì subito e il nome Giovanna fu dato all’ultima figlia dei Benincasa, che nacque qualche anno dopo, dando a Lapa la possibilità di allattare Caterina. Considerando il forte tasso di mortalità infantile, si pensa che alla nascita di Caterina i figli dei Benincasa, vivi e non maritati, fossero circa una dozzina. Abbiamo già parlato della visione di Gesù in abiti pontificali che Caterina ebbe da bambina, per il resto possiamo dire che visse fino all’adolescenza nel chiuso della famiglia, dove il suo comportamento talvolta caparbio preoccupava i genitori: mangiava pochissimo, si dedicava a dure pratiche ascetiche, si isolava dalla vita familiare, non voleva maritarsi.
- Vita e itinerario vocazionale di Caterina Benincasa
Ai tempi di Caterina una donna o si sposava o entrava in clausura, ma Caterina non si sentiva chiamata a nessuna di queste due vie.
-La prima intuizione della giovane fu quella di voler vivere come gli eremiti, fuggendo sola in luoghi lontani, ma subito capì che quella non era la sua strada;
-pensò allora di fingersi uomo, come aveva ascoltato aver fatto Santa Eufrasia, per essere ammessa in un convento come frate… ma il cugino fra Tommaso, che la famiglia aveva preso in casa perché i genitori erano morti di peste, suo primo direttore spirituale, essendo diventato domenicano, la distolse dal proposito;
-infine, leggiamo nella Legenda Major, che Caterina, ascoltando il consiglio di fra Tommaso, si tagliò i lunghi capelli per manifestare la sua volontà di donarsi a Dio, con la conseguenza che venne costretta a vivere in una piccola stanzetta.
In questo tempo di reclusione forzata Caterina scoprì che ogni uomo può e deve ricavarsi, all’interno della propria vita, uno spazio dove poter, pur trovandosi a contatto con altre persone, vivere nel
raccoglimento, ed entrare in contatto con se stesso e con Dio: una “cella interiore”.
La reclusione in casa offrì a Caterina l’opportunità di prendere spunto da tutto ciò che notava, per tradurre il pensiero in metafore domestiche:
-la porta, aperta per fare entrare gli amici e chiusa per tenere fuori gli ospiti indesiderati;
-il cane che ammonisce quando aprire e quando tenere chiuso;
– la finestra, che, aperta, lascia entrare la luce del sole che illumina e riscalda la stanza;
-la stessa fonte da cui attingeva acqua;
-la dispensa;
– i grossi muri della casa che dovevano sostenere tutta la costruzione e poggiavano sul costone della collina senese.
Inoltre Caterina ricorda che, come ogni cella è fatta da tre dimensioni, così anche la cella interiore risulta composta da intelletto, memoria, volontà, le tre facoltà costitutive dell’uomo, che permettono all’uomo di conoscere se stesso (qui vediamo l’influenza del pensiero Agostiniano su Caterina).
In molte lettere, soprattutto in quelle scritte a religiosi, la Santa senese, presenta l’urgenza di “ricavare nella propria vita” una cella interiore, per vivere, anche in mezzo al mondo, in intimità con il Signore: non ha senso vivere nella cella di mattoni se non si vive nella cella interiore e viceversa la cella interiore ha bisogno di una cella di mattoni, dove stare in silenzio con Dio. Al monaco olivetano Niccolò di Ghidda scrive nella Lettera 37: «Figliolo scrivo a voi nel prezioso sangue suo col desiderio di vedervi abitatore della cella del conoscimento di voi, la quale cella è un’abitazione che l’uomo porta con sé dovunque vada».
La reclusione finì quando il padre, commosso dalla vita di preghiera e di carità di Caterina, le rese l’utilizzo della camera, permettendole di uscire nuovamente di casa, ma, solo dopo essere rimasta sfigurata in volto da una brutta malattia, la giovane ottenne per intercessione della mamma di essere ammessa tra le Mantellate, quasi l’equivalente delle Beghine d’Oltralpe. Le Mantellate erano donne laiche che, sotto la guida dei Padri domenicani, molte continuando a vivere in famiglia, praticavano una sorta di vita religiosa, nella preghiera e nella quotidiana assistenza agli indigenti e ai malati della città. Non le fu facile esservi ammessa, perché vi facevano parte donne adulte, vedove e non belle, e lei era giovane, nubile e bella. Divenuta mantellata ne adottò le regole di vita, dividendosi tra preghiera e carità. Il fatto che fosse giovanissima e la sua amicizia con uomini giovani destava sospetti e maldicenze nella città di Siena e soprattutto fra le sue consorelle. In questi anni visse una duplice vita: nel chiuso delle mura domestiche aveva visioni divine, fuori nelle strade della città curava instancabilmente i derelitti e i malati, sempre mossa dall’amore che, come leggiamo nel Dialogo, «è uno e medesimo». Ovunque viveva in modo totalizzante la sua appartenenza a Dio. A circa vent’anni la vita di Caterina subì una svolta. Il motivo del cambiamento non è esterno a lei, ma interno. Aprì la porta del suo cuore al prossimo, prima a quelli di casa sua, poi ai malati, ai bisogni della sua gente per intraprendere poi una grande attività politica. Raimondo nella Legenda ricorda che il Cristo le aveva detto: «Pensa a me ed io penserò a te».
Caterina fu incoraggiata a questa apertura dalla consapevolezza che Cristo pensava continuamente al suo bene, anche quando le aveva detto: «Adesso basta, non stare più a contemplarmi qui nella tua stanzetta… esci, va’ dai miei fratelli!», in mezzo alle grandi difficoltà e alle situazioni più tragiche della storia, in mezzo alla politica corrotta del suo tempo, per annunciarvi il mio amore. Caterina può andare perché ha un cuore pacificato, ancorato, stabilizzato nella certezza che il Signore si prende cura di lei.
- Maternità spirituale ed esperienze mistiche
Altre donne di quei secoli – penso a Margherita da Cortona, Umiliana de’ Cerchi, Angela da Foligno – avevano avuto come Caterina esperienze mistiche: come lei avevano vissuto durissime penitenze e digiuni, goduto di visioni, rapimenti e annullamento di sé nel divino. Ma Caterina, in aggiunta a questo, conosce Dio anche attraverso i malati e la povertà, e addirittura attraverso la piena partecipazione alla vita politica: possiamo dire che l’esperienza religiosa di Caterina è lontana dalla solennità e dalla solitudine contemplativa del monastero altomedievale, ma è condivisione delle miserie e delle difficoltà del popolo della sua città (basti pensare al suo impegno per pacificare le città della toscana o per riportare il Papa da Avignone a Roma). Caterina è pienamente inserita nel contesto sociale in cui vive. Credo che a questo punto sia d’obbligo un breve accenno ai discepoli di Caterina, i membri, come ci riportano le biografie, della “allegra brigata” o “bella brigata”, che lei chiamava figli e che chiamavano lei mamma. In principio vi appartenevano le persone più vicine a Caterina: alcune delle Mantellate che l’accompagnaavano nei viaggi, l’aiutavano nelle necessità. Poi arrivarono alcuni frati domenicani – Tommaso della Fonte condusse a Caterina altri religiosi – tra cui fra Bartolomeo Dominicini, teologo dotto, ed altri sacerdoti. Più tardi si associarono al gruppo anche alcuni familiari di Caterina: la cognata Lisa, che dopo la morte del marito Bartolo – fratello di Caterina – si fece Mantellata come lei, e la stessa madre. La Brigata, con il passare del tempo, crebbe notevolmente e i suoi membri, dopo la morte di Caterina, divennero portatori e continuatori delle sue opere. Caterina non poteva – nel suo tempo – svolgere la sua missione, come donna, da sola. Stando alle parole di Raimondo da Capua, lei stessa – quando sentì la necessità di intervenire in diverse questioni di stampo sociale o politico, e di parlare con uomini altolocati – dovette affrontare la consapevolezza della difficoltà che le derivava dall’ essere donna. Caterina – racconta Raimondo – disse a Dio: «Ma te ne prego, o Signore: se non presumo troppo, come […] io poverella e tutta fragile possa essere utile alle anime? Il mio sesso, lo sai, vi ripugna per molti versi: sia perché non è tenuto in considerazione dagli uomini, sia perché, per ragioni di onestà, non è bene che una donna se ne stia in mezzo a loro». Sentiva il bisogno di avere intorno a sé persone che fossero aperte al suo sentimento religioso e dalle quali poter imparare. Oltre ai frati domenicani facevano parte della Brigata anche altri religiosi che trasmettevano a Caterina il proprio pensiero teologico: basti pensare all’agostiniano eremita William Fleete, che visse in un monastero vicino a Siena (Lecceto). Se molti di questi erano religiosi, c’erano anche professionisti e popolani, adulti e giovani che la seguivano durante i suoi viaggi, la sostenevano anche economicamente, accogliendola nelle loro dimore, e con i quali trascorreva molto tempo parlando dei problemi del mondo e della Chiesa. Alcuni di loro le facevano da segretari e costituivano una vera e propria cancelleria della Santa: a loro Caterina dettava le lettere e loro le recapitavano ai destinatari. Il Beato Raimondo, il primo tra i suoi segretari, racconta che la giovane senese era capace di dettare anche una decina di lettere in contemporanea ai suoi figli che, dopo averle ricopiate, le recapitavano ai destinatari. Furono loro a riportare per iscritto le sue esperienze mistiche, a raccogliere, dopo la morte, le minute delle lettere e a trascriverle collezionandole nelle diverse raccolte che sono giunte fino a noi. Possiamo dire che Caterina ha esercitato verso loro, compresi i religiosi e il suo stesso direttore spirituale, una vera e propria maternità spirituale, nel senso che, attraverso i dialoghi e le lettere, li incoraggiava, li spronava offrendo loro preziosi suggerimenti. Sarebbe interessante prendere in esame una qualsiasi lettera per vedere la cura materna che Caterina ha verso i suoi interlocutori, che considera figli; nelle sue lettere sempre:
-inizia inserendo il suo pensiero nel sangue di Cristo, o con un altro riferimento al suo amore;
-parte dal positivo e dal bene che vede in colui che riceverà la lettera;
-per poi passare ad eventuali rimproveri o esortazioni;
-conclude nuovamente nel nome di Gesù o di Maria.
Per farsi comprendere, non conoscendo il linguaggio accademico, utilizzava metafore prese dal quotidiano dei suoi interlocutori.
Le stesse metafore, presenti nelle lettere, le ritroviamo messe in bocca all’ Eterno Padre nel Dialogo e sotto forma di preghiera nelle Orazioni. Nelle lettere le metafore si differenziano a seconda dei destina-tari (quando scrive ai religiosi utilizza molto la metafora della casa, ai capitani di ventura immagini di armi…) e anche della stagione in cui scrive (in autunno utilizza molto la metafora dell’albero spoglio, o della vite), sempre prese dal contesto in cui viveva. La natura e la vita in città divenivano per lei un grande libro per parlare di Dio. La stessa metafora della scala-ponte, che è centrale nel Dialogo, perché presenta Cristo ponte per congiungere la terra e il cielo è presa molto probabilmente dallo stemma di Siena, una scala con tre gradoni: leggendo la metafora, un ponte coperto e lastricato, con negozi che vi si affacciano, non si può non pensare al fiume Arno. È questa una grande caratteristica dell’accompagnamento spirituale di Caterina: prima di parlare, si preoccupa di conoscere la vita e la realtà dei suoi interlocutori, in modo da tradurre il suo messaggio in immagini a loro comprensibili, capaci di attrarre la loro attenzione, ma soprattutto in immagini che, incontrate nuovamente, ricordino le parole dette. Come si può intuire anche solo da questi pochi cenni, in Caterina l’amore di Cristo era lo stesso amore per l’umanità, che amava di amore materno, e per la Chiesa, di cui vedeva la fragilità dei ministri, ma di cui non poteva fare a meno di sottolineare la realtà di corpo di Cristo. L’amore per lo Sposo, l’amore per la Chiesa e i suoi ministri, che lo rendono presente nell’ oggi, l’amore per tutti gli uomini, figli amati dello sposo, è un unico amore. Questo fa sì che non esistano in Caterina un amore umano e un amore divino, ma l’amore è un’unica grande fiamma che prende tutta la sua vita, tanto che arriverà a dire: «La mia natura è fuoco».
- Femminilità – sponsalità – maternità
Caterina donna – sposa – madre: tre dimensioni costitutive, la femminilità, la sponsalità, la maternità. Non ruoli, ma modi di essere ed essere in relazione con il totalmente Altro e con gli altri. Vorrei sottolineare che la femminilità è un modo di essere presente, di relazionarsi, di mettersi accanto, di essere vicino, di accompagnare prima ancora di un fare.
-Dove l’uomo ragiona per passaggi logici, deve rendersi conto di tutto prima di arrivare alla conclusione, noi donne siamo già arrivate per intuizione. Esempio di femminilità è Maria alle nozze di Cana. Sa capire quello che sta vivendo l’altro, perché è dotata di intuizione, più che di logica. Le bastano piccoli particolari ed intuisce se l’altro è a disagio, sta soffrendo o è contento…
– La donna sa attendere, è abituata ad attendere, a cogliere i piccoli segni: penso anche solo alla fertilità, alla gravidanza. La donna sa prendersi cura e non abbandona chi ama e vede in difficoltà. La donna è abituata dal suo fisico ad accogliere, a nutrire e sa che dopo il dolore viene la gioia.
– Basterebbe leggere solo qualche lettera per vedere come Caterina sa intuire i problemi e le fragilità di chi incontra. Caterina è capace di umanizzare le situazioni, le relazioni, le persone, di farsi vicina.
Nella Lettera 273 è la stessa giovane donna a raccontare al Beato Raimondo di aver saputo che Niccolò di Toldo, detto il Perugino, era stato condannato a morte dalla Repubblica di Siena, con l’accusa di controspionaggio. Si recò da lui in prigione e gli promise che sarebbe stata presente alla sua decapitazione. Non soltanto vi andò, ma fu lei a disporgli il capo sul ceppo e a ricevere nelle sue mani il capo mozzato di lui, che, scoprendosi e sentendosi amato, era diventato «dolce e docile come agnello mansueto». Ma ascoltiamo le sue parole: «Mendailo a udire la messa; e ricevette la santa Comunione, la quale mai più aveva ricevuta. Era quella volontà accordata e sottoposta alla volontà di Dio: e solo v’era rimasto uno timore di non essere forte in su quello punto. Ma la smisurata e affocata bontà di Dio lo ingannò, creandogli tanto affetto ed amore nel desiderio di Dio, che non sapeva stare senza lui, dicendo: Stà meco, e non mi abbandonare». «La bocca sua non diceva se non, Gesù, e, Catarina. E, così dicendo, ricevetti il capo nelle mani mie, fermando l’occhio nella divina bontà, e dicendo: “Io voglio”». Il “voglio” pronunciato da Caterina in quell’ora suprema, rivolto a Dio Padre per la salvezza del condannato è segno del suo amore forte e volitivo, compassionevole e delicatissimo, un amore non razionale, un amore di madre che vuole il bene per i suoi figli e osa. Ma potremo anche soffermarci sulle bellissime lettere scritte ai pontefici, scorgendoci, intuizione, compassione, misericordia.
Donna enigmatica Caterina
Vista dall’esterno, fuori dall’aureola della sua santità canonica e dell’alta posizione di Dottore della Chiesa e Patrona d’Italia e d’Europa, appare ai nostri occhi ricca di contrasti, spesso incomprensibili: giovane donna umile, incredibilmente tenace e determinata nell’opera che svolge in ambito pubblico; tenera nel rivolgersi ai suoi discepoli, ma lucida, forte e decisa nella sua idea di riforma religiosa che riprende con nuova forza molti motivi del dissenso cristiano e delle eresie; appassionata e inquieta nei pensieri e nella immaginazione, sofferente nel suo corpo volontariamente e ostinatamente stremato dal digiuno, vicina ad ogni uomo, al Santo Padre nel suo esilio ad Avignone, nella Roma in tumulto per la presenza di un antipapa, perfino come abbiamo visto ad un condannato nel momento del supplizio.
Caterina ha saputo conciliare gli opposti:
-contemplazione (le orazioni) e azione (il servizio tra i poveri e nella politica);
– carisma (aperta al nuovo che lo Spirito le comunicava) e Istituzione (fedeltà al Papa);
-donna illetterata e Dottore della Chiesa;
-femminilità e virilità.
Come dicevo, la femminilità è un dono di presenza che si coniuga nella sponsalità e nella maternità che si esplicano nel fare.
La sponsalità
Per il fatto di sapersi “sposa” Caterina si sente in dovere di sostenere e incoraggiare tutti i figli, creati dal Padre e redenti dal sangue di Gesù, di amare la Chiesa. Per Caterina essere “sposa” del Signore è un invito ad essere unita a Lui e di conseguenza ad operare secondo la sua volontà. Prima del matrimonio mistico, il Signore le aveva detto: «Figliola, pensa a me; se lo farai, Io penserò a Te». L’io penserò a Te, viene dopo, come conseguenza, di un amore totalizzante che porta Caterina a fare propri i desideri dello sposo tanto che il 1° aprile 1375, durante la Messa, dopo aver ricevuto la Santa comunione, Caterina riceverà dal Cristo crocifisso il dono delle stimmate, soffrendo i dolori di Cristo in croce, portando a compimento il matrimonio mistico arrivando ad identificarsi con lo sposo.
- Maternità spirituale di Caterina
Infine arriviamo al tema della maternità di Caterina. Vorrei premettere brevemente alcune riflessioni in proposito di Karol Wojtyla, tratte da Amore e responsabilità: «Ogni uomo, anche celibe, è chiamato, in un modo o nell’altro, alla paternità o maternità spirituale, segni di maturità interiore della persona». Il significato della maternità spirituale – analogamente alla maternità fisica – si può ricondurre al concetto di “parto”: generare spiritualmente una persona oltrepassa la dimensione fisica e corporale e richiede maturità personale, capacità di alimentare, far giungere a pienezza la vita. Anche gli animali generano in senso fisico; la generazione fisica, per essere vera maternità, è sempre legata a una dimensione spirituale. Nella Lettera 247 indirizzata alla madre di Stefano e Corrado Maconi, Caterina rivendica i suoi diritti su Stefano, che considera figlio spirituale asserendo che la maternità spirituale non è meno vera di quella fisica. Caterina sente che Stefano è figlio suo non meno che della madre, alla quale garantisce, con un po’ di ironia, che trattenendolo con sé, Stefano è al sicuro da ogni pericolo. Anche nella Lettera 45, Caterina scrive a Francesco: «Vieni non ne posso più di cercarti», parole calde e suadenti verso un figlio che si è allontanato, parole che escono da un cuore di una madre che ama profondamente, che sente che il figlio gli appartiene perché per lui ha sofferto e soffre. «Figlio vi dico e vi chiamo – scrive nella Lettera 141 Caterina rivolgendosi al certosino Giovanni Sabatini –, in quanto io vi partorisco per continue orazioni e desiderio nel cospetto di Dio, così come una madre partorisce il figlio». Caterina è madre perché è guida autentica e modello credibile per i propri “figli”, le cui personalità si sviluppano e si formano sotto la loro influenza. La maturità e la pienezza spirituale che Caterina vuole condividere diventano un torrente di ricchezza per i suoi figli e una guida sicura verso il meglio di se stessi. Di conseguenza, quel che è maturato in Caterina, continuerà a vivere nei propri figli spiritualmente “partoriti”, portando alla crescita umana. Nella Biografia del Beato Raimondo vediamo che Caterina, in punto di morte, indica a ciascuno dei “figli” presenti la vocazione da seguire: alcuni li manda a farsi frati, a tutti indica la strada dell’amore a Dio e alla Chiesa, proprio come una madre fa con i propri figli. A tutti disse: «Amatevi l’un l’altro figlioli miei carissimi, vogliatevi bene». Essere madre spirituale significa, per Caterina, essere capaci di amare ed educare gli altri all’amore, trasmettendogli la propria ricchezza interiore. Amare l’altro vuol dire dargli fiducia in se stesso, fiducia negli altri e nella vita, con la convinzione che si può credere nell’ Amore, perché l’Amore non delude mai. Ma da dove Caterina ha appreso questa stile di essere madre? Credo si debba fare un accenno al complesso rapporto tra la giovane e monna Lapa, la madre, verso la quale Caterina, pur essendo figlia nel corpo, diviene madre nello spirito. Vorrei ricordare la Lettera 18 al fratello Benincasa, che con un altro fratello stava a Firenze, ricordando loro il dovere di amore filiale verso la madre, alla quale non solo non mandavano niente, ma non davano neppure notizie. Caterina sembra essere madre della propria madre, preoccupandosi per lei, e dei fratelli che invita ad un comportamento retto. Il Beato Raimmondo descrive in modo ampio,nella Legenda Major, il rapporto tormentato di Caterina con la madre, un motivo che ritroviamo nelle agiografie delle sante mistiche della fine del medioevo. Nella tradizione antica, il paradigma offerto dalla coppia Monica-Agostino suggeriva l’idea di una trasmissione dei valori cristiani per via matrilineare. Nel Medioevo questa relazione sembra scomparire, anzi, rovesciarsi. Nella Legenda Major, monna Lapa assurge quasi al ruolo di maestra in negativo nel processo di formazione di Caterina, che indirizza alla “madre sconsolata” quattro bellissime lettere, nelle quali, con parole di grande affetto, mostra di comprendere la sofferenza della madre, la “fadiga” di accettare la vocazione della figlia, ma l’invita a diventare da madre fisica a madre nello spirito:
«Tutto questo v’addiviene perché voi amate più quella parte che io ho tratto da voi, che quella ch’io ho tratta da Dio, cioè la carne vostra, della quale mi vestiste». Invita la madre a deporre «ogni disordinata tenerezza», e a lasciarla andare, per diventare finalmente «madre non solamente del corpo, ma dell’anima mia». Caterina chiede alla madre di seguire l’esempio della Vergine che «dona sé e figlioli, e tutte le cose sue, e la vita per onore di Dio», e di non avere paura di restare come lei «sola, ospita e peregrina». L’esperienza mistica di maternità non è appresa da Caterina in famiglia, dove monna Lapa più che spingere Caterina alla consacrazione sembra volerla distogliere dal proposito di donazione totale.
- Cristo, modello di maternità spirituale
Mi piace presentare una bella immagine di Cristo presentata ripetutamente negli scritti di Caterina: quella del corpo di Dio che muore affinché gli uomini possano nutrirsi e vivere. «A noi, carissima madre, conviene fare come fa il fanciullo», scrive nella Lettera 356 a tre donne in Napoli «el quale, volendo prendere il latte, prende la mammella della madre e mettesela in bocca, unde col mezzo della carne trae a sé il latte; e così doviamo fare noi, se vuole uniformarsi a lui. Vogliamo notricare l’anima nostra: dovianci attaccare al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre della carità». Caterina è madre perché percepisce Cristo come madre. Mi piace a questo riguardo citare Papa Luciani quando, durante l’Angelus del 10 settembre 1978, disse: «Siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile: Dio è papà, più ancora è madre». Il concetto fu ribadito anche da Giovanni Paolo II nell’udienza di mercoledì 20gennaio 1999. La teologia della maternità di Dio ha radici profonde nel pensiero medievale: nel XII secolo Ildegarde aveva visto nell’incarnazione quasi una seconda creazione e in Cristo il padre e la madre dell’umanità nuova. La Chiesa nasce dal Cristo che la genera sulla croce. Ma Ildegarde rimane ancora all’interno della tradizione monastica. Nel Medioevo, e in Caterina in particolare, il dato teologico è trasferito sul piano dell’esperienza concreta e si inserisce nel nuovo linguaggio della mistica femminile. L’intimità totale con Cristo viene ricercata nella partecipazione alla sua sofferenza, pensiamo oltre al dono delle stimmate alle tante pratiche di penitenza praticate da Caterina.
È questa una delle grandi intuizioni di Caterina: l’evento dell’incarnazione del Verbo si può ripetere in ogni uomo, come una realtà storicamente tangibile, come lo è nell’Eucaristia, non solo nella contemplazione, ma anche mortificando il corpo per oltrepassare il finito e raggiungere l’Essere eterno e immutabile, spostando l’attenzione dal solo contemplare al generare, che è un fare. Sono in questa linea comprendiamo le grandi pratiche di penitenza che hanno fatto pensare a Caterina come malata di anoressia. Già Gertrude di Helfta la notte di Natale si sentiva incinta del divino Bambino e ad Angela da Foligno il mondo intero appare come gravido di Dio, vivente nell’attesa. Decine e decine di visioni di sante donne, tra cui Caterina da Siena e Caterina de’ Ricci, ce le mostrano a cullare Gesù bambino: lo nutrono, lo fasciano, lo cullano (invito ad andare a vedere gli affreschi nella cella della casa di Caterina). Ma Caterina va oltre: la singolarità della sua esperienza è quella di aver portato alle conseguenze estreme l’intuizione mistica del completo coinvolgimento di Dio nella storia e di aver trasferito il tema della maternità dal momento personale privato a quello pubblico, in un amore sconfinato, materno, che la porta a svolgere il suo servizio tra gli appestati, a recarsi da coloro che detenevano il potere politico, a contattare capitani di ventura, a recarsi nelle più grandi corti del suo tempo, fino ad Avignone e fa sì che muoia a Roma. Femminilità, sponsalità, maternità: le abbiamo analizzate separatamente per capirle un po’ meglio, ma nell’ esperienza sono fuse insieme. Queste tre dimensioni si esplicano in pienezza in una presenza amante che unifica la vita. Un amore totalizzante che le ha donato tutto e nello stesso tempo le ha chiesto tutto quello che era e che aveva. Un amore che ha unificato tutte le sue potenzialità: mente, cuore, corpo, volontà.
- Caterina e la donna di oggi
Caterina continua a parlare alla donna di oggi, che vive in crisi di identità e ondeggia tra un complesso di inferiorità ereditato dal passato e una arrogante superiorità, ma che in realtà non sa chi è nella sua specificità, nella sua identità; una donna che spesso scimmiotta l’uomo, perché sembra che sia valido solo ciò che assomiglia al maschile, che dicendo che è alla pari dell’uomo nei ruoli, che può fare quello che fa l’uomo, continua a pensarsi in un ruolo, non nella sua identità. Caterina ci invita a vivere la nostra femminilità coniugandola in sponsalità e maternità, non come un ruolo, ma come una peculiarità profonda. Caterina vive un autentico femminismo che non cerca rivendicazioni, ma vuole contribuire, con la forza della propria femminilità, a rendere più belle la società civile e la Chiesa. Vorrei ricordare un passaggio importante riportatoci dal Beato Raimondo. Avendo obiettato a Dio padre che come donna si sentiva inferiore agli uomini questi gli rispose: «Non sono io che ho creato il genere umano e l’ho diviso in maschi e femmine… davanti a me tutti hanno uguale dignità con ruoli diversi». Caterina parla alla donna di oggi che è frantumata, dissociata, spezzettata tra lavoro, famiglia, società, divertimento, vacanze, e che vive questi momenti della sua vita come compartimenti stagni, e la invita a vivere in maniera unificata questi momenti, fondandosi su un unico grande amore, che si declina nelle varie circostanze della vita.
Caterina parla alla donna che vuole vivere la sua femminilità e le dice: sii presenza intuitiva nel mondo di oggi, umanizzante, pacificante; il mondo di oggi ne ha bisogno. Sii presenza di pace presso l’uomo razionale, presso le situazioni di antagonismo, di odio… Nel mondo di oggi, dove le relazioni di coppia sono difficili, la fedeltà è spesso faticosa, dolorosa… Caterina dice che alla donna tocca saper trovare il modo di attivare il meglio dei suoi familiari per poter vivere un rapporto vero. Ma parla anche alle consacrate, dicendoci che non si vive senza un amore forte e totalizzante e donarsi al Signore è vivere questo bellissimo rapporto d’amore con Lui, presente nella Chiesa e nel mondo. Caterina parla alla donna che percepisce molti ostacoli alla maternità a dice: sii madre in pienezza, genera alla vita, non avere paura, genera alla libertà, prenditi cura della vita e una volta che hai portato a maturità i tuoi figli, lasciali andare, non essere possessiva. E anche a noi consacrate ricorda che non è madre solo chi genera fisicamente, e ci invita ad amare ogni uomo, vedendo in lui un figlio dello Sposo. La Chiesa, il mondo, l’umanità hanno bisogno di una donna che sia una presenza materna, che crei rapporti, relazioni che sanno suscitare vita e il meglio di ognuno. Come ieri anche oggi il mondo e la Chiesa chiedono una presenza di donna consacrata che sia madre così come lo è stata Caterina, che, superati i complessi di inferiorità e di arroganza sa prendersi cura, con tutta la sua ricchezza, del mondo e dell’umanità di oggi. Una donna che si lega a Cristo e ne fa il suo centro non può disumanizzarsi, ma deve diventare sposa-madre come lo è stata Caterina. Per concludere vorrei citare Papa Benedetto XVI nell’ udienza del 24 novembre 2010: «Anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette sempre più elevate».