N.04
Luglio/Agosto 2024

Come il pane

Una riflessione fra giovani sul lavoro

Asia, seduta di fronte al tavolo a compilare il suo bilancio delle competenze nei primi giorni di un progetto di vita comunitaria che la impegnerà per un anno lontana da casa, si interroga sulla natura di una sua esperienza di tirocinio non retribuito. ‘’È un lavoro o no? lo devo inserire fra le esperienze di lavoro? perché a me sembra di aver lavorato, però mi hanno pagata poco e in più non è che è quello che voglio fare in futuro…’’, mi domanda incuriosita dalla mia eventuale risposta e rimane quasi delusa quando capisce che invece seguiranno molte altre mie domande per capire che valore ha per lei quell’esperienza.

Il dubbio di Asia nasconde molti interrogativi: un lavoro retribuito poco e male può essere considerato un’esperienza lavorativa? Non lo consideriamo tale perché magari la mansione non è perfettamente aderente alla visione che abbiamo di cosa sarà il nostro lavoro in futuro? Oppure, anche se retribuito poco e male, è un mezzo per ottenere la tanto ambita indipendenza economica e serve per iniziare, che tanto da qualche parte bisogna pur farlo?

Parlando con Roberto, giovane lavoratore di 23 anni del mondo del Teatro Ragazzi, mi racconta come tra i suoi coetanei non usa più presentarsi con il solito ‘’…e tu, cosa fai nella vita?’’. Mi racconta che per lui e per i suoi amici e colleghi è una prerogativa delle persone che hanno superato i trent’anni, perché, quasi con un pizzico di rassegnazione mi dice ‘’Giorgia, il lavoro lo cambiamo così spesso che è quasi inutile chiedersi che fai nella vita’’.

Parlo con lui, parlo con altri giovani miei coetanei e mi appare immediatamente visibile come fra giovani e giovanissimi si stia trasformando la visione del lavoro. Eppure siamo entrambi parte della generazione che vive (volente o nolente) la fluidità lavorativa, che ha assorbito la capacità di reinventarsi con creatività e di cambiare ruoli e professioni, poiché per noi il ‘’posto fisso’’ dove restare per molti anni e crescere lì personalmente e umanamente non è mai stato tra le possibilità, un po’ perché non ci appare più in linea con i tempi e un po’ perché ci sembra non esistere e rimane invece appannaggio di pochi, decisi e molto motivati, a diventare quel ‘’qualcuno’’ che hanno in mente. Se per alcuni giovani e giovanissimi, per molte ragazze e ragazzi, i primi lavori sono solo modi per galleggiare nel presente. Nel nostro curriculum non solo non ce n’è traccia, ma non ne riconosciamo nemmeno il valore, da dove nasce e si fonda l’idea che abbiamo del lavoro? Come concorre il lavoro alla nostra vita e, soprattutto, in che modo ci identifica il nostro lavoro?

 

“Siamo perché lavoriamo” o “Siamo, dunque lavoriamo”?

È la riflessione che mi sorge spontanea, conoscendo ed incontrando i giovani nelle mie esperienze associative e durante il mio mandato nel Progetto Policoro, dove di giovani di tutta Italia se ne incontrano tanti. Mossi dalla passione di provare a rispondere alle difficoltà lavorative che si incontrano nei nostri territori si scontrano con un fenomeno che va avanti dagli anni Novanta: quello delle fughe dal proprio luogo di origine alla ricerca di un lavoro, e sommato alla diminuzione del numero dei giovani, risulta un vero e proprio problema. La Chiesa lo affronta in numerose maniere, come ad esempio il Progetto Policoro, che forma animatori ed animatrici di Comunità e, con loro, le équipe diocesane, per dare risposte concrete, per fornire accompagnamento e strumenti utili a stare nel mondo del lavoro e viverlo con gioia, mettendo in pratica quella prossimità di cui papa Francesco parla in occasione di un messaggio inviato ai partecipanti di un cantiere promosso dalle ACLI di Roma, a dicembre 2023: «Contratti a termine, lavori così brevi che impediscono di progettare la vita, bassi redditi e basse tutele sembrano i muri di un labirinto dal quale non si riesce a trovare via d’uscita. Cari giovani, serve come il pane qualcuno che vi prenda per mano e vi aiuti a sconfiggere questa precarietà e questo senso di vuoto, tirandovi fuori dalle sabbie mobili dell’insicurezza».

Tornando alle domande che ci siamo posti, forse la risposta va cercata nell’evoluzione che il lavoro sta producendo nelle generazioni che sono riconosciute come giovani in questo momento storico. Siamo cresciuti i nostri nonni e i nostri genitori per i quali il lavoro è sacrificio, dedizione assoluta; raramente la tipologia di lavoro esercitata per loro era una scelta. Oggi i giovani a questo non ci vogliono stare, non perché come dicono alcuni ‘’i giovani non sanno cosa sia il sacrificio’’, ma perché il lavoro così diventa un sostentamento principalmente economico e momentaneo per rendersi autonomi in attesa che ne arrivi un altro meglio pagato e più dinamico.

Se da una parte questo ci mette nella condizione di vedere sempre più giovani passare da un incarico all’altro con una apparente mancanza di visione futura, dall’altra i giovani, ove possibile, accettano sempre meno incarichi routinari, mal pagati e in condizioni sfavorevoli. Questo ci mette di fronte, non solo ad una emergenza nel mercato del lavoro che va ammodernato e ristrutturato nel profondo, garantendo a tutti un equo riconoscimento del lavoro svolto, ma anche ad altre emergenze che diventano ferite alla dignità: il lavoro che dovrebbe essere fonte di consolidamento di sé, luogo di relazioni, di crescita e di costruzione del bene comune, rischia di essere sempre più un tappabuchi, non permettendo di realizzare sé stessi pienamente e di costruire la propria identità.

“Si tratta di una questione fondamentale della società, perché il lavoro per un giovane non è semplicemente un’attività finalizzata a produrre un reddito. È un’espressione della dignità umana, è un cammino di maturazione e di inserimento sociale, è uno stimolo costante a crescere in termini di responsabilità e di creatività, è una protezione contro la tendenza all’individualismo e alla comodità, ed è anche dar gloria a Dio attraverso lo sviluppo delle proprie capacità’’ (CV 271).

Se, simultaneamente, a questa riflessione teniamo a mente l’Esortazione apostolica di papa Francesco ‘’Christus vivit’’ nella quale si esprime chiaramente qual è l’orizzonte valoriale che il lavoro ha per i giovani che non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma anche un’opportunità per realizzarsi e servire gli altri, vediamo chiaramente che il lavoro vissuto, come probabilmente lo hanno imparato a vivere Asia e Roberto, è solo una parte di quella potenzialità può sprigionare nelle loro vite.

Sta dunque a loro, continuare a tenere duro oltre la rassegnazione, desiderando un mercato del lavoro equo e giusto, stabile e duraturo; sta anche a tutti i giovani che hanno vissuto l’esperienza di un lavoro fecondo e generativo per la società e per loro stessi, testimoniarne l’importanza e contaminare altri coetanei accendendo “stelle nella notte di altri giovani’’, come ci dice papa Francesco.

Sta agli adulti creare spazio affinché i giovani e le giovani possano esprimersi e condividere nuove visioni, sta alle istituzioni captare dai giovani stessi le necessità che esprimono senza etichettare alcuni fenomeni con il comodo ‘’fannullonismo’’. È ora di andare in profondità, è ora di mostrare quanta bellezza può esserci nel lavoro e quanto amore ci può essere nella propria scelta quotidiana, così che presto Roberto ed Asia possano essere adulti felici che, prima di tutto, Sono, e dunque scelgono, vivono e crescono in un lavoro che li appassiona.