Con tutto me stesso: la preghiera vocazionale nell’itinerario spirituale del Vangelo di Giovanni
Il tema prescelto per la XXXVII Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni è contenuto in uno slogan significativo: Con tutto me stesso. Esso indica il valore vocazionale della totalità, della radicalità e della definitività del dono della vita da parte di colui che risponde a Dio. In questa prospettiva si può evidenziare la continuità con il tema vocazionale proposto lo scorso anno: Nella fedeltà è il mio amore: eccomi!, in quanto si mette in relazione la “fedeltà del sì” della risposta del credente all’appello di Dio con la “totalità del sì” che coinvolge tutta la vita, la persona nelle sue dimensioni e nella sua esistenza. L’invito a rispondere “con tutto me stesso” è proprio di Dio, così come Gesù evidenzia nella solenne riaffermazione del credo di Israele (Cfr. Dt 6,4-9): “Gesù rispose: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. Il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,37- 40). L’amore per Dio e l’amore verso il prossimo coinvolgono l’intera esistenza dei credenti e domandano una risposta “totale e coinvolgente” all’appello divino mediante la carità.
Il messaggio
La Giornata di Preghiera dell’anno 2000 si carica di tre significati importanti, legati al momento epocale che stiamo vivendo:
1. l’evento giubilare che segna la centralità dell’incarnazione di Gesù Cristo, inizio della nostra salvezza;
2. il mistero trinitario, che riassume in sé la totalità cosmica dell’amore di Dio;
3. il sacramento dell’Eucaristia, mediante il quale si rinnova il sacrificio pasquale e il Figlio continua ad offrirsi per l’umanità come sorgente di vita divina. Il messaggio della Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni comprende la circolarità di questi tre temi, che si compenetrano nell’unico ed incisivo appello vocazionale espresso con la perifrasi: “con tutto me stesso” e dalla metafora della “vite e i tralci” (Cfr. Gv 15).
La scelta per presentare il messaggio segue una via della teologia giovannea. Il percorso mira a comprendere l’esperienza della vocazione come un evento unico ed irripetibile che coinvolge la persona nella sua totalità (corpo, mente, anima) verso Dio e il suo progetto. Centro e modello della totalità della risposta al Padre è il Figlio che rivela e realizza il progetto salvifico del Padre. Non c’è dubbio che la cristologia giovannea rappresenta uno degli stadi più evoluti della riflessione neotestamentaria e assegna un posto particolare alla teologia del Logos e al mistero dell’incarnazione. Nel decorso del IV vangelo l’intero processo della rivelazione di Dio segna un percorso kerygmatico-catechistico efficace per esprimere le tre istanze presenti nel messaggio vocazionale:
a) totalità nell’esperienza del mistero trinitario;
b) totalità nell’esperienza del cammino sacramentale (di cui l’Eucaristia è fonte e culmine);
c) totalità nell’amore cristologico, che si fonda sull’incarnazione e sulla Pasqua.
Proposta di lettura
Mediante otto verbi-chiave si intende introdurre il lettore nell’esperienza spirituale giovannea che consenta di cogliere i contenuti centrali racchiusi nella ricchezza della dinamica rivelativa ed espressiva del quarto evangelista. Ad ogni verbo corrisponde un brano evangelico secondo un ordine progressivo, un simbolo cristologico ed un riferimento sacramentale. La proposta di lettura è così schematizzata secondo otto tappe: Messaggio; Testo evangelico; Segno cristologico; Riferimento sacramentale.
Vivere; Gv 1,1-18; la Parola.
Testimoniare; Gv 1,19-51; l’Agnello di Dio; la confermazione.
Condividere; Gv 2,1-12; il vino nuovo; il matrimonio.
Credere; Gv 2,23-3,21; l’acqua; il battesimo.
Donare; Gv 6,1-70; il pane; l’eucaristia.
Riconoscere; Gv 9,1-41; la luce; la riconciliazione.
Servire; Gv 15, 1-16; la vite e i tralci; l’ordine.
Glorificare; Gv 19-20; il costato trafitto; l’unzione.
1.Vivere “…Con tutto me stesso”
(Cfr. Gv 1,1-18)
La divisione posta da diversi studiosi individua nel prologo giovanneo (1,1-18) quattro unità che corrispondono a quattro aspetti della riflessione teologica, individuabili come quattro cerchi concentrici, dal più grande al più piccolo[1]; vv. 1-5: l’esistenza del Logos, la sua relazione con Dio, la sua funzione di mediazione nella creazione; vv. 6-8: l’introduzione della figura di Giovanni Battista come “testimone della luce” e precursore della fede; vv. 9-13: il tema della luce che illumina l’universo e l’umanità posta di fronte ad una scelta: accogliere o rifiutare la luce, che implica l’accoglienza e il rifiuto della vita; vv. 14-18: l’incarnazione del Logos è vita e luce per gli uomini, la testimonianza del Battista e l’orientamento escatologico della missione del Figlio. L’intera visione teologica, descritta con immagini dell’Antico Testamento serve a presentare il ruolo unico della mediazione del Logos (sapienza), che indica la personalità del Figlio, Verbo incarnato (similmente in 1 Gv 1,1 e Ap 19,13 si indica con il termine Logos la persona del Figlio di Dio, l’unigenito). Il Logos è la persona divina che si è rivelato come fonte della vita eterna, ha rivestito la carne umana ed è stato toccato dalle mani degli apostoli. È ancora precisato come la divinità del Verbo è eternamente rivolta verso Dio, il Padre (v. 18) e allo stesso tempo ne rivela la perfetta comunione di amore. Il Verbo è la fonte della vita, inserito esplicitamente nella storia della salvezza, che supera e completa la legge mosaica. Il Verbo è la luce degli uomini (v. 4), fonte di rivelazione che illumina la notte del mondo e smaschera ogni ostilità. Il centro del quadro descritto dal prologo è nel v. 14: “il verbo si è fatto carne”. La testimonianza del Battista (1,7s) presuppone che il Verbo-luce sia già presente nel mondo come persona che vive tra la gente. Con l’affermazione di 1,14 si comprendono le espressioni enigmatiche circa la presenza della persona divina nella storia umana: il Logos è vita, perché manifesta e comunica la vita divina con la sua persona. Nei vv. 16-18 si accentua la rivelazione escatologica che non avviene per mezzo della legge mosaica, bensì per mezzo del Figlio unigenito[2]. La legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia della verità è possibile unicamente nella mediazione salvifica di Gesù Cristo.
Prospettive teologiche
La lettura teologica del testo evidenzia alcuni contenuti per il nostro itinerario vocazionale:
– nel Verbo incarnato Gesù è divenuto per noi “luogo dell’incontro con Dio”, “presenza personale” di Dio sulla terra. Dall’istante dell’incarnazione del Figlio, per ciascun uomo il vivere acquista una prospettiva ermeneutica radicalmente diversa. Anzitutto l’incarnazione di Dio pone il fondamento storico di un’uguaglianza tra gli uomini che non potrà mai essere superata. Dal fatto che Gesù è diventato autenticamente uomo dentro la storia, l’atteggiamento verso la vita e la morte è messo in questione in un modo radicale, in quanto la morte ha perso il suo contrassegno distruttivo in funzione della prospettiva della “vita nuova”;
– l’incarnazione è la manifestazione concreta e credibile dell’amore di Dio in quanto rivela la centralità della carità divina e determina il nuovo modello antropologico che fonda i rapporti umani sull’amore reciproco e sul principio universale di uguaglianza e di fraternità. Il messaggio centrale è costituito dalla rivelazione del Verbo incarnato come fonte della vita e luce per il mondo. In questa affermazione si evidenzia l’opera rivelatrice del Figlio che entra nel mondo e illumina gli uomini. Così la realtà dell’incarnazione si comprende nella prospettiva missionaria della testimonianza evangelica. Il Verbo incarnato rivela l’amore trinitario e ne esalta la gloria divina, rivolto eternamente verso il seno del Padre[3];
– la totalità espressa nell’evento dell’incarnazione apre una prospettiva antropologica nuova che implica come essere cristiani significa realizzare essenzialmente il proprio progetto vocazionale nella pienezza del “dono di sé” (corpo, mente e anima). Da questa consapevolezza si comprende come “vivere” presuppone un percorso di identità ed implica una scelta orientata alla definitività[4]. L’incarnazione del Figlio implica una vocazione inscritta nell’essere creato: l’elevazione della natura umana alla dignità sublime di Dio[5].
2. Testimoniare “…Con tutto me stesso”
(Cfr. Gv 1,35-51)
Il IV vangelo si apre con la testimonianza del Battista (1,19) e si chiude con la testimonianza diretta e fedele dello scrittore anonimo (19,35; 21,24). L’intero filo narrativo giovanneo è sorretto dalla testimonianza vissuta del discepolo amato ed in questo contesto che vengono riferiti i segni e le parole di Gesù. Gv 1,19-51 si può dividere in due parti: vv. 35-42: la vocazione dei primi tre discepoli, Andrea, Giovanni e Simone a cui Gesù cambia il nome; vv. 43-51: la vocazione di altri due discepoli e la professione di fede di Natanaele. Queste due parti sembrano strutturate in modo parallelo, con corrispondenze assai marcate[6]:
a) si parla della sequela di Gesù (vv. 37s.43);
b) viene descritta la chiamata dei discepoli (vv. 40ss. 45ss.);
c) sono riportate due professioni di fede in Gesù (vv. 41.45.49);
d) sono descritti degli incontri con Gesù (vv. 42.47ss).
La prima parte del brano evidenzia come la vocazione dei primi discepoli sia collegata alla testimonianza del Battista. I verbi impiegati sono molto significativi: Giovanni “fissa lo sguardo su Gesù che passa” (il verbo si ripete al v. 42). Si indica l’atto di guardare con attenzione, penetrando nell’intimo dell’animo, a cui segue la rivelazione: “ecco l’agnello di Dio” (1,29) che prepara la sequela di Cristo. I due discepoli si mettono “a seguire” Gesù dopo aver sentito la testimonianza di Giovanni. La sequela di Gesù implica il diventare discepoli di lui (Cfr. Mc 2,15; Mt 9,9; Lc 5,27s.).
La domanda che il Signore rivolge loro ha un profondo valore teologico: “che cercate?” (1,38). Questa prima espressione di Gesù nel quarto vangelo possiede un valore programmatico: la narrazione giovannea indica nel lettore la ricerca della persona divina, come suggerisce l’analoga espressione in Gv 18,4.6 (nel contesto del tradimento) e Gv 21,15 (nel contesto delle apparizioni post-pasquali). Alla richiesta dei due discepoli: “Maestro, dove abiti?” segue la risposta del Signore: “venite e vedrete”, l’invito a fare esperienza di un incontro personale con Cristo. Si tratta del momento culminante dell’avventura vocazionale dei primi due discepoli, evento che è restato così impresso nella memoria di Andrea e Giovanni da ricordare perfino l’ora (v. 39). L’esperienza di discepolato diventa annuncio dell’incontro: Andrea narra l’esperienza a Simone, suo fratello e lo conduce al Signore. La vocazione di Simone, come quella dei primi due discepoli nasce anche in questo caso dalla testimonianza dell’esperienza vissuta nella fede. La seconda parte della pericope rappresenta un ulteriore momento qualificante della testimonianza dei discepoli: a fronte dell’incredulità di Natanaele (v. 46), viene riportato un singolare dialogo con Gesù che provoca un entusiastica reazione di fede del discepolo: “Rabbi, tu sei veramente il figlio di Dio, tu sei il re d’Israele” (v. 49). Vengono descritti in quest’ultimo incontro sentimenti di scetticismo, di curiosità, di meraviglia e di fede che culminano nella affermazione misteriosa e rivelativa del Signore: “In verità in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul figlio dell’uomo” (v. 51). Il segno cristologico di questa prima tappa è l’agnello di Dio. Il Battista applica a Gesù una metafora biblica di grande valore messianico[7].
Prospettive teologiche
La lettura teologica del testo evidenzia i seguenti contenuti:
– l’elemento di collegamento che si coglie dall’intera narrazione è costituito dal ruolo della testimonianza che diventa condizione della sequela. Si passa dalla testimonianza del Battista a quella dei discepoli evidenziando come l’incontro con la persona di Gesù presupponga l’ascolto della testimonianza e la decisione della ricerca[8]. La dinamica dell’incontro tra Gesù e i discepoli rivela la domanda profonda della ricerca dei discepoli, che costituisce la motivazione antropologica e il bisogno della risposta al senso della propria vita. Da qui nasce la scelta vitale della sequela: decidere di seguire Cristo “con tutto se stesso” significa abbandonare la guida del Battista per incontrare “l’agnello di Dio” e “dimorare” con lui;
– l’uomo che si sente raggiunto dall’invito di Dio risponde “con tutto se stesso” ed inizia il cammino di scoperta del volto di Cristo. La primaria esperienza che fa scattare la molla della risposta non è tanto legata a considerazioni concettuali e teoriche su Cristo, bensì alla forza della testimonianza e allo stupore dell’incontro. L’evento vocazionale ha come inizio un incontro sconvolgente che nasce dall’ammirazione di una testimonianza “profetica”[9];
– un ulteriore aspetto è costituito dalla dimensione “comunitaria” dell’esperienza cristiana. Gesù invita i discepoli alla sequela esaltando la dimensione comunitaria e comunionale dell’esperienza: “venite e vedrete”. Andrea annuncia a Simone suo fratello: “abbiamo trovato il messia”; l’esperienza della ricerca e dell’incontro è vissuta in una dimensione comunitaria, così come la testimonianza. La testimonianza diventa una condizione del credente che vive la propria vocazione integralmente in una prospettiva missionaria[10].
3. Condividere “…Con tutto me stesso”
(Cfr. Gv 2,1-12)
Gli elementi del racconto del segno di Cana sono ben noti[11]: il tema delle nozze, la presenza della “madre” di Gesù (non se ne dà il nome: Cfr. Gv 6,42; 19,26) e dei suoi discepoli, l’improvvisa e problematica mancanza del vino, il dialogo tra la madre e Gesù, l’esecuzione dell’ordine e la constatazione del “vino buono”, la conclusione teologica del racconto. Al centro della scena è posta la persona di Gesù, che appare come il Messia. Il segno del vino mette in piena luce la dignità messianica del Cristo e la sovrabbondanza dei beni messianici. Gesù diviene protagonista ed artefice delle nozze. Occorre osservare come gli sposi non compaiono quasi mai nella scena: la sposa non è mai menzionata e lo sposo è citato una sola volta (v. 9) ed è implicitamente identificato con Gesù stesso, che avrebbe “conservato fino ad ora il vino buono” (v. 10). Un posto di rilievo è occupato dalla madre solo nella prima parte della scena (vv.1-5), quando interviene per rilevare la situazione precaria in cui si era venuta a trovare la festa nuziale. Essa viene descritta come “la madre di Gesù” e quindi è posta in relazione diretta con il protagonista. Nella seconda parte del racconto la madre scende nell’ombra facendo agire il figlio. È rilevante interpretare il dialogo tra Gesù e la madre, nel quale si coglie la chiave di lettura messianica che il Cristo applica al segno del vino: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”. L’espressione indica una separazione tra una concezione puramente occasionale del miracolo e la prospettiva messianica. Gesù non nega il miracolo, ma rivela la ferma e decisa volontà di compiere il segno del vino nell’ottica progettuale dell’ora fissata dalla volontà del Padre. Con il segno di Cana l’ora è già iniziata “ma non è ancora giunta”, cioè è iniziato il cammino verso la sua morte e la sua esaltazione (Cfr. Gv 7,30; 8,20; 12,23.27; 13,1; 17,1) ma dovrà compiersi nella glorificazione ed esaltazione della croce (Cfr. Gv 19,26). In questa prospettiva si interpreta bene anche il termine “donna” riservato alla madre, presente all’inizio della sua ora e al termine, sotto la croce, con lo stesso appellativo. La vergine Maria condivide insieme al figlio l’ora della glorificazione e ne anticipa attraverso i segni la realizzazione, rivestendo l’immagine della “sposa” nel contesto delle nozze messianiche del proprio figlio.
Un segno della totalità è dato dal ruolo dei servi (diaconi) che si mettono a completa disposizione di Gesù e riempiono le giare “fino all’orlo”. Nella constatazione meravigliata del maestro di tavola si sottolinea la novità del fatto accaduto e l’ottima qualità del vino, mentre il segno assume per i discepoli un valore teofanico, segnando l’inizio della partecipazione di fede alla missione salvifica del Cristo. Il significato biblico del vino[12] implica il segno gioioso dei tempi messianici. Il vino buono delle nozze, atteso “fino ad ora” è il dono della carità di Cristo, segno della gioia che la venuta del Messia si realizza (Cfr. Gv 4,23; 5,25). Nel segno di Cana Gesù “manifesta la sua gloria”.
L’interpretazione simbolica di Gv 2,1-12 permette di vedere il Signore come il vero “dono messianico” all’umanità; nell’abbondanza di vino buono viene espressa l’abbondanza del dono di Dio. Il fatto che il vino nuovo arrivi quando si è esaurito l’altro di qualità inferiore simboleggia come all’alleanza antica si sostituisce ormai la nuova. Nella linea interpretativa del simbolismo giovanneo il “banchetto nuziale” e la presenza del “vino nuovo”, collegato a Gv 19,26, rappresenterebbero il sacramento dell’Eucaristia[13].
Prospettive teologiche
La lettura teologica del testo evidenzia alcuni messaggi che sollecitano la nostra riflessione:
– l’idea della piena e totale condivisione di Dio, mediante il Cristo è fortemente significata in questo brano giovanneo. Gesù non intende semplicemente compiere un gesto di cortesia mediante il miracolo, ma viene a prendere il “giusto posto” nel progetto del Padre, obbedendo fedelmente alla sua ora. Egli rivela alla madre a Cana che quella è l’ora della donazione totale e della condivisione “con tutto se stesso”, l’inizio di un nuovo tempo. Emerge in questa linea interpretativa come lo scopo della vita umana sia da intendersi nell’ottica di un’esperienza sponsale, che domanda a ciascuno il dono gioioso di se stessi. In questo donarsi completo dell’uomo a Dio si scopre la “novità” del “vino buono ed abbondante” che trasforma la convivenza umana in una festa messianica proiettata nell’attesa escatologica;
– la mancanza improvvisa del vino implica nella simbologia descritta la dimensione precaria della vita umana, destinata al fallimento senza un riferimento a Dio. Così non è possibile pensare al successo dell’uomo che vuole costruirsi una felicità confidando unicamente nelle proprie forze. Il banchetto messianico rappresenta il compimento del progetto divino a cui ciascuna creatura è chiamata a partecipare[14];
– l’importanza del ruolo della madre nella condivisione del “primo segno”, mediante il suo intervento premuroso, permette di capire il posto di Maria nel processo della rivelazione del Figlio e la sua partecipazione diretta e condivisa all’ora stabilita dal Padre. È la madre a rilevare la mancanza del vino, preoccupandosi degli sposi e della festa (v. 3: “non hanno più vino”);
– un messaggio singolare che si ricava dal racconto giovanneo è costituito dalla positività e dalla gioia di vivere. Il simbolismo del vino ha per oggetto la gioia della vita e la sua dimensione “festiva”. Ogni autentica scelta di condivisione è un atto di amore e di fede verso la vita, coinvolgendo la totalità della persona in un progetto di amore gratuito. La sorgente della felicità è Cristo, a cui ciascun credente è chiamato ad affidare la propria esistenza secondo la volontà del Padre.
4. Credere “…Con tutto me stesso”
(Cfr. Gv 2,23- 3,21)
Un ulteriore passaggio è costituito dall’episodio di Nicodemo. Gv 2,23-3,21 si può articolare in due parti: vv. 3,2-3,9 in cui si descrive il colloquio di Gesù con Nicodemo; vv. 3,10-21: il monologo di Gesù[15]. I vv. 2,23-3,1 vanno considerati un’introduzione all’intero dialogo, illuminante per capire il punto di partenza del dialogo. Si accenna alla presenza di Gesù a Gerusalemme durante la festa di Pasqua, ai segni che egli compiva e si evidenzia come la fede dei giudei restava pur sempre imperfetta, basata sui miracoli e non sulla ricerca del mistero della persona di Cristo. Nicodemo si presenta come il prototipo del giudeo che rientra nella categoria di coloro che credono “per i segni”. Tale è l’affermazione enfatica del v. 2: “maestro, sappiamo…”: vi è la dichiarazione di un riconoscimento della missione di maestro e di profeta inviato da Dio, come conseguenza dei segni straordinari compiuti a Gerusalemme. L’indicazione della visita “di notte” ha una funzione simbolico-narrativa molto rilevante: mostrare lo sviluppo della rivelazione cristologica che porta il credente sotto l’azione dello Spirito dalla notte alla luce (Cfr. v. 1; v. 21). La vita in Cristo mediante la fede è operare la verità e venire alla luce. Seguono tre discorsi di rivelazione del Signore, preceduti da una solenne introduzione (“in verità, in verità ti dico”, Cfr. vv. 3; 5-8; 11-21), alternati da due incomprensioni di Nicodemo (Cfr. vv. 4; 9). Gesù mette in crisi il suo interlocutore evidenziando l’insufficienza di una fede esteriore e basata sui segni umani: la vita eterna e la visione (l’ingresso) del regno impongono una “rinascita” mediante una fede che “viene dall’alto”. La nuova nascita consiste in un radicale cammino di conversione che si compie per mezzo dello Spirito. L’interlocutore notturno si rende conto di tutta la forza dell’espressione usata da Gesù “dovete rinascere”: una nuova nascita, una nuova personalità e stupito chiede una spiegazione per quell’affermazione paradossale del Maestro. Gesù non rimprovera Nicodemo, ma comprende la sua meraviglia e completa la rivelazione precisando che la nuova nascita avviene dall’“acqua e dallo Spirito”, dove l’acqua indica il battesimo e lo Spirito il principio attivo della fede e della conoscenza religiosa salvifica in forza delle quali l’uomo, rigenerato nel battesimo, “vede il regno di Dio” e vi può entrare. Tale comprensione non può derivare dalla “carne”, cioè dal piano puramente naturale dell’uomo, ma dallo “Spirito” che rappresenta la prospettiva soprannaturale dell’uomo, “immagine di Dio”. La prima parte del brano si chiude con la perplessità del vecchio rabbino, che rimane scettico di fronte alle misteriose parole di Gesù. Nei vv. 10-21 è riportato uno dei discorsi di rivelazione più importante del IV vangelo: il Figlio dell’uomo è disceso dal cielo per rivelare al mondo il mistero salvifico di Dio, mediante il suo “innalzamento” (crocifissione), come fu per Mosè e il popolo il serpente nel deserto; il contenuto di questa rivelazione è l’amore estremo e totale del Padre che vuole salvare il mondo donando il suo unico Figlio; la salvezza donata implica la fede, che è la condizione per accogliere la luce e operare la verità. L’alternativa alla morte e alle tenebre è la fede nel Figlio unigenito, che rivela l’amore universale, gratuito ed eterno del Padre.
Prospettive teologiche
La lettura teologica del testo mette in luce la dimensione battesimale del messaggio giovanneo e il suo riferimento alla vita dei credenti:
– il dialogo notturno descritto in Gv 3 rivela una nuova visione della fede che mette in crisi il sistema tradizionale del tempo. La crisi nasce anzitutto dalla insufficienza di una “fede dei segni”, che produce nel lettore una legittima domanda sulla relazione tra il conoscere e il credere: è sufficiente per l’uomo fondare la propria fede sui segni? Gesù alluderà a tale problema in altre circostanze (Cfr. 4,48; 6,26)[16]. Cosa implica l’atto di credere per l’uomo? Una risposta ci viene dalle parole di Gesù: “rinascere dall’acqua e dallo Spirito”. Il dinamismo dell’entrare/vedere il regno di Dio conduce ad una “nuova nascita”, che corrisponde alla riscoperta del cammino battesimale. Non è sufficiente una fede basata sull’esteriorità dei segni e della legge mosaica: è necessario entrare in una diversa esperienza di vita, che è significata dal sacramento del Battesimo;
– il centro della rivelazione è dato dai vv. 16-17: l’amore del Padre nel dono esclusivo del Figlio. Gesù è l’unico rivelatore dell’amore del Padre per la salvezza dell’umanità, egli ne è il dono totale. L’atto di credere per ciascun uomo richiama il dinamismo esistenziale della conversione che orienta tutta l’esistenza verso la persona del Figlio unigenito (Cfr. 3,15), amore del Padre, e la proietta nel compimento del regno di Dio. L’esistenza umana, in virtù di questo dinamismo, diviene propriamente “esistenza teologale”, interamente coinvolta dalla luce e dalla verità di Dio[17]. La natura della fede cristiana appare articolata in diverse dimensioni[18]. Occorre necessariamente saper rileggere la storia provvidenziale della nostra vita alla luce della rivelazione di Dio. Il messaggio giovanneo spinge i credenti ad un ripensamento delle motivazioni della fede cristiana, affinché diventi sempre più costitutivo l’itinerario personale e libero che conduce all’incontro con Cristo, senza la prevalenza di fenomeni esteriori e formali;
– dalla sorgente della vita che è il Cristo, Nicodemo è chiamato a “riscoprire la fede” mediante l’esperienza battesimale e a ricevere una “vita nuova”. Il Battesimo costituisce quindi il momento culminante del processo di conversione. L’esperienza di Nicodemo può essere interpretata come appello alla vocazione del vecchio saggio, che è chiamato a ricominciare “con tutto se stesso”. Vivere da uomini spirituali implica una continua e costante tensione vocazionale, che produce nel credente una sempre nuova riscoperta del mistero e della volontà di Dio[19].
5. Donare “…Con tutto me stesso”
(Cfr. Gv 6,1-70)
L’itinerario vocazionale trova nel discorso giovanneo sul “pane di vita” una tappa di particolare importanza sia per la rivelazione cristologia che per le sue conseguenze nella vita cristiana. Gv 6 si articola in due momenti intimamente connessi tra di loro: i vv. 1-21 il segno della moltiplicazione dei pani e del ritorno di Gesù attraverso il lago; i vv. 22-71 il discorso eucaristico (Cfr. vv. 22-59) e la reazione dei presenti con il dialogo di Simon Pietro (Cfr. vv. 60-71). Occorre notare alcuni elementi simbolici del racconto: una grande folla segue Gesù per i segni che egli compiva sui malati; il contesto è quello della festa di Pasqua ormai vicina; il dialogo tra Gesù e Filippo; la descrizione del miracolo mediante i gesti “eucaristici” descritti dall’evangelista (si osserva l’importanza simbolica dei verbi: far sedere, rendere grazie, distribuire, radunare). La reazione al “segno” dei pani fa esultare la gente in un’esclamazione di fede: “questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!” (v. 14). Gesù si ritira sulla montagna a pregare mentre i suoi discepoli, venuta la sera decidono di attraversare il lago in direzione di Cafarnao. La seconda esperienza miracolosa si presenta ai discepoli nel lago (Cfr. vv. 16-21): Gesù cammina sulle acque e si avvicina alla barca che era in difficoltà per il forte vento. Alla paura dei discepoli si contrappone la rassicurazione di Gesù e delle sue parole: “Io sono, non temete!”, espressione rivelativa che richiama l’autorità del nome divino (Cfr. Es 3,14) e ne simboleggia il potere cosmico sugli elementi della natura (camminare sul mare, placare la furia del vento, ecc.).
La seconda parte è formata dal discorso sul “pane di vita”. L’articolazione del testo è chiara[20]: vv. 22-27: l’annuncio di un cibo che non perisce e la richiesta di una fede completa; vv. 28-40: Gesù parla di sé come “pane disceso dal cielo” e ribadisce l’importanza della fede in lui come l’unica “opera” richiesta per la salvezza; vv. 41-51: di fronte all’incredulità dei giudei si rinnova l’invito a credere, superando l’idea di un cibo materiale (il nutrimento della manna nel deserto) e proponendo se stesso come “pane di Dio che discende dal cielo” donato dal Padre. Gesù si presenta nuovamente come “pane della vita” ed afferma che il “pane della vita eterna” è la sua carne; vv. 52-59: di fronte all’incredulità e alla protesta dei giudei, il Signore ribadisce che la sua carne e il suo sangue sono dati in cibo per la vita del mondo. Il messaggio eucaristico raggiunge qui il suo culmine. Infine nei vv. 60-71 si descrive la reazione sdegnata di alcuni discepoli di fronte a quelle parole e il dialogo diretto con i Dodici, di cui Simon Pietro diviene il portavoce: “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (v. 68-69). L’importanza del discorso eucaristico di Cafarnao evidenzia alcuni elementi teologici centrali per la nostra analisi: il rapporto tra sacramento dell’Eucaristia e mistero dell’incarnazione del Logos. L’uso dell’espressione mangiare la carne e bere il sangue del Figlio dell’uomo esprimono il realismo della comunione sacramentale con il Verbo incarnato; l’Eucaristia si collega con il mistero pasquale e rievoca il sacrificio redentore del Cristo sulla croce “per la vita del mondo”. L’itinerario giovanneo è segnato da una direttrice che parte dal Prologo (Cfr. 1,14) e raggiunge nel discorso eucaristico il suo culmine (Cfr. 6,33-35). Il “discendere del Figlio nel mondo” inizia con il mistero dell’incarnazione e si rivela compiutamente nell’Eucaristia, che in IV vangelo anticipa e preannunzia la glorificazione pasquale[21].
Prospettive teologiche
La lettura del testo evidenzia alcuni contenuti costitutivi dell’esperienza cristiana, in modo particolare relativi al mistero eucaristico. Ne evidenziamo alcuni più rilevanti:
– un primo aspetto è il passaggio dal “segno” alla persona (Cfr. Gv 6,36). Il racconto della moltiplicazione dei pani mostra la preoccupazione di Gesù di dare una risposta concreta alla “fame” del popolo. La sua preoccupazione evidenzia ancora di più la condivisione dei bisogni e della realtà umana, mediante il mistero dell’incarnazione. Il “pane quotidiano”, esigenza rilevata nella stessa preghiera al Padre (Cfr. Mt 6,11) è donato dal Cristo stesso che oltrepassa il solo bisogno umano del cibo “che perisce” e intende donare il “cibo per la vita eterna” (Cfr. Gv 6,27). Il Verbo incarnato, presentandosi come “pane” della vita evidenzia la dimensione escatologica del suo messaggio: Egli è colui che rivela all’uomo la sua definitiva destinazione, manifestando e comunicando la volontà del Padre;
– nel racconto del miracolo è un ragazzo a consegnare i cinque pani e i due pesciolini, tutto quanto egli possedeva. Così Gesù per sfamare la folla ha voluto servirsi della povertà dell’uomo per voler significare l’importanza della collaborazione umana all’opera di Dio nella storia della salvezza[22]. L’Eucaristia chiede la condivisione del “poco” dell’uomo con il “tutto” di Dio. Nel verbo “donare” si esplica lo stile dell’esistenza filiale di Cristo: essere dono per l’umanità e nello stesso tempo “diventare dono” (Cfr. Mc 6,37: “date loro voi stessi da mangiare”)[23];
– nel discorso di Cafarnao si aggiunge un ulteriore aspetto: Dio si fa dono eucaristico per ottenere all’umanità la vita eterna. Egli è fonte della vita e del nutrimento mediante la sua carne e il suo sangue (Cfr. Gv 6,53). Si nota la centralità del verbo donare (Cfr. Gv 6,27) che colloca la manifestazione del Figlio dell’uomo in una prospettiva futura della sua Pasqua, cioè il “dono totale di se stesso” per la salvezza dell’umanità. La funzione del pane celeste è quella di donare la vita: la salvezza piena e la felicità che l’uomo ricerca derivano dalla fede nel Verbo incarnato (Cfr. Gv 6,35). La vita eterna ha una duplice sorgente: il dono del pane celeste (elemento oggettivo) e l’accoglienza mediante la fede personale e comunitaria (elemento soggettivo)[24]. Si ripropone in modo primario il tema della morte e della contrapposizione tra vita e morte. La tematica è sviluppata mediante le antitesi morire/vivere (Cfr. Gv 6,49-51.58), cibo perituro/cibo per la vita eterna (Cfr. Gv 6,26s.), perdizione eterna/risurrezione nell’ultimo giorno (Cfr. Gv 6,39s.);
– l’esperienza cristiana, in quanto esperienza eucaristica, si traduce nel dono totale di sé a Dio e ai fratelli. Come il segreto della vita trova la sua origine nell’incarnazione del Figlio, così la sussistenza del credente trova la sua unica fonte nell’Eucaristia. Donare implica il “donarsi”, consegnarsi nella mani del Padre. La preghiera diventa espressione di tale donazione, sull’esempio del Figlio di Dio. Il Sacramento dell’Eucaristia assume un’eminente valenza progettuale. Vivere l’Eucaristia si traduce quotidianamente nella decisione di “donare” con tutto me stesso la vita a Dio e ai fratelli[25].
6. Riconoscere “…Con tutto me stesso”
(Cfr. Gv 9,1-41)
La singolarità dell’itinerario giovanneo trova nella narrazione della guarigione del cieco nato (Cfr. Gv 9) un’ulteriore rivelazione cristologia a cui corrisponde un forte messaggio vocazionale. La dinamica narrativa di Gv 9 si compone dei seguenti momenti: l’incontro tra Gesù e il cieco nato e la guarigione del cieco (vv. 1-7); la discussione tra i vicini e i conoscenti del miracolato (vv. 8-12); seguono tre interrogatori: i farisei interrogano il cieco sanato (vv. 13-17); i giudei interrogano i genitori (vv. 18-23) e di nuovo l’uomo risanato (vv. 24-34). Il testo si conclude descrivendo il secondo incontro con Gesù, la risposta di fede dell’uomo risanato che diviene discepolo di Gesù e l’ammonizione ai farisei (vv. 35-41)[26]. È utile osservare la rotazione narrativa dei protagonisti intorno a Gesù: nel passo iniziale è Gesù che discute con i suoi discepoli (vv. 1-7), segue il cieco guarito e la folla (vv. 8-12); dal v. 13 appaiono i farisei che interrogano sia il cieco che i suoi genitori (vv. 13-34); infine si descrive l’incontro determinante tra Gesù e il cieco e la condanna dei farisei (vv. 35-41).
Il racconto propone simbolicamente la dinamica della ricerca e del riconoscimento dell’opera di Dio mediante un discernimento graduale dei personaggi (cieco, genitori, folla, lettore). Il percorso concettuale diventa un vero e proprio atto giudiziale: esso inizia con la considerazione giuridica del peccato secondo l’idea del principio legalistico, si esplica nella serie di interrogatori e nel giudizio di illiceità del segno compiuto da Gesù e si conclude con la centralità dell’atto di fede e del riconoscimento del Cristo “luce del mondo”[27]. La simbologia del segno evidenzia ulteriori temi: l’azione del Cristo con la saliva e il fango, (Cfr. l’uso della saliva in Mc 7,33; 8,23) sottolineata dall’evangelista ben quattro volte indica, secondo la casistica ebraica, un’azione proibita nei giorni festivi: Gesù compie un atto che contrasta la legge del riposo sabbatico. Dagli interrogatori è possibile constatare come la deposizione del cieco guarito sia semplice e lineare, a differenza dei suoi giudici che di fronte al fatto incontestabile della sua guarigione si dividono e giudicano “peccatore” il Cristo per aver violato il sabato. Dapprima per il cieco Gesù era solo un uomo straordinario, ma dopo essere stato rinnegato dai genitori paurosi e cacciato dalla sinagoga, il cieco guarito diventa discepolo ed insinua la domanda del discepolato anche tra i farisei (Cfr. Gv 9,27). Il mendicante guarito, con la sua graduale apertura alla luce, confessa solennemente la sua fede nell’origine divina del Maestro che gli ha aperto gli occhi. Non solo egli “conosce” perché inizia a vedere, ma vi è un secondo passo decisivo: egli “riconosce” perché inizia a credere (Cfr. Gv 9,38). Cristo luce del mondo illumina l’uomo nel suo peccato e lo redime. Il messaggio ha una stretta relazione con Gv 3 e il relativo tema del battesimo. Battesimo e riconciliazione, acqua e luce indicano la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del peccato e l’esperienza dell’esodo pasquale. In questa prospettiva si comprende l’appello a donare tutto se stesso per compiere il cammino della conversione e della riconciliazione[28].
Prospettive teologiche
L’analisi del brano permette di cogliere alcuni contenuti nella prospettiva della riflessione teologica:
– la contrapposizione tra fede ed incredulità. La fede consiste in un processo di illuminazione che nasce dal cuore dell’uomo, mentre l’incredulità fotografa la situazione di “cecità” e di tenebrosità in cui giace l’essere umano che non accoglie la luce. Il brano giovanneo mostra attraverso il suo dinamismo interno l’ostinazione dei farisei, i quali si ritenevano veggenti e guide del popolo di Dio, pur vivendo nelle tenebre dell’incredulità. Ora questa cecità non è riservata ai soli farisei, essa si estende all’uomo di ogni tempo accecato da mode e false sapienze, incapace di schiudersi di fronte al mistero di Dio;
– la questione del senso della sofferenza e della malattia[29]. Gesù non offre una soluzione definitiva alla domanda dei suoi discepoli, ma indica una strada nuova: nella vita di ogni singolo uomo si realizza la manifestazione dell’opera di Dio. Ogni tentativo di giustificare in prospettiva legalistica la realtà della malattia e della sofferenza risulta insufficiente. La vicenda del cieco risanato può essere interpretata anche sotto l’aspetto della ricerca di identità. Il segno della vista implica un bisogno di identità, invocato da tutti gli attori della scena: i discepoli, la folla, i genitori, i farisei. L’uomo risanato diventa così prototipo di un processo di ricerca e di riconoscimento della propria identità ritrovata, che non si ferma alla salute fisica, ma si colloca nell’orizzonte della fede cristologia;
– la categoria di peccato/peccatore. Il racconto di Gv 9 collega l’immagine della cecità con il tema del peccato (amartia) e della rivelazione di Dio[30]. La domanda sul senso del peccato collegato alla cecità trova nella storia di fede dell’uomo risanato una risposta: è Gesù che libera l’uomo dal peccato e lo rende alla vita piena e luminosa, mentre la legge rimane inefficace per la salvezza dell’uomo e si trasforma in strumento di accusa e di condanna per i farisei. L’uomo risanato diventa a sua volta discepolo e annuncia con coraggio il “vangelo della luce” ai farisei. Il suo incontro con Cristo è stata un’esperienza “vocazionale” irripetibile e trasformante. Dalla cecità alla vista, dall’ignoranza alla conoscenza, dalla mendicità al discepolato: ecco la manifestazione dell’opera di Dio.
– Essere chiamati a “vivere con tutto se stessi” l’incontro con Cristo richiede un impegno a conoscersi e a lasciarsi illuminare dalla Luce di Dio. Per i credenti si tratta di un forte appello alla responsabilità del discernimento e della verità, necessario soprattutto nel contesto problematico della realtà odierna della comunicazione. Il riferimento al sacramento della riconciliazione, sempre più necessario per il cammino di ricerca e di accompagnamento, richiede da parte di ciascuno una presa di coscienza del superamento di concezioni legalistiche e dell’assunzione responsabile dell’impegno di riscoprire e di saper vivere l’incontro con il Dio misericordioso che illumina la vita e la strada degli uomini.
7. Servire “…Con tutto me stesso”
(Cfr. Gv 15, 1-17)
Il nostro percorso è segnato dall’icona della “vite e i tralci”, che rende visibile il senso della risposta del credente “con tutto se stesso” all’amore di Dio. Il brano giovanneo è considerato come “testo programmatico” del cammino di fede e punto di arrivo dell’esperienza cristiana. La pericope di Gv 15,1-17 è costituita di due unità collegate: vv. 1-11: l’allegoria della vite e i tralci; vv.12-17: il comandamento dell’amore reciproco[31]. Un primo aspetto da considerare è il singolare uso cristologico dell’immagine agricola della vite e i tralci e il suo possibile sfondo veterotestamentario[32]. È rilevante constatare come la vite/vigna non indica il popolo di Israele, bensì Gesù stesso. Egli è la vera e intera vite; i tralci (i credenti) sono parte della sua stessa persona[33]. Occorre considerare come questa immagine esprima la ricchezza del messaggio teologico: “rimanere” in Gesù come un tralcio rimane innestato alla vite è espressione della piena e totale unione dei credenti con la persona del Cristo. In questo senso si può interpretare l’allegoria in chiave comunitaria: nell’Antico Testamento la vite/vigna rappresentava il popolo eletto, nel quarto vangelo la vite in quanto simbolo di Gesù e dei credenti indica il nuovo popolo di Dio, che possiede come nuova legge l’amore vicendevole[34]. Questo procedimento di identificazione è caratteristico dell’evangelista Giovanni. Gesù è Logos incarnato, l’agnello di Dio, la fonte di acqua viva, il pane disceso dal cielo che dà vita, la luce del mondo. Le metafore emerse dall’analisi dei brani hanno indicato sempre delle azioni esterne: seguire l’agnello, bere e immergersi nell’acqua, mangiare il pane per avere la vita. Nel discorso finale di Gv 15,1-17 il simbolismo cristologico assume un’intimità unica: “con tutto se stesso” il discepolo è chiamato a “rimanere” in piena comunione con il Figlio di Dio, cioè amare e ricevere l’amore (agapê) proprio di Dio[35]. La configurazione completa e totale dell’amore che è “linfa vitale” rivela una singolare connessione con il dono eucaristico.
L’appello al discepolato e la dimensione eucaristica dell’intima unione dei credenti con Cristo permette di collegare il messaggio giovanneo al sacramento dell’Ordine e al tema del servizio, che riecheggia nell’intera sezione di Gv 13-17[36]. Il discepolo è servo dell’amore (e quindi “amico”) che rimane unito vitalmente a Cristo, divenendo conforme alla sua persona e realizzando la sua missione nel mondo. L’invito a rimanere (il verbo è ripetuto nella pericope 10 volte) uniti a Cristo-vite implica la risposta vocazionale totale e decisiva del discepolato (Cfr. 15,8). La scena è dominata dalla figura di Gesù che rimanda da una parte al suo rapporto con il Padre e dall’altra alla relazione con i discepoli. Entrambe le relazioni sono espresse mediante il lessico dell’amore e dell’amicizia, che in questo brano trova la sua massima concentrazione[37]. Il verbo rimanere qualifica sia il rapporto di comunione tra Gesù e si suoi discepoli, sia quello di Gesù con il Padre. Per capire la profondità dell’unione espressa con il verbo rimanere, occorre precisare il significato della formula “portare frutto”; essa corrisponde all’inserimento vitale in Gesù che si esprime con l’affermazione della mutua appartenenza (Cfr. 15,4a. 5b).
Prospettive teologiche
La ricchezza della pagina evangelica ci aiuta ad individuare alcuni aspetti più rilevanti:
– Gv 15 esprime un triplice messaggio: l’unione intima e totale, l’amore vicendevole e gratuito e la fecondità fruttuosa nel vero servizio di Dio nel discepolato. Quanti sono innestati a Cristo, partecipano dell’amore trinitario e divengono necessariamente suoi amici, a differenza di chi rimane sterile e viene meno alla comunione con Gesù, con il risultato di essere tagliato fuori, senza possibilità di realizzare alcun progetto di felicità futura. Il modello dell’amore è nella relazione intima tra Gesù e il Padre. Si tratta di un amore oblativo e filiale, che rende amici e dona libertà, rivelando la grandezza della paternità di Dio. Dalla sovrabbondanza dell’amore trinitario nasce la vocazione e la missione (Gv 15,15-16) e si comprende l’efficacia della preghiera apostolica. Nell’amore esclusivo dell’apostolo si compie la risposta totale della vocazione, che diventa glorificazione, fecondità e servizio per Dio e i fratelli[38].
– La natura dell’amore cristologico[39]. A colui che ha amato per primo, l’uomo è chiamato a dare una risposta di amore. L’appello di Gesù in Mt 22,37-40 risuona come il motivo centrale e dominante del messaggio biblico: amare con tutto se stessi, coinvolgersi nell’esperienza dell’amore unico ed irripetibile del Padre, sentire la scelta di amare come progetto pienamente umano proiettato nel mistero trinitario. Il brano giovanneo induce alla scoperta di una necessità vincolante e vitale: essere uniti al Figlio, come il Figlio rimane unito al Padre. L’amore divino sta al cuore della vita umana e cosmica e costituisce la possibilità unica e inderogabile di essere pienamente se stessi e di riconoscersi autenticamente fratelli. L’alternativa all’amore cristologico è il vuoto esistenziale e il rifiuto dello stile di comunione produce l’egoismo e il vuoto esistenziale. Nessun uomo potrà vivere senza amare, né trovare se stesso senza sentirsi amato per primo da Dio (Cfr. 1Gv 3,14).
8. Glorificare “…Con tutto me stesso”
(Cfr. Gv 19, 17-37)
Dopo aver riportato il discorso di addio di Gesù (Cfr. Gv 13-17), l’evangelista Giovanni descrive gli avvenimenti della passione riallacciandosi ai vangeli sinottici, i cui particolari coincidono con le descrizioni degli altri vangeli. Il racconto giovanneo è interpretato alla luce dell’intera visione teologica della “glorificazione”, tema costitutivo dell’intera missione di Cristo. Gv 18-19 presenta le seguenti unità tematiche[40]: Gv 18,1-11: Gesù si consegna ai Giudei; vv. 12-27: il processo davanti ai capi giudei; Gv 18,28-19,16: il processo davanti a Ponzio Pilato; vv. 17-37: la crocifissione e la morte; vv. 38-42: la sepoltura. A ben vedere la pericope di Gv 19,17-37 costituisce il vertice della narrazione della passione: Gesù va al Golgota portando la croce, viene crocifisso in mezzo ad altri due condannati; sulla croce del Cristo viene posta una scritta recante il motivo della condanna; i crocifissori si dividono le vesti; al Calvario sono presenti alcune donne, tra cui Maria Maddalena e l’altra Maria; Gesù viene abbeverato di aceto prima di spirare. Spiccano nel racconto giovanneo alcune caratteristiche: la contestazione della motivazione della condanna da parte di capi giudei (vv. 20-22); la scena del sorteggio della tunica senza cuciture (v. 23); la presenza della madre e del discepolo prediletto ai piedi della croce (vv. 25-27); l’espressione tutto è compiuto e la consegna dello Spirito (paredoken to pneuma); il tema del costato trafitto (presentazione di Cristo come agnello immolato) da cui sgorga sangue ed acqua (vv.31-37)[41].
La scena della maternità spirituale di Maria (Cfr. Gv 19,25-27) è senz’altro il momento culminante della glorificazione del Figlio: le parole di Gesù dall’alto della croce costituiscono il testamento spirituale per i tutti i credenti. Maria chiamata donna, viene proclamata dal Figlio “madre della chiesa”, di cui Giovanni è simbolo[42]. La presenza dei due termini donna e ora accostano l’episodio della croce con quello delle nozze di Cana e permettono di interpretare l’intera missione di Gesù in un graduale processo di “rivelazione” della sua persona e del progetto del Padre. La scena della morte di Gesù è incentrata sul compimento perfetto della Scrittura. La modalità della morte sottolinea come il Cristo ha realizzato il compimento delle Scritture mettendosi fino in fondo nella volontà di Dio. Per ultimo, dopo la morte nei sinottici vengono descritti fenomeni straordinari (lo squarcio del velo del tempio, il terremoto, la risurrezione dei morti, ecc.), mentre in Giovanni viene riportata l’immagine dell’agnello immolato, a cui non è stato rotto alcun osso (v. 36), ma viene trafitto nel costato, da cui sgorga sangue ed acqua. La pericope si conclude con l’attestazione del testimone (v. 35-37) che interpreta l’accaduto citando due brani della scrittura (Es 12,46; Sal 34,21; Zc 12,10): Gesù morto sulla croce è l’agnello dell’olocausto e diventa il “trafitto” verso cui tutti volgeranno lo sguardo per ottenere la salvezza.
Prospettive teologiche
Il percorso compiuto ha consentito di vedere come l’evangelista Giovanni legge i fatti storici ad un livello profondo, elaborando un’originale cristologia ed ecclesiologia. Tutta la vita del Figlio è presentata alla luce dell’ora che si compie nella glorificazione della croce. L’interpretazione spirituale della passione fa emergere la regalità di Gesù, intorno al quale ruotano tutti i personaggi: i discepoli, i giudei, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla, le donne. Il valore teologico della passione dà senso all’intero cammino giovanneo e costituisce la chiave di lettura della missione del Figlio nel mondo. Gesù crocifisso diventa il rivelatore perfetto del Padre e dalla croce dona lo Spirito alla Chiesa. L’icona della passione evidenzia la prospettiva trinitaria come orizzonte della rivelazione di Cristo: il Figlio crocifisso è l’amato, l’amante è il Padre onnipotente, l’amore è lo Spirito datore di vita[43]. La narrazione altamente drammatica evidenzia la dimensione “pasquale” del sacrificio di Gesù. La morte in croce rappresenta l’immolazione dell’agnello pasquale, a cui si sostituisce in modo unico ed irripetibile la persona del Figlio. Egli fu immolato rispettando il rito dell’uccisione dell’agnello pasquale, al quale non doveva essere rotto alcun osso. Così si può collegare l’esordio del vangelo, che si apre con l’affermazione del Battista: “Ecco l’Agnello di Dio” (Gv 1,29.36) e l’epilogo della narrazione, dove il Cristo muore proprio come “agnello immolato”.
Il compimento della missione, che realizza la Scrittura, è compimento di amore, dono totale del Figlio al Padre, amore perfetto consumato per la salvezza dell’umanità. Un ulteriore aspetto è costituito dalla nascita della Chiesa in Gv 19,25-27, poi ripreso in Gv 20-21. Coloro che hanno seguito il maestro fino al Calvario hanno costituito la famiglia di Gesù, il gruppo dei suoi discepoli. A questa comunità rappresentata ai piedi della croce da Maria e da Giovanni Gesù morente “consegna lo Spirito” (Cfr. Gv 19,30), che crea e vivifica la famiglia di Cristo. Si comprende il ruolo della maternità di Maria in questa grande prospettiva ecclesiologica. La Vergine è stata pienamente inserita nel progetto della salvezza, partecipe dell’ora del Figlio. Lei è la “donna”, oggetto degli oracoli profetici nei quali Sion è presentata come la donna feconda, madre del popolo di Dio (Cfr. Is 26,17ss.; 49,18ss.; 54,1ss.; 60,1ss.; 66,7s.; Bar 4,36s.; Tb 13,12s.). Nell’espressione “ecco tuo figlio” Gesù intende dichiarare Maria, madre della Chiesa. Nell’ora del Figlio, scocca l’ora della “madre”.
I racconti pasquali evidenziano in Giovanni la nascita della Chiesa e l’azione dello Spirito, mostrando la centralità della missione di Cristo, unico rivelatore del Padre e mediatore della salvezza. L’esistenza del Figlio, rivolto vero il Padre dall’eternità e spesa nel “dono totale di sé”, deve essere riletta come “appello” di conversione e “scelta” di fedeltà. Il vangelo giovanneo rivela ad ogni uomo chiamato alla vita e alla realizzazione del suo progetto la necessità di “amare con tutto se stesso” Colui che ci ha amati per primo ed ha mandato nel mondo il Figlio unigenito per realizzare l’amore. Uniti a Lui, come tralci alla vite, siamo chiamati ad essere protagonisti nel presente dell’amore divino “con tutto noi stessi”, perché si compia l’opera di Dio e sia glorificato il suo nome.
Conclusione
L’itinerario giovanneo ci ha permesso di entrare nel cuore del messaggio vocazionale, richiamando gli elementi fondamentali dell’esistenza cristiana. La vita spirituale diventa proposta di un cammino circolare che può essere vissuto a partire dai verbi da coniugare nel nostro presente: vivere, testimoniare, condividere, credere, donare, riconoscere, servire, glorificare. L’esaltazione di Cristo è apparizione della misericordia e della solidarietà di Dio per l’uomo. Dall’incarnazione alla glorificazione siamo chiamati a rispondere “con tutto noi stessi” all’appello di Dio. L’icona della “corsa verso la tomba vuota” (Cfr. Gv 20, 1-12) che vede come protagonisti Pietro e Giovanni, la fede e la carità, deve illuminare la nostra ricerca del progetto di Dio, partendo dalla mistero pasquale. Aderire nella fede all’amore Dio ed essere “servo” della felicità del prossimo, vivere la fede nella carità. Il tempo giubilare è appello a questo compimento nell’amore totale e perfetto.
Note
[1] Cfr. DE LA POTTERIE I., Studi di cristologia giovannea, Torino 1986, 31-57.
[2] Cfr. PANIMOLLE S. A., Lettura pastorale del vangelo di Giovanni, I, Bologna 1978, 56-80.
[3] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Incarnationis Misterium, Roma 1998, 3.
[4] Appare rilevante la conseguenza che il tema dell’incarnazione ha prodotto nella prospettiva dell’azione pastorale, così come viene espresso nel documento: CEI, Il Rinnovamento della Catechesi, Roma 1970: “Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio. È questa, del resto, esigenza estrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della rivelazione, infatti, è il Dio con noi, il Dio che chiama, che salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata a irrompere nella storia, per rivelare ad ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla” (n. 77); Cfr. TONELLI R., Incarnazione, in MIDALI M. – TONELLI R. (ed.), Dizionario di pastorale giovanile, Leumann 1989, 450-460.
[5] Cfr. GS, 22.
[6] Cfr. PANIMOLLE S. A., Lettura pastorale del vangelo di Giovanni, I, 166-168.
[7] Cfr. BOISMARD M. E., Agnello di Dio, in LÉON DUFOUR X. (ed.), Dizionario di teologia biblica, Torino 1976, 23-25.
[8] Per uno sviluppo biblico della categoria della testimonianza, Cfr. PRAT M. – GRELOT P., Testimonianza, in LÉON DUFOUR X. (ed.), Dizionario di teologia biblica, 1286-1290.
[9] Cfr. CEI, Venite e vedrete. Il catechismo dei giovani/2, Roma 1997, 14-35.
[10] Cfr. CEI, La verità vi farà liberi. Catechismo degli adulti, Roma 1995, n. 568; GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris Missio, 23.
[11] Cfr. l’ampia recente trattazione di Gv 2,1-11 in Theotokos 2(1999).
[12] Cfr. SESBOUÉ D., Vino, in LÉON DUFOUR X. (ed.), Dizionario di teologia biblica, 1371-1374.
[13] Cfr. IRENEO DI LIONE, Adv. Haer. III, 16.
[14] Cfr. GALOPIN P. M., Pasto, in LÉON DUFOUR X. (ed.), Dizionario di teologia biblica, 862-866; DE VIRGILIO G., Il banchetto: solidarietà e festa. Riflessioni e orientamenti per la catechesi, in Catechesi 4 (1990), 46-54.
[15] Cfr. DE LA POTTERIE I. – LYONNET S. (ed.), La vita secondo lo Spirito condizione del cristiano, Roma 1971, 35-74.
[16] Cfr. PANIMOLLE S. A., Lettura pastorale del vangelo di Giovanni, I, 294-308.
[17] Cfr. MOLARI C., Fede, in MIDALI M. – TONELLI R. (ed.), Dizionario di pastorale giovanile, Leumann 1989, 347-351.
[18] Cfr. DUPLACY J., Fede, in LÉON DUFOUR X. (ed.), Dizionario di teologia biblica, 379-391.
[19] Cfr. DE PIERI S., Vocazione, in MIDALI M. – TONELLI R. (ed.), Dizionario di pastorale giovanile, 1136-1144.
[20] Per la discussione sulla divisione del testo, Cfr. l’utile rassegna in PANIMOLLE S. A., Lettura pastorale del vangelo di Giovanni, II, 187-195.
[21] Cfr. CROCETTI G., Questo è il mio corpo e lo offro per voi. La donazione esistenziale e sacramentale di Gesù alla sua Chiesa (SB 34), Dehoniane, Bologna 1999.
[22] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Incarnationis Misterium, 7-11.
[23] Cfr. CEI, Io ho scelto voi. Il catechismo dei giovani/1, 134-138; 148-155; Venite e vedrete. Il catechismo dei giovani/2, 153-156; 256-260; La verità vi farà liberi. Catechismo degli adulti, 684-699.
[24] Cfr. PANIMOLLE S.A., Lettura pastorale del vangelo di Giovanni, II, 209-210; LÉON-DUFOUR X., Condividere il pane eucaristico secondo il Nuovo Testamento, Leumann 1983, 39-54.
[25] Cfr. SC, 48; LG, 26; UR, 15; PO, 6.
[26] Cfr. FABRIS R., Giovanni, Roma 1992, 545-550.
[27] Cfr. PANIMOLLE S.A., Lettura pastorale del vangelo di Giovanni, II, 416-423.
[28] Cfr. MOSETTO F., Esegesi agostiniana in Gv 9, in ParVit 29 (1984), 473-480.
[29] Cfr. GIBLET J. – GRELOT P., Malattia-guarigione, in LÉON DUFOUR X. (ed.), Dizionario di teologia biblica, 630-635.
[30] Cfr. LYONNET S., Peccato, in LÉON DUFOUR X. (ed.), Dizionario di teologia biblica, 877-892; CEI, Venite e vedrete. Il catechismo dei giovani/2, 261-268.
[31] Cfr. FABRIS R., Giovanni, 806-813.
[32] Nell’Antico Testamento la vigna è un simbolo frequente di Israele, presentata come segno di fecondità (Cfr. Is 27,2-6) o più frequentemente come elemento di sterilità e di giudizio (Cfr. Ger 5,10; 12,10-11). L’immagine della vite viene evocata per l’antico Israele sia dai profeti (Cfr. Os 10,1; 14,8; Ger 6,9; Ez 15,1-6; 17,5-10; 19,10-14) che nel Salterio (Cfr. Sal 80,9ss.; Cfr. anche Sir 24,17). Nei testi evangelici Gesù attinge al simbolismo biblico della vigna in diverse parabole, contesti di predicazione e semplici detti (Cfr. Mc 12,1-11; Mt 20,1-16; 21,28-32; Lc 13,6-9). Un ulteriore contatto può essere visto nel tema del vino, attraverso il simbolismo messianico ad esso collegato (Cfr. Gv 2,1-12); Cfr. LACAN M. F., Vite-vigna, in LÉON DUFOUR X. (ed.), Dizionario di teologia biblica, 1393-1395.
[33] È stato fatto notare come la metafora giovannea della vite e dei tralci trova una sua espressione equivalente nella nozione paolina di corpo e membra applicata a Cristo e ai credenti, Cfr. BROWN R. E., Giovanni, Cittadella, Assisi 1979, 809.
[34] Cfr. BROWN R. E., Giovanni, 807-811.
[35] Cfr. MAGGIONI B., Amatevi come io vi ho amato, in PSV 1(1985), 158-167; DE LA POTTERIE I., L’uso di “rimanere in” nella mistica giovannea, in PSV 2(1994), 121-136.
[36] Cfr. CEI, Io ho scelto voi. Il catechismo dei giovani/1, 83-86; 257. 273-282; Venite e vedrete. Il catechismo dei giovani/2, 346-347; La verità vi farà liberi. Catechismo degli adulti, 1050; 1080-1084; Catechismo della Chiesa Cattolica, 1551-1553; LG, 24.
[37] Amare (agapaô) è ripetuto cinque volte; amore (agapê) quattro volte; amare amichevole (phileô) una volta; amico (philos) tre volte.
[38] Cfr. DE LA POTTERIE I., Dio è amore (1Gv 4,8.16), in PSV 10(1984), 187-204; MAGGIONI B., Amatevi come io vi ho amato, 163-167.
[39] Cfr. CERETI G., Amore, in MIDALI M. – TONELLI R. (ed.), Dizionario di pastorale giovanile, 43-54.
[40] Cfr. SCHNACKENBURG R., Il vangelo secondo Giovanni, III, Brescia 1981, 356-433.
[41] Cfr. PANIMOLLE S. A., Lettura pastorale del vangelo di Giovanni, III, 389-392.
[42] Cfr. SERRA A., Maria a Cana e presso la croce, Roma 1978, 79-127; DE LA POTTERIE I., Studi di cristologia giovannea, 160-166.
[43] Cfr. DE LA POTTERIE I., Studi di cristologia giovannea, 167-190.