N.05
Settembre/Ottobre 1999

Il Giubileo nella storia tra memoria e profezia

La storia mostra con quanto trasporto il Popolo di Dio abbia sempre vissuto gli Anni Santi… Una lunga storia di santità potrebbe essere descritta proprio a partire dalla pratica del Giubileo e dai frutti di conversione che la grazia del perdono ha prodotto in tanti credenti (I.M. 5). Il “pellegrinaggio”, che è all’origine di questa tradizione, pur segnato da “abusi e incomprensioni” (ivi), ha suscitato ed espresso radicali scelte della vita per un cammino senza ritorni, nel dono totale di sé a Dio ed ai fratelli. Anche perché, tra le righe di questa storia, scritta dagli eroi della santità, c’è l’anonimato di quanti, terminato il Giubileo, si sono messi in cammino. Avendo già celebrati diversi Anni Santi, posso far memoria di vocazioni sacerdotali, religiose, laicali, maturate dall’interno di un giubileo della Chiesa: e non per pura coincidenza. Lo fu anche per me, personalmente, il Giubileo del 1933, esteso alle chiese particolari nell’anno successivo, quando lo celebrammo con un pellegrinaggio “simbolico”, attraverso il quale mi raggiunse l’invito per l’altro più reale del “vieni e seguimi!”.

 

Il Giubileo, risposta alla chiamata dello Spirito

Promulgando quello del 1975, Paolo VI rievocò le tappe storiche dei pellegrinaggi[1] e, rilevandone il valore “di segni e di mezzi”[2], ne ripropose il vero significato di “risposta alla chiamata dello Spirito, in maniera personale”[3], per condividere la vita e la missione della Chiesa, comunità dei chiamati, sulla quale ha fatto piena luce la dottrina del Vaticano II. Nel darne il primo annunzio (9 maggio 1973), confidò di essersi domandato “se una simile tradizione merita d’essere mantenuta nel tempo nostro, tanto diverso dai tempi passati” e di essere convinto che prende più urgente motivazione proprio da quello “sforzo amoroso e indefesso” che la Chiesa del Vaticano II “rivolge ai bisogni della nostra età, all’interpretazione delle sue profonde aspirazioni”.

Il pontificato di Giovanni Paolo II ha approfondito e sviluppato con sapienza e passione questa ecclesiologia, interpretando il Concilio Vaticano II come l’inizio della “preparazione prossima al Giubileo del secondo millennio…: un Concilio concentrato sul mistero di Cristo e della sua Chiesa ed insieme aperto al mondo”[4].

Chiesa tutta del Cristo di sempre e tutta per l’uomo di oggi. “Gesù Cristo è la via principale della Chiesa” e l’uomo “è la prima e fondamentale via della Chiesa”[5], che “si fa serva degli uomini…: con questi cammina e vive, realmente e intimamente solidale con la loro storia”[6]. Fin dall’inizio della Sua missione, Giovanni Paolo II ci chiese di volerci “Chiesa” così: “Aiutate il Papa e quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera” (22 ottobre 1978). In quel “grido appassionato”[7] c’era il cuore della Chiesa, che, attraverso la voce dei padri conciliari del Vaticano II, dichiarò di non avere “nessuna ambizione terrena”, ma, animata “di solidarietà, di rispetto e di amore verso l’intera famiglia umana”, vuole “mettere a disposizione degli uomini le energie di salvezza che riceve dal Suo Fondatore”, in vista di un duplice servizio: “salvare l’uomo” e “edificare l’umana società”[8]. Proprio questo intende fare con il Giubileo: “annunziando Gesù di Nazareth, vero Dio e Uomo perfetto, apre davanti ad ogni essere umano la prospettiva di essere divinizzato e così diventare più uomo. È questa l’unica via mediante la quale il mondo può scoprire l’alta vocazione a cui è chiamato e realizzarla nella salvezza operata da Dio”[9].

 

L’“Umanesimo vocazionale” come contenuto centrale

Dentro questo respiro di ecclesialità prende autentica consistenza quello che potremmo chiamare “l’umanesimo vocazionale” secondo il Vangelo, mentre emerge chiara la sua congenialità con la celebrazione del Giubileo – in particolare questo Giubileo – come possibilità per tutti e come proposta offerta a tutti da Cristo, Dio fatto uomo affinché “gli uomini siano veramente uomini”[10]. Grazie a Lui, “è possibile essere uomini perché Dio si è fatto uomo” (Dietrich Bonoeffer).

La vita umana vale perché fiorisce da una chiamata ed è veramente vissuta se diventa una risposta. Essere vivi è dono perché si è chiamati e si vive davvero facendoci responsabili della risposta. Sono queste le due coordinate dell’umanesimo vocazionale secondo il Vangelo. In Cristo, il Padre “ci ha scelti, prima della creazione del mondo” (Ef 1,4). Scelti: non si tratta di scelta selettiva che privilegia e esclude. Ogni uomo o donna è “scelto” con una proposta personalizzata e personalizzante: originale e irrepetibile, perché ogni uomo o donna è un “tu” inedito del Padre. Questa è la mia identità: non mi capisco finché mi penso “io” di me stesso. Mi riconosco dalla voce che mi chiama “tu”. La Sua voce: “l’uomo diventa se stesso, quando cessa di dire io” (Marcel De Corte). Ed è questa coscienza di identità che svela ad ognuno la propria dignità di interlocutore e collaboratore di Dio.

Prima di esprimersi nella proposta e nella richiesta per una specifica destinazione ad uno stato di vita, la vocazione è lo stesso essere vivi. “Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo della educazione ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal Suo Creatore”[11].

Sono vivo e sono io, non un altro, perché Dio ha voluto aver bisogno proprio di me: la mia vocazione incomincia dalla gratuità con la quale Lui desidera che io lo aiuti a costruire me stesso, mentre con Lui e insieme agli altri, contribuisco al divenire del mondo e della storia. Di conseguenza, la vocazione, cioè, la chiamata dura tutta la vita e la dimensione vocazionale fa tutt’uno con la mia persona, la quale non si sviluppa assecondando ciò che desidero ma rispondendo a ciò che mi è chiesto. “Questa è la più grande esperienza nella vita di ogni essere umano: qualcosa mi viene chiesto. Oltre e al di sopra dei problemi personali, oltre e al di sopra del frastuono del desideri, vi è un appello, una richiesta, un’attesa, un’aspettativa. C’è una domanda che mi segue ovunque mi volti: che cosa ci si attende da me? Che cosa si richiede da me? (Abraham Heschel). Dentro questa richiesta sta l’amore del Padre che il “grande pellegrinaggio”, nel quale consiste “tutta la vita cristiana”, mi fa “riscoprire ogni giorno”[12]. Ed è questa la gioia dell’anno giubilare: scopro di essere amato perché sono richiesto.

 

Si risponde all’amore con l’amore

“In Lui ci ha scelti” (Ef 1,4). Riproponendoci l’inno paolino, il Papa ci chiama ad avviarci verso la soglia del terzo millennio, “con lo sguardo fisso al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio”[13], il quale “facendosi uomo, si è unito in certo modo, ad ogni uomo”[14]. La sua vita si prolunga nella nostra. La Sua vocazione e missione passano attraverso la nostra. Come in Lui, “il mistero della volontà del Padre” si è realizzato nella Sua esistenza umana, concreta e situata, così attende che la vita di ognuno di noi si apra ad accoglierlo, per “incarnarlo”, con il coraggio e la gioia di una libera compromissione.

Se vocazione è la vita stessa, bisogna che la risposta, pur rimanendo sempre aperta all’inedito di cui non chiede il preventivo, si faccia concreta con un impegno, nel quale ciascuno spende se stesso, il suo essere, con un Sì esistenziale che lo qualifica. La persona è “una”, non un carosello di personaggi: non si è nessuno se si vuole essere qualcosa di tutto. Ed il rischio c’è: inseguire tante esperienze, belle e forti, che durano quel tanto che basta per passare dall’una all’altra, sempre disponibili a fare, difendendo gelosamente il proprio essere, per rimanere disponibili, mentre non c’è libertà più bella di quella che sta dentro l’andare senza voltarsi indietro. I verbi evangelici della vocazione, infatti, sono “vieni dietro a me”, “rimani con me”, “va’!”. Non c’è ritorno. Persino il figlio prodigo, quando, “rientrò in se stesso” ed avvertì il richiamo del padre, non disse “ritornerò”, ma “mi leverò e andrò” (Lc 15,17-18).

Rispondere è donarsi, senza riprendersi. “L’uomo, il quale sulla terra è l’unica creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovare pienamente se stesso, se non attraverso un dono sincero di sé”[15]. C’è solo da aggiungere quanto questo “umanesimo vocazionale” venga incontro alle inquietudini ed alle speranze che attraversano la fine del secolo e del millennio, mentre il tramonto dei miti sull’autosufficienza dell’uomo e sull’assolutizzazione della soggettività ripropone a tutta la Chiesa l’urgenza di essere davvero e senza complessi “il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio”[16].

 

 

 

Note

[1] Cfr. Bolla di Indizione Apostolorum limina (Roma 1975).

[2] PAOLO VI, Gaudete in Domino, n. 7.

 [3] Ibidem.

[4] GIOVANNI PAOLO II, Tertio millennio adveniente, n. 18.

[5] GIOVANNI PAOLO II, Redemptor hominis, n. 13. 14.

[6] GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici, n. 36.

[7] Ibidem, n. 34.

[8] Gaudium et spes, n. 3.

[9] GIOVANNI PAOLO II, Incarnationis mysterium, n. 2.

[10] S. AGOSTINO, Commento al Salmo 35.

[11] PAOLO VI, Populorum progressio, n. 15.

[12] GIOVANNI PAOLO II, Tertio millennio adveniente, n. 49.

[13] GIOVANNI PAOLO II, Incarnationis mysterium, n. 1.

[14] Gaudium et spes, n. 22.

[15] Ibidem, n. 24.

[16] Ibidem, n. 40.